Finzione e realtà: intervista a Maurizio De Giovanni

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Maurizio de Giovanni, scrittore pluripremiato, sceneggiatore e drammaturgo, è tra i giallisti italiani più amati da pubblico e critica. Lo abbiamo incontrato insieme ai suoi romanzi Nozze per i bastardi di Pizzofalcone (Einaudi, 2019) e Dodici rose a Settembre (Sellerio, 2019) nell’ambito della rassegna letteraria Libri in Movimento, a Brescia. Con lui abbiamo parlato, oltre che del suo mestiere di scrittore e dei suoi temi, di sogni e legami spezzati, di personalità ferite e imperfette, di ombre e luci che filtrano tra le crepe del vivere quotidiano.

Maurizio, sei in attività da circa una quindicina d’anni…
Ero attivo anche prima, eh… Diciamo non sono arrivato senza far niente a quindici anni fa.

No, prima facevi il bancario.
Sì, andavo in banca con una certa continuità. Dire che lavoravo in banca è un po’ troppo, però diciamo che ci andavo. Dopo sono cambiate le cose.

Non andavi solo in banca, da giovane sei stato ance uno sportivo. Sei attivo come scrittore dal 2005, 2006 e hai già circa trenta romanzi al tuo attivo. Il tuo primo personaggio importante, uno dei più significativi e suggestivi della narrativa italiana, è il commissario Ricciardi. Hai terminato la sua serie lo scorso anno, con Il pianto dell’alba. C’è la possibilità che un giorno qualcosa del mondo di Ricciardi torni ancora nelle tue prossime pubblicazioni?
Ricciardi è stato difficile da chiudere. Non ero stanco di raccontare Ricciardi, e l’editore era tutt’altro che stanco di pubblicarlo, perché quella di Ricciardi per fortuna è la serie più amata d’Italia, dopo quella del grandissimo Andrea Camilleri con Montalbano; quindi la progressione delle vendite di Ricciardi era in netta crescita. Credo, però, che uno scrittore debba ai suoi personaggi una chiusura, quando la storia ha uno snodo narrativo che la preveda. Ho sempre pensato che avrei finito di raccontare Ricciardi nel 1934, cioè quando questo Paese ha smesso di essere un posto di cui è possibile avere nostalgia. Fino al ’34 il regime non era ancora propriamente un regime, nel senso che non era ancora così oppressivo come è diventato poi. Il ’34 è l’anno dell’Impero, l’anno delle sanzioni internazionali nei confronti dell’Italia per la conquista militare dell’Africa nordorientale; l’anno in cui in Germania c’è la “notte ei lunghi coltelli” e quindi anche il regime nazista diventa propriamente un regime. Il mondo cambia, quindi raccontare Ricciardi dopo il ’34, mi sarebbe sembrato difficile: avrei avuto difficoltà io a raccontare quel mondo, quell’universo così. Ho scoperto quello che sarebbe successo ne Il pianto dell’alba poco prima di incominciare a scriverlo, perché non l’avevo pianificato.
Tutti gli scrittori vorrebbero scrivere una serie, perché la serie ti consente di andare a districare nuovi personaggi, ti consente di fidelizzare i lettori, ma sono i lettori che decidono quando una storia deve diventare una serie: lo decidono leggendo i libri, chiedendone altri, chiedendo altre storie. Io avrei voluto continuare Ricciardi, ma in questo libro succedono cose che non consentono di continuare quella storia, almeno non negli anni Trenta. Ho curiosità di sapere che cosa succede a tutti quei personaggi, ai personaggi che sopravvivono naturalmente. Potrei, prima o poi, andare a vedere, però credo non negli anni Trenta. Mi intriga raccontare gli inizi degli anni Sessanta, quando questo Paese torna ad essere un Paese interessante da raccontare, secondo me, perché torna a essere un Paese con degli entusiasmi, con delle prospettive, povero ma anche pieno di speranza. Potrei forse andare a vedere che cosa è successo a queste persone agli inizi degli anni Sessanta; più in là, però, non ora.

