– Ciao, Franco! Come stai?
Franco e io eravamo stati assunti più o meno nello stesso periodo alla Sibarion Energetica, una trentina d’anni fa.
A quei tempi, io ero un operaio addetto alle manutenzioni, lui un giovane tecnico di Cad/Cam. Un disegnatore, insomma. Ma ci conoscevamo da prima.
A dodici o tredici anni, condividevamo la passione per la seconda guerra mondiale, la più grande fabbrica di storie e di dolore dell’umanità. Eravamo ragazzini appassionati. Leggevamo tutto quello che riuscivamo a trovare in giro: libri, articoli, fumetti; giocavamo coi soldatini, collezionavamo fotografie. Avevamo persino messo insieme il B-29 Superfortress in scala 1:72, un pezzo forte della Airfix, comprato risparmiando le paghette; chissà che fine ha fatto quel modellino. Ricordo ancora la nostra delusione quando, tra le decalcomanie da applicare alla carlinga, non avevamo trovato quelle dell’Enola Gay, il bombardiere di Hiroshima. Ci eravamo rimasti malissimo. Forse è stato lì che abbiamo perso l’interesse, chissà.
Poi siamo cresciuti e ci siamo ritrovati qui, colleghi. A quei tempi, la Sibarion era piccola, soltanto un centinaio di persone, ci si conosceva tutti. Da allora, lui pian piano ha fatto carriera, io sono diventato saldatore certificato; lui ha cambiato sede, io ho seguito un progetto in Camerun, uno in Egitto, uno in Montenegro. Insomma, per troppo tempo ci siamo persi di vista.
Adesso Franco è uno dei responsabili di progettazione. Lo rivedo dopo… Quanti anni? Otto? Forse dieci, o undici. È seduto al tavolo ovale della sala riunioni, una zona delimitata da pareti trasparenti ficcata al centro del reparto.
È cambiato, Franco.
Rispetto a come lo ricordo, una dozzina di chili in più. Il viso gonfio. I capelli, pochi. Mi domando se anch’io sono invecchiato in maniera tanto evidente. Insieme a lui, al tavolo ovale, c’è soltanto un’altra persona, uno che non conosco, un giovane ingegnere: è una di quelle micro-riunioni poco importanti nelle quali ci si può permettere di staccare per due parole tra vecchi colleghi. Mi avvicino e gli appoggio una mano sulla spalla.
– Insomma, – risponde lui finendo di cliccare qualcosa al portatile. Alza lo sguardo e mi fissa. Occhi sereni. – Ho un tumore. Non lo sapevi?
No, non lo sapevo.
La sua domanda mi dice che devo essere rimasto uno dei pochi non al corrente. Mi dispiace. Però nella sua voce calma non ho letto preoccupazione, o dolore. O rimprovero. Il tono era leggero, come avesse fatto una considerazione sul tempo: fa caldo oggi, sai? Questo, è ciò che più mi colpisce. Ecco che cosa significa perdere i contatti con un vecchio amico per tanto tempo.
– No, – replico – non sapevo nulla…
– All’intestino. Da due anni.
È strano a dirsi, ma non provo imbarazzo o resistenze. È grazie alla sua calma, al suo atteggiamento.
– Ma ora, come ti senti?
– C’è una recrudescenza, dovrò ripetere la chemioterapia, – dice riprendendo qualche attività sul laptop, ma così, distrattamente.
Il collega più giovane, seduto di fianco, si è rifugiato nella decifrazione di un foglio Excel, il pugno chiuso davanti alla bocca, la fronte aggrottata.
– Mi dispiace. Però ’ste cose qua oggi si gestiscono, l’importante è riuscire ad affrontarle… – “in tempo”, stavo per dire, ma mi sono frenato. Non so a che stadio sia.
– Esatto. E poi non è in metastasi. Una fortuna. Me l’hanno trovato per caso. Non avevo sintomi, stavo bene.
– Meglio così, vuol dire che non era avanzato.
La sua apparente serenità ha messo anche me nelle condizioni di parlare del suo cancro con naturalezza. Franco, un coraggioso. Il suo, lo si vede, non è l’atteggiamento di chi si sta convincendo che tutto va bene mentre pian piano il tuo corpo ti sta lasciando. Franco è un razionale.
Non freddo: razionale.
– Ero andato a farmi fare un controllo ma così, toh, proprio per. Lo consigliava la mia dottoressa. Mio padre era morto per quella roba lì alcuni anni prima. Lei ha pensato che fosse meglio fare una colonscopia. Sai, l’età, la familiarità. E infatti, me l’hanno trovato. Ha avuto l’intuizione giusta. Adesso ho la deviazione.
La deviazione! Mica uno scherzo. Di colpo, mi piomba addosso la consapevolezza della gravità della sua malattia. – Che cazzo fai qui, allora? Com’è che non te ne stai a casa?
– Ma no. Credevo che fosse una cosa complicata e invalidante. Invece, pensa te, dopo l’intervento mi hanno spiegato come si fa, io ho subito provato, ci sono riuscito e mi sono detto: “Tutto qui? Fosse soltanto per questo, ci faccio la firma”. Il problema è che domani riprendo la chemio.
