Andrea Taffi – 12 giugno 1922

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Se ne stava nella piazza a guardare il Duomo nuovo: era nervoso e avrebbe voluto entrare, ma non c’era tempo. Il Prefetto l’aveva convocato e, anche se non gli avevano detto il motivo, il commissario Landi lo conosceva lo stesso. Era per via di quel morto, quell’ardito del popolo senza documenti. Sconosciuto, anche ai giornalisti. Sì, perché quando si era trattato di dare loro la notizia dei fermi, il questore gli aveva ordinato di tacere “chè c’era scappato il morto”. Era una seccatura, e, a due settimane dal trasferimento, lo era ancora di più.

S’incamminò. Per come la vedeva lui, l’operazione era riuscita perché, quando ci sono di mezzo i sovversivi, il morto si deve mettere in conto; tanto più se quelli, i sovversivi, sono gli arditi del popolo: tutta gente che non se stava ferma a prendere botte, nemmeno quando a darle erano i fascisti.

Arrivato a palazzo Broletto, entrò e subito alzò lo sguardo verso il gabinetto del prefetto. Nel cortile sentiva solo il mormorio dell’acqua della fontana che aveva davanti; pensò al proprio ufficio in commissariato e a come, da lì, gli sarebbe piaciuto ascoltare quel suono, invece del chiasso della gente in strada. Brescia era fuori da quel cortile, eppure sembrava che non ci fosse.

Il prefetto era in piedi, alla finestra, e pregò Landi di accomodarsi.

«Allora, commissario», disse, «ditemi se è esatto: avete fermato quarantasette pericolosi sovversivi che si erano radunati alla Camera del Lavoro per ricostituire la vecchia sezione degli Arditi Del Popolo. Avete sequestrato granate, bombe, rivoltelle e coltelli». Scosse la testa. «Ce n’è anche uno con la punta della lama mozzata. È giusto?».

«Sì, signor prefetto».

«E poi c’è quel morto» aggiunse il prefetto, guardando fuori, nel cortile. Fece una pausa. «Lo sentite, commissario?».

«Che cosa?».

«Il rumore dell’acqua. Lì, sotto, nel cortile. Si sente solo questo nel palazzo. E a volte mi fa impazzire». Sospirò. «Dovrò riferire tutto al Presidente Facta, ma non posso farlo adesso». Si voltò. «E sapete perché?».

«Per quel morto, immagino» rispose Landi. Avrebbe voluto essere nel Duomo nuovo.

Il prefetto annuì.

«Intendiamoci», precisò, «non è per il morto in sé, figuriamoci. È solo che non sappiamo chi è». Al commissario il tono sembrò di rimprovero.

«Non aveva documenti», spiegò Landi, «e i suoi compagni si rifiutano di dirci il nome». Sperò che quella non sembrasse solo una giustificazione.

Il prefetto lo fissò a lungo, prima di continuare.

«Voi, commissario, siete toscano, non è vero? E non vedete l’ora di tornarvene a casa».

“E questo che c’entra?”, pensò Landi infastidito. Ma si limitò ad annuire.

«Capite bene che quel nome deve saltare fuori. Del resto, se ammazziamo qualcuno dobbiamo anche sapere chi è, non vi pare? Anche quando si tratta di sovversivi. Avete due giorni di tempo per trovare quel nome», concluse guardando il cortile, «e poi potrete tornare a casa».

Landi entrò nel suo ufficio, si sedette alla scrivania e fece chiamare Lissia. Poi, per non sentire il baccano della strada, si mise a pensare. L’agente scelto Lissia era sardo e anche lui sarebbe tornato presto a casa. Avrebbe voluto lasciarlo in pace, ma aveva bisogno di dividere con qualcuno il peso che il prefetto gli aveva messo sulle spalle, qualcuno che quel peso lo sentisse più degli altri. Il rischio di non tornare casa per un po’ non voleva correrlo da solo.

«Quando te ne torni in Sardegna?» chiese il commissario appena Lissia gli fu davanti.

«Tra una settimana».

«Ascoltami: il prefetto vuole sapere il nome di quell’ardito morto ieri alla Camera del Lavoro. Abbiamo due giorni per scoprirlo. Dopo potrai tornare a casa».