L’anno scorso è uscito Il pianto dell’alba, ma anche altri tre tuoi romanzi. Scrivi quattro romanzi in un anno: penso che siamo ai livelli di Simenon, di Scerbanenco…
Scrivo tanto anche per spezzare un po’ lo stereotipo del napoletano pigro, per alterare la convinzione che i napoletani sia
o sfaticati: io cerco di fare media.

Poi collabori alle sceneggiature delle fiction Rai, alle riduzioni a fumetti, e fai anche teatro. Tra queste attività qual è quella che ti interessa di più, che ti fa più piacere, che ti diverte?
Io sono un commentatore sportivo professionista: il resto è tutto hobby. Faccio tutto il resto unicamente per mantenermi nella mia attività principale, che è quella di vedere le partite, per un fatto religioso, proprio. Chi ha letto Il resto della settimana, che è, credo, il mio miglior romanzo, sa bene ciò che significa tifare per una squadra: è una malattia. D’altra parte, non si chiamerebbe tifo se non fosse una malattia. E quindi, diciamo, l’attività di seguire il calcio mi diverte di più.
Penso che la cosa più bella sia scrivere i romanzi. Scrivere i romanzi è la cosa più difficile, ma anche la più coinvolgente. La lettura è un’attività diversa da tutte le altre forme di fruizione di una storia. Davanti a uno schermo noi siamo passivi, vediamo quello che ha immaginato qualcun altro, non abbiamo bisogno di immaginare; quello che vediamo, quello è: un attore biondo con gli occhi azzurri è un attore biondo con gli occhi azzurri per tutti quelli che lo guardano, in televisione o al cinema, e anche a teatro. Quando uno legge un romanzo, invece, parte per un viaggio: è attivo, deve lavorare. La lettura è un’attività, non una passività. Quando io leggo non posso stare su facebook, non posso rispondere a un messaggio su WhatsApp; o leggo o sto su facebook. Quando guardo un film o un telefilm posso tranquillamente, nel contempo, andare sui social o anche pensare ai fatti miei. Se leggo un libro, nel momento in cui penso ai fatti miei, devo tornare indietro al punto in cui ho incominciato a pensare ai fatti miei, sennò non capisco più niente della storia. Questo fa capire perché la lettura è una cosa tutta diversa dalle altre.
Scrivere un romanzo è difficile perché devi portare il lettore in viaggio: lo devi portare in un altro posto, lo devi portare via. Però è anche estremamente gratificante, perché sei l’unico tramite tra il lettore e la storia, cioè l’unico che può dare al lettore i punti di riferimento per fare il lavoro che il lettore deve fare. Quando io faccio un film, che lo vedano un milione di persone o dieci, è lo stesso film, uguale. La lettura cambia di persona in persona: c’è questa magia straordinaria nella scrittura, e nella lettura più ancora che nella scrittura. Io sono convinto che il vero talento risieda nella lettura, non nella scrittura. Lo scrittore inventa una storia, il lettore inventa una storia nel libro che legge. Quindi la lettura è la cosa più bella e speciale.
Il teatro è divertente, perché nel teatro hai il vincolo della scena, mentre nei film puoi dire Panama, Cuba e poi il problema di portare tutta la truppa a Cuba o a Panama è della produzione; nel teatro hai un’unica scena e devi giocare con quella. Quindi il teatro è divertente. La scrittura dei romanzi è la parte più bella. Poi si va a scalare fino alla sceneggiatura, che è la parte meno divertente, e la sceneggiatura per la Rai, che è meno divertente ancora, perché lì devi scontrarti con misteriose logiche interne, che la maggior parte delle volte sono incomprensibili agli esseri umani. Personalmente penso che il romanzo sia la parte più bella, e anche quella più comoda, perché si fa in pigiama: è la parte meno tesa del lavoro, insomma.

