Mia madre poteva avere lingua acuminata,
gli sciocchi proprio non li reggeva, e aveva
nella testa un prontuario di frasi,
calore ch’annullava la pinzata.
Più ottusa, la lingua di mio padre, e di parecchio ‒
le sue dozzine di parole per terra, aratura,
arnesi, alberi, uccelli, pesci, ruscelli ‒
dal suono denso, più lieve all’orecchio.
I due, fra loro, mappavano i grezzi
profili di classe, città e contado,
in fretta accozzati in tempi d’opulenza
e in mito tramutati dopo la ‘loro’ guerra.
Ho i miei dubbi che sarei riuscito a intendere
le parole dei miei nonni, sia materni che paterni.
*
Così ora, quando m’è richiesto d’insegnare
“inglese corretto”, resto in parte perplesso:
la mia presunta lingua-madre? O questo ‒
il compromesso cui è giunta la mia lingua?
Disorientato da molteplici fonti,
ci sono norme che non sono norme,
mi scopro a dire senza ragioni fondate,
distratto da risorse verbali ereditate.
Mio padre un cesto lo chiamava ‘corba’,
mia madre versi di pièce teatrali recitava.
La propulsione linguistica è s-viante
Pure, tentare si deve.
C’è un che di provocante
nelle copertine del dizionario.
*
Nel buio rilucente della via dell’ospedale,
qualcosa attende che gli si dia nome, e descrizione.
Troppo lontana o troppo vicina, resta fuori vista.
Ed è quasi come se l’avessi lasciata troppo tardi
per trovare un riparo in tempo quando la sorte
ti riporta una figlia a casa, la riporta
da una vita da migrante, l’accento di lei caduto,
vocali smozzicate in quell’altro paese.
E forse tutto sta nell’abdicare all’identità
o nel varcare una penultima fermata.
Non che mi fosse dato udire le tue ultime parole.
Quando m’informarono, tu eri bell’e andata.
La tua lingua s’era mutata in cellule disperse
senza più alcuna funzione significante.
*
Il che non lascia modo alcuno per dar conto
del cosa o del perché dei nostri resti,
scampoli d’accumulazione,
lettere, vasi, slide, un unico cappello
o l’ottone ossidato d’un accendino…
Come se un epitaffio breve, evanescente,
fosse tutto ciò che la lingua preserva!
E questo è un paradosso permanente:
ciò che lasciamo perché, oltre noi, resti
non fu mai davvero nostro.
Negli istanti seguenti il flusso salmastro,
la sabbia sempre la stessa pare ‒
benché le lettere inscritte sulla spiaggia
siano state spazzate via alla svelta.
Tom Phillips, Sofia, novembre 2020
Poesia scelta da Emilia Mirazchiyska, curatrice della serie
Traduzione di Angela D’Ambra
Revisione di Andrea Sirotti