Con quelle ultime parole, le stesse che il prefetto aveva usato con lui, gli sembrò di aver legato il suo futuro a quello di Lissia. L’agente scelto rimase immobile, in piedi di fronte alla scrivania. Fissava il commissario e pensava. Landi abbassò lo sguardo. Era una debolezza che non poteva permettersi, ma quello gli faceva pena e, in più, si vergognava. Il commissario non lo sapeva, ma Lissia sarebbe stato trasferito comunque. Un cugino, sottosegretario al Ministero della Guerra, contava molto di più di un prefetto arrabbiato e di un morto senza nome. «Prendi due o tre di quegli arditi», gli ordinò Landi guardandolo, «e interrogali di nuovo. Fatti dire chi era il morto».

«Io?» si stupì Lissia.

«Non deve sembrare un vero interrogatorio. Fai loro qualche domanda senza importanza. Se lo faccio io, capiscono subito che mi interessa quel nome e allora chiudono la bocca ancora di più. Sono sicuro che con te abbassano la guardia, si tranquillizzano e quel nome, magari, salta fuori».

Lissia rimase in silenzio.

«Beh, che c’è?» gli domandò Landi.

«Dottore, non so se posso permettermi…».

«Lissia, dimmi che c’è».

L’agente scelto si decise. Anche perché aveva pensato prima a quello che stava per dire.

«Con tutto il rispetto, commissario, credo che sia inutile interrogarli».

«E perché?».

«Come sapete bene, dottore, tra i coltelli sequestrati, c’è n’é uno con la punta della lama mozzata. È…».

«Certo che lo so. E allora?» lo interruppe Landi.

«È un coltello sardo. Una leppa guspinese, per essere più precisi. Lo usano i minatori».

Il commissario lo fissò per un momento.

«Siediti» gli ordinò, e lui ubbidì. «E che ci fa un coltello sardo a Brescia?».

Appena vista la leppa anche Lissia s’era fatto la stessa domanda.

«Nessuno dei fermati è sardo», rimuginò, «o ha origini sarde o ha mai fatto il minatore in Sardegna. Quindi, secondo me, quel coltello non può essere di nessuno di loro».

«Allora è del morto». Landi l’aveva detto più a se stesso che a Lissia.

«Può darsi, commissario. Anche se io credo di no».

«Perché?».

«Perché un sardo non si libera mai del suo coltello, mai. Capite, commissario?».

Si sentirono le urla di una mamma che, in strada, richiamava il figlio. Il commissario pensò al prefetto e alla fontana di palazzo Broletto.

«Potrebbe essere un minatore sardo venuto a cercare lavoro in continente» disse.

«Ci ho pensato anch’io, dottore, ma in Sardegna il lavoro in miniera non manca e non c’è bisogno di andarselo a cercare in continente. Credo che ci sia un altro motivo che può aver costretto il padrone del coltello a lasciare la Sardegna, portandolo con sé».

Il commissario cominciò a sentirsi a disagio, sembrava lui il subalterno.

«Quale?» domandò.

«La guerra».

«La guerra? Quindi, secondo te, il nostro morto era un soldato».

«Sì, dottore».

Landi sorrise.

«Già, come la gran parte di quelli che abbiamo fermato» Rimasero per un po’ zitti, poi il commissario continuò. «Supponiamo che tu abbia ragione, Lissia. Ti sei chiesto che ci faceva il nostro soldato a Brescia?».

«Sì, dottore, me lo sono chiesto. E forse la risposta l’ho trovata. Il morto non era sardo, era un continentale, magari di queste parti, e il coltello glielo ha dato un commilitone sardo».

«Ma se hai detto che i sardi non si liberano mai del loro coltello».

«Quando sono vivi, non quando stanno per morire. Magari mi sbaglio, ma credo che il padrone della leppa si fidasse molto dello sconosciuto morto, tanto da affidargliela, magari perché gliela riportasse a casa».

Il commissario si passò una mano sulla faccia.

«E scommetto che sai anche dove cercare quel nome» disse.

L’agente scelto fece di sì con la testa.