Veniamo a uno dei tuoi ultimi romanzi, Dodici rose a Settembre. Settembre scritto in maiuscolo: non è il mese, ma il nome della protagonista, un nuovo personaggio destinato a diventare seriale, e che era già comparso in un racconto. Mina Settembre è un’assistente sociale, sottopagata, che lavora in un fatiscente consultorio familiare nei Quartieri Spagnoli di Napoli: una situazione abbastanza tesa, pesante, un po’ hard. Eppure la scrittura è molto rilassata, leggera. I personaggi sono quasi delle macchiette, talvolta, anche se c’è un contenuto forte, perché si parla anche di violenza familiare. Poi, naturalmente, c’è un caso di omicidio da risolvere. Vuoi dirci qualcosa di questa nuova protagonista?
Non mi sono mai divertito tanto a scrivere un personaggio come mi è accaduto con Mina Settembre. Scrivevo e ridevo, il che, anche per i familiari, è una cosa inquietante… sentire uno che scrive e ride. Il tono della scrittura è una cosa che può variare, anche senza variare l’argomento di cui si parla. La scrittura in commedia, in Italia, per i libri gialli, la fa benissimo Marco Malvaldi, con la sua serie del BarLume, ma anche con altri suoi bellissimi romanzi. Marco è uno scrittore straordinario e divertentissimo. A me andava di provarci. Penso che uno scrittore abbia il dovere di divertirsi: se non si diverte lo scrittore è difficile che si divertano anche i lettori.
Trovare la formula del successo e continuare a replicarla costantemente, solo perché ha avuto successo, ti fa diventare un produttore di detersivi o di tonno in scatola, non ti fa fare lo scrittore, secondo me. Lo scrittore, invece, deve provare diverse strade, perché si deve divertire. Avevo la commedia ne I bastardi, con il personaggio di Aragona, in Ricciardi con Bambinella, perfino in Sara, con Pardo e con il suo cane; però a scrivere direttamente in forma di commedia, in maniera estesa, non ci avevo mai provato.
Mina è stato un esperimento. Volevo uscire nello stesso catalogo di Andrea Camilleri. Andrea Camilleri è, a mio modo di vedere, il più grande narratore italiano degli ultimi cinquant’anni, quello che ha portato in libreria, di nuovo, un sacco di italiani che non leggevano. La sua straordinaria capacità narrativa corrisponde alla persona meravigliosa che era Andrea. Ho avuto la fortuna di essere suo amico, nella parte finale della sua vita, e quando per scherzo gli chiedevo: «Senti, Andrea, ma tu da grande che vuoi fa’?», lui diceva: «Io voglio sedermi sul bordo della fontana del mio paese, raccontare le storie e girare col cappello; e poi risedermi e raccontare un’altra storia». E questo è il senso, alla fine, di quello che dovremmo fare tutti; senso che dimentichiamo perché poi diventa un’industria. Mi capita, talvolta, di incontrare dei colleghi, degli scrittori, che si comportano come se fossero depositari di chissà quale assoluta verità. Lo scrittore è uno che inventa storie: non ha trovato la cura del cancro. È uno che inventa storie più o meno divertenti, più o meno interessanti, più o meno profonde, ma sempre storie inventate sono. Sono molto critico nei confronti di scrittori che, man mano che vendono copie, si gonfiano. Penso che sia ingiusto, che sia una presa per i fondelli, dove i fondelli sono un eufemismo naturalmente, e credo che invece la narrativa debba essere narrativa. Se a me viene di raccontare una storia sorridendo, devo poterla raccontare sorridendo. Quindi Mina serve innanzitutto a entrare nel catalogo di Andrea Camilleri, perché è stato pubblicato da Sellerio ma continuerà con Einaudi, e poi a raccontare una storia divertente.
Io mi sono molto divertito. E anche molti lettori, devo dire, si sono divertiti, sorprendendosi anche, perché uno abituato a leggere uno scrittore buio, uno scrittore di delitti e di delitti passionali, che sono poi la cosa più atroce che si possa raccontare, nel momento in cui lo trovano a narrare in maniera divertita, e spero divertente, anche un’altra storia, lo guardano con un po’ di sospetto. E invece Mina è andata benissimo, è stata uno dei primi dieci libri più venduti d’Italia nel 2019, quindi sono felicissimo di averla scritta e sono anche felicissimo di continuarla.

