Tom Phillips – Lingua parentale

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Mia madre poteva avere lingua acuminata,
gli sciocchi proprio non li reggeva, e aveva
nella testa un prontuario di frasi,
calore ch’annullava la pinzata.

Più ottusa, la lingua di mio padre, e di parecchio ‒
le sue dozzine di parole per terra, aratura,
arnesi, alberi, uccelli, pesci, ruscelli ‒
dal suono denso, più lieve all’orecchio.

I due, fra loro, mappavano i grezzi
profili di classe, città e contado,
in fretta accozzati in tempi d’opulenza
e in mito tramutati dopo la ‘loro’ guerra.

Ho i miei dubbi che sarei riuscito a intendere
le parole dei miei nonni, sia materni che paterni.

*

Così ora, quando m’è richiesto d’insegnare
“inglese corretto”, resto in parte perplesso:
la mia presunta lingua-madre? O questo ‒
il compromesso cui è giunta la mia lingua?

Disorientato da molteplici fonti,
ci sono norme che non sono norme,
mi scopro a dire senza ragioni fondate,
distratto da risorse verbali ereditate.

Mio padre un cesto lo chiamava ‘corba’,
mia madre versi di pièce teatrali recitava.
La propulsione linguistica è s-viante
Pure, tentare si deve.

C’è un che di provocante
nelle copertine del dizionario.

*

Nel buio rilucente della via dell’ospedale,
qualcosa attende che gli si dia nome, e descrizione.

Troppo lontana o troppo vicina, resta fuori vista.
Ed è quasi come se l’avessi lasciata troppo tardi

per trovare un riparo in tempo quando la sorte
ti riporta una figlia a casa, la riporta

da una vita da migrante, l’accento di lei caduto,
vocali smozzicate in quell’altro paese.

E forse tutto sta nell’abdicare all’identità
o nel varcare una penultima fermata.

Non che mi fosse dato udire le tue ultime parole.
Quando m’informarono, tu eri bell’e andata.

La tua lingua s’era mutata in cellule disperse
senza più alcuna funzione significante.

*

Il che non lascia modo alcuno per dar conto
del cosa o del perché dei nostri resti,
scampoli d’accumulazione,
lettere, vasi, slide, un unico cappello
o l’ottone ossidato d’un accendino…

Come se un epitaffio breve, evanescente,
fosse tutto ciò che la lingua preserva!
E questo è un paradosso permanente:
ciò che lasciamo perché, oltre noi, resti
non fu mai davvero nostro.

Negli istanti seguenti il flusso salmastro,
la sabbia sempre la stessa pare ‒
benché le lettere inscritte sulla spiaggia
siano state spazzate via alla svelta.


Tom Phillips, Sofia, novembre 2020


Poesia scelta da Emilia Mirazchiyska, curatrice della serie
Traduzione di Angela D’Ambra

Revisione di Andrea Sirotti

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Tom Phillips è nato nel Buckinghamshire nel 1964. È scrittore freelance e docente ospite presso varie università britanniche e balcaniche. Vive a Bristol, Regno Unito, dal 1986, ma dal 2000 ha spesso viaggiato nella penisola balcanica e molti dei suoi interessi letterari e di ricerca sono focalizzati sulla regione. È stato pubblicato in molte riviste, antologie e opuscoli e ha pubblicato tre libri di poesia nel Regno Unito: “Recreation Ground” (“Terra di ricreazione”, Two Rivers Press, 2012), “Reversing into the Cold War” (“Inversione nella Guerra Fredda”, Firewater/Poetry Monthly, 2007) e “Burning Omaha” (“Bruciando Omaha”, Firewater, 2003) e un libro bilingue di poesia in Bulgaria: “Unknown Translations / Непознати преводи” (“Traduzioni sconosciute”, Scalino, 2016). È autore di numerosi spettacoli teatrali, di cui “Coastal Defences” (“Le Difese Costiere”, Tobacco Factory Theatres - Teatri della Fabbrica del Tabacco, Bristol, 2014) e “100 Miles North of Timbuktu” (“100 Miglia a Nord di Timbuctù”, Alma Tavern Theatre - Teatro della Taverna Alma, Bristol, 2013) hanno riscosso il più grande successo teatrale.

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