La Brigata Sassari era composta da due reggimenti, il 151° e il 152°, ed era stata formata per radunarvi la gran parte dei fanti sardi dell’esercito. Per quello la “Sassari” era stata il primo posto dove Lissia era andato a cercare. Aveva chiamato il Ministero della Guerra e detto di essere un poliziotto, e il cugino del sottosegretario. Voleva sapere se della Brigata Sassari avessero fatto parte fanti di Brescia o di qualche paese vicino, e chi, tra quelli, fosse sopravvissuto alla guerra. Il nome, perché solo un nome era saltato fuori, glielo dissero tre ore dopo: Antonio Andrini. Era nato a Calcinato, dove faceva il contadino e dove, finita la guerra, era ritornato. Per essere certi che fosse lui lo sconosciuto morto, bisognava, però, aspettare che il suo fascicolo, con le foto e tutto il resto, arrivasse dal Ministero.

«Non c’è l’ho tutto questo tempo» sbottò Landi. Aveva fretta di dare quel nome al prefetto.

«Ma potrebbe non essere lui» gli disse Lissia.

Landi sospirò.

«Ci penserà il prefetto a scoprirlo». E si alzò dalla scrivania.

«Potremmo andare a Calcinato» propose l’agente scelto. Landi era già davanti alla porta dell’ufficio.

«E a fare che?» chiese voltandosi. «Se è lui il morto, non lo troveremo di certo a Calcinato. Se invece lo troviamo lì a bersi un bicchiere di vino, avremo solo scoperto che non andremo a casa per un po’. No, andrò dal prefetto e gli darò ‘sto benedetto nome» concluse. E uscì.

In fondo al corridoio notò un uomo che parlava col piantone. Agitava qualcosa e sembrava preoccupato.

«Le ripeto che sono di Antonio Andrini» sentì dire all’uomo quando fu più vicino.

L’avvocato Donegani teneva stetti nelle mani i documenti di Antonio Andrini. Dall’altro lato della scrivania, il commissario lo fissava. Lissia, seduto davanti alla macchina per scrivere, era pronto a verbalizzare.

«Conosco Andrini da una decina d’anni» iniziò l’avvocato. «Lavorava come contadino nelle terre di mio padre, a Calcinato. Io amministro quei terreni e Andrini lo conosco perché è una brava persona». Fece una pausa. «E perché sono stato costretto a licenziarlo».

«Perché? Che cosa aveva fatto?» chiese Landi.

Donegani scosse piano la testa.

«Niente. Glielo ho detto, commissario, è un brav’uomo, uno che ha sempre lavorato, che non ha mai dato noie. Gli altri contadini alle volte protestano, chiedono paghe migliori. Lui no, non ci ha mai chiesto niente. Lavorava e basta».

«E allora perché l’avete licenziato?».

L’avvocato sospirò.

«Me l’ha ordinato mio padre. E a lui glielo ha ordinato Spagnoli».

«E chi sarebbe questo Spagnoli?».

«Un fascista, Uno che si crede il Ras di Calcinato. Ha molta influenza su mio padre, e odia Andrini».

Landi si illuminò.

«Perché Ardito Del Popolo?».

Donegani sorrise.

«No, commissario. A lui la politica non interessa».

«Ne siete sicuro, avvocato?» chiese brusco Landi. Quel sorriso l’aveva irritato.

«Ma perché, lui che vi ha detto?».

Landi abbassò lo sguardo.

«Niente» bisbigliò.

Ci fu un momento di silenzio, poi Donegani continuò.

«Andrini non è come tutti gli altri, non dà retta ai fascisti, non si piega. Spagnoli e quei quattro disgraziati che comanda non riescono nemmeno a picchiarlo. L’avete visto anche voi, commissario, è grande e grosso e non ha paura di nessuno. Per questo Spagnoli lo odia e ha deciso di rovinarlo usando la sua influenza su mio padre. L’altra sera sono andato a Calcinato per dirgli che lo dovevo licenziare. Ero con lui all’osteria, quando sono arrivati Spagnoli e i suoi uomini. Hanno cominciano a urlare, hanno fatto alzare tutti e li hanno mandati a casa a calci nel sedere. Andrini no, l’hanno lasciato in pace, e non solo perché era con me. Appena quelli sono entrati lui ha estratto un coltello e l’ha piantato sul tavolo».