Attorno a noi, dietro alle pareti di vetro, la vita dell’ufficio trascorre indifferente. Impiegate rispondono al telefono. Colleghi scrivono mail. Senza sfiorarsi, ognuno nel suo guscio di pelle che isola gli uni dagli altri. La pelle, un confine impermeabile tra il nostro corpo e i nostri simili. Siamo tutti soli. Altro che “empatia”.
– Però sono contento di vederti sereno.
Il collega giovane sposta la sedia, clicca col mouse, sbatte la palpebre nervoso. Non gli facciamo caso.
– Ma guarda, che vuoi farci. Vado avanti. Il lavoro è sempre tanto, lo sai anche tu.
– Non c’è solo il lavoro.
Adesso Franco sposta avanti il portatile, incrocia le braccia, annuisce e sorride, sorride proprio, come allora, quando era lui a vincere le battaglie coi soldatini. – Sto progettando un viaggio negli States. Dopo la chemio, in primavera. Voglio andare nel Nevada, voglio vedere il Sedan crater. Lo sai che cos’è?
Scuoto la testa.
Franco riprende il computer, apre la rete, digita in Google.
– C’è un posto che si chiama “Nevada test site”. È il poligono dove facevano i test nucleari negli anni Cinquanta e Sessanta. Guarda. Si può visitare.
Mi mostra l’immagine di un cratere nel deserto. Avrà un diametro di qualche centinaio di metri. Lì, dice la didascalia, nel 1962 è stato eseguito un test termonucleare con un ordigno depositato a circa duecento metri sotto la superficie del deserto. Ed è vero, il cratere si può visitare: c’è la foto di una comitiva affacciata al parapetto di una piattaforma d’osservazione.
Agghiacciante.
– Non è pericoloso?
– No, l’unico problema è che bisogna prenotarsi con mesi di anticipo. Appena finito il ciclo di chemio, prenoto. Faccio tre giorni a Las Vegas, partono da lì i tour. Dopo il test site, noleggio una macchina e guido fino a San Francisco, voglio visitare i laboratori Lawrence Livermore, lì vicino. Qualche giorno a Los Angeles per vedere Hollywood, e poi su fino a Seattle. Devo ancora decidere per questa tappa, se in aereo o in macchina… Voglio arrivare a Hanford, dove c’erano i reattori che negli anni Quaranta producevano plutonio per il progetto Manhattan, e anche per dopo. Li hanno smantellati tutti tranne uno, che adesso è monumento nazionale.
– Quanti chilometri farai? Sarà una faticata.
– Tanto vado leggero, da solo, lascio a casa i figli e la moglie. Loro non vogliono, ma io so che posso.
– Ehm… Mi scusi, ingegnere…
È il collega giovane che interviene.
– …dovremmo chiudere la presentazione entro le undici. Abbiamo poco tempo.
– Hai ragione, Riccardo. Il tempo; non basta mai.
* * *
Non ho più rivisto Franco. Non so se abbia visitato il Sedan crater, se sia guarito o se non ce l’abbia fatta. Una settimana dopo quell’incontro, ho dato le dimissioni.
Non ho nemmeno più sentito nessuno dei vecchi colleghi. Evito.
Mi hanno dato una buona liquidazione.
Ora vivo in Portogallo, appena fuori Lisbona. Si sta bene, qui. Buon clima, buona cucina, buona assistenza sanitaria. A differenza di Franco, io non ho voluto figli, e gli affetti della mia vita non sono legami. Tanto, siamo tutti soli. Gli amici e l’Italia non mi mancano soltanto perché sono lontano: oggigiorno mantenere contatti è davvero facile, lo sapete. A ogni buon conto, sto imparando la lingua.
Visito i musei, vado al mare, scatto fotografie, vado al cinema. I pensionati portoghesi giocano volentieri a carte con me perché perdo sempre, e mi offrono da bere. Mi piace il baccalà come lo servono in certe trattorie dell’Alfama che sembrano ancora posti veri. Costa poco. Qui, tutto costa poco. Fatti i conti, posso vivere rosicchiando il patrimonio fino alla fine del mio tempo.
Ho venduto un appartamento eredità dei miei. Ho venduto anche la macchina. Non ho quasi più niente, se non ciò che mi serve.
Mi piace, alle volte, concedermi il lusso di una gita banale, un pomeriggio. Prendo il treno fino a Sintra, e da lì c’è un autobus bianco che porta fin sulla costa. Scendo a Cabo da Roca, il punto più a ovest del vecchio continente.
Ci trovo sempre troppi turisti per i miei gusti, ma la scogliera alta sul mare, il faro, il vento e l’Atlantico, me li fanno dimenticare. Resto una mezz’ora, un’ora seduto, e guardo verso occidente.
Cinquemila chilometri più in là, c’è il Sedan crater.
Magari un giorno andrò anch’io a vederlo.
L’importante è arrivarci leggeri.
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