E Mina è diventa anche una fiction Rai, di cui hanno già cominciato le riprese…
Serena Rossi sarà Mina Settembre. Sono riusciti a trovare l’unica attrice napoletana priva di seno per fare Mina, che invece aveva quella caratteristica. C’è voluta, immagino, una certa ricerca. Serena è bravissima, è quella che ha interpretato Mia Martini, però la mia idea di Mina era diversa.

Infatti Mina soffre di due problemi, e il problema numero due è esattamente quello che citavi poc’anzi.
È una portatrice sana di una quinta, sesta misura, che nei Quartieri Spagnoli è antipatico. Nei Quartieri Spagnoli, per una qualche strana motivazione genetica, gli uomini sono bassi e le donne sono più alte. Essendo Mina una donna di una certa altezza, tutti gli uomini che incontra hanno una… (indica con la mano all’altezza del petto). Siccome noi napoletani usiamo dare del voi, e gli uomini non riescono a distogliere lo sguardo da lì, sembra che parlino direttamente con… È una situazione, diciamo, foriera di equivoci. Mina teme di essere diventata “seniloqua”, nel senso che lei parla, ma rispondono alle… Mi sono divertito, anche perché uno, quando scrive, deve immaginare.
Sono molto amico di Valentina Lodovini che, oltre a essere bellissima, è anche una splendida attrice. Adesso è a teatro con il monologo di Franca Rame Tutta casa, letto e chiesa, che è un straordinario, e lei fa un lavoro bellissimo sul personaggio. Valentina è gravata un po’ dallo stesso problema di Mina, quindi io le ho detto: «Guarda, io ho scritto pensando a te, poi regolati». E infatti, se dovessero fare un film al cinema, cosa che è attualmente in discussione, Valentina potrebbe essere la protagonista. Questo per la parte maschile del pubblico, naturalmente.