«Un coltello con la punta della lama mozzata?» chiese Landi.

«Si, commissario. Non ne avevo mai vista una così. L’ha piantato con una tale forza che tutti si sono bloccati dalla paura. Non sapevo nemmeno che Andrini possedesse un coltello. Mi disse che non era suo, che glielo aveva dato un commilitone sardo prima di morire, uno del quale si era conquistato il rispetto».

Landi e Lissia si guardarono per un momento.

«E Andrini come reagì al licenziamento?» chiese il commissario.

«Se l’aspettava, almeno così mi sembrò. Gli dissi che era stato Spagnoli a ordinarlo a mio padre, ma lui non reagì».

«E i documenti? Come mai li avete voi?».

Donegani li poggiò sulla scrivania. Landi dette un’occhiata alla foto, poi guardò Lissia e gli fece di sì col capo.

Donegani pensò fosse una cosa di poliziotti.

«Andrini è venuto nel mio studio, qui a Brescia», rispose, «e me li ha affidati. Mi disse che era venuto a cercare lavoro e, per prima cosa, sarebbe andato alla Camera del Lavoro. I documenti non era abituato a portarli con sé e temeva di perderli. Per tutto il viaggio in corriera non ha fatto altro che controllare se erano nella tasca della giacca». Sorrise. «Nessun Ardito Del Popolo ha paura di perdere i documenti, non credete commissario? Mi disse che se glieli avessero chiesti, avrebbe detto che li custodivo io. Poi ho letto sul giornale dei fermi alla Camera del Lavoro, ma lì per lì non c’ho fatto troppo caso. Non potevano certo averlo arrestato. Era andato solo per cercare lavoro».

Lissia smise di verbalizzare.

«Beh, che c’è?» gli domandò brusco Landi.

«Scusate commissario» disse Lissia, riprendendo. Donegani continuò.

«Ma poi ho pensato che, magari, era stato arrestato per sbaglio. Forse perché non aveva i documenti. E allora sono venuto qui».

«Avete fatto bene, avvocato» affermò il commissario.

«Posso testimoniare che lui non c’entra niente con gli Arditi Del Popolo» ribadì Donegani.

Landi si alzò. «Avvocato, per favore, venite con me».

E, prima che l’avvocato potesse domandare la destinazione, il commissario, con garbo deciso, l’aveva già spinto oltre la porta del proprio ufficio, incamminandosi insieme a lui.

Il commissario uscì da palazzo Broletto e si fermò nella piazza, di fronte al Duomo nuovo. Le chiese gli piacevano, ma non per la religione o per l’arte. Stare lì dentro, seduto a pensare, lo calmava. “Le soddisfazioni che una chiesa può dare, anche a chi non crede”, pensò entrando. L’avvocato Donegani si era sentito male davanti alla porta dell’obitorio, ma si era fatto forza e aveva riconosciuto il cadavere di Andrini. Il coltello, invece, non l’aveva visto perché Landi non aveva avuto l’animo di mostrarglielo.

Il prefetto aveva ascoltato il rapporto del commissario in silenzio, passando dalla soddisfazione all’incredulità e poi alla rabbia.

«Non era un Ardito Del Popolo», aveva grugnito alla fine, «era alla Camera del Lavoro per caso, e l’avete ammazzato lo stesso». Poi aveva scosso il capo «Se Facta penserà che avete ammazzato un povero contadino vessato dai fascisti, scambiandolo per un Ardito Del Popolo, la colpa sarà solo vostra, commissario. E addio Toscana». E con quelle parole aveva chiuso il discorso.

L’avvocato Donegani entrò nel Duomo, vide Landi e lo salutò con un gesto del capo, poi si inginocchiò su una panca e iniziò a pregare.

L’agente scelto Lissia era già alla stazione e ascoltava, con piacere, lo sferragliare stridulo del treno, diretto a Civitavecchia, mentre frenava sul binario. Appena Landi e l’avvocato erano usciti dal commissariato per andare all’obitorio, aveva chiamato il cugino sottosegretario. E l’ordine di anticipare il trasferimento era arrivato subito.

Racconto breve secondo classificato nel concorso lettrario “Muri di storie”