Ho trovato un paio di punti di connessione fra Dodici rose a Settembre e Nozze per i bastardi di Pizzofalcone, oltre all’ambientazione, ovviamente. Qui, già nella presentazione, c’è un personaggio che dice: «Mi chiamo Flora, ho undici anni e sono qui perché penso che mio padre ammazzerà mia madre». Una bambina di undici anni che mostra di essere molto più matura degli adulti che ha intorno. Ho trovato anche in Nozze una bambina di undici anni altrettanto matura, e che tiene testa addirittura a un magistrato antimafia.
Credo che noi siamo la prima generazione che lascia ai figli un mondo peggiore di quello che ha avuto. Non è così dalla guerra mondiale, e anche allora alla fin fine non era colpa di quella generazione. Ma la nostra generazione per la prima volta lascia ai figli un mondo peggiore. Quindi si gioca una partita su questi ragazzi, che è di un’importanza capitale. Greta, per intenderci, è un esempio perfetto di questo problema. Questi ragazzi vanno rendendosi conto velocemente che devono invertire una tendenza, una tendenza che noi abbiamo follemente e colpevolmente avviato. Ora, se faranno in tempo ad accorgersi di questa cosa, e dovranno essere anche molto bravi a invertire questa tendenza, tutti noi una speranza ce l’abbiamo. Se invece si incanaleranno nel nostro solco, cercando di sfruttare la situazione al meglio possibile e depauperando ulteriormente tutto, secondo me… Ma non parlo soltanto dell’ambiente, parlo proprio del clima sociale, della società che noi stiamo proponendo a questi ragazzi. Quando li ho visti in piazza mi sono sentito commosso, proprio commosso. Prima pensavo, girando anche per le scuole come mi capita spesso di fare, che i ragazzi fossero molto seduti sulla situazione che c’è, quindi spinti al consumo, all’edonismo perché così viviamo noi, male educati da noi; perché i ragazzi sono educati a vincere. La mia è la generazione che picchia i professori che parlano male dei ragazzi. Quando ero ragazzo io, ero terrorizzato all’idea che qualcuno potesse dire a mia madre che ero stato maleducato: sarei andato incontro a sanzioni fortissime. Invece adesso un professore deve preoccuparsi.
La stessa organizzazione delle scuole è fatta in maniera tale che i ragazzi siano più clienti che alunni, per cui devono essere invogliati. Si fanno notti bianche nei licei per convincerli a iscriversi, perché sulla base degli iscritti la scuola prende più soldi che se non li ha. E c’è una corsa all’agevolezza, alla facilità del corso di studi, che è una cosa antitetica, perché lo studio è anche sacrificio. Se io faccio in modo che tu non debba sacrificarti per niente e invece di farti studiare ti faccio vedere film, commedie, fare teatro, sport, gite, controgite… Ho visto una scuola a Napoli che portava i ragazzi in gita a Montecarlo; perché devi andare in gita a Monte Carlo? Parti da una città che ha Pompei ed Ercolano e non ci vai mai, e li porti a Monte Carlo in gita, in Costa Azzurra. Questo è, secondo me, un po’ il segno dei tempi.
Inserire nei miei romanzi dei personaggi che sono bambini o poco più, ma che si rendono conto di quello che c’è attorno con acume, cioè con obiettività e con intelligenza, secondo me è anche un messaggio di speranza. Ci fossero bambini così, ci fossero ragazzi così: io mi auguro che prendano il potere presto e ci facciano fuori, perché la nostra generazione è stata, a mio modo di vedere, terribile. Basta vendere le campagne elettorali per rendersene conto: non ci sono più idee, tutto quello che diciamo deve essere compresso in meno di un minuto; non c’è un approfondimento, non c’è un’indagine, non c’è un dibattito. Devono esserci urla, insulti e tutto deve durare 260 caratteri, perché se facciamo più di così l’attenzione crolla e decade. Quindi anche nella narrativa, anche nell’intrattenimento, secondo me, è giusto prendere anche questa posizione.

Resto ancora un attimo sul tema dei ragazzi, e ti leggo una piccola cosa. «La malattia è più grave, e riguarda innanzitutto la dispersione scolastica, oltre il 34%. Se un ragazzo su tre, impunemente, non frequenta la scuola nell’età dell’obbligo, diventa facile manovalanza per la criminalità organizzata. Quei bambini, incitati a gran voce dai genitori, hanno di diverso da altri solo l’essere stati ripresi in video. Potrete trovarne centinaia in ogni quartiere della città, mentre crescono abbandonati a se stessi, studiando da criminali.»
Questo è un passo di un tuo articolo comparso sul Corriere della Sera, e commenta un video che è girato in rete, in cui alcuni ragazzi aggrediscono dei poliziotti. Questo proprio per dire che sei quello che si definisce un intellettuale a tutto tondo.
No, più che altro penso che noi confondiamo i sintomi con la causa della malattia, e curiamo i sintomi. C’è la criminalità, allora uno dice: «Militarizziamo la città, aumentiamo la polizia». Certo, è una forma di soluzione anche quella, ma non risolvi il problema: reprimi con attività liberticida, però non risolvi il problema. Il problema lo risolvi agendo culturalmente su una problematica che è proprio di natura culturale. Se io ho a Napoli, che è la terza città d’Italia, il 34% di dispersione scolastica, su una cosa dobbiamo capirci bene, perché deve essere chiaro questo: Napoli è un problema nazionale. Non è un posto altrove, è un’area metropolitana con tre milioni e mezzo di abitanti in un Paese che intero fa 58 milioni di abitanti. Tra l’altro una città che è il biglietto da visita di questo Paese all’estero, perché è stata la più visitata d’Italia nel 2019, più di Roma, più di Firenze e Venezia. È una città che ha Capri, Ischia e Procida, Sorrento, Amalfi, Pompei ed Ercolano, la Reggia di Caserta, la Reggia di Portici, la Reggia di Carditello, i Campi Flegrei, e non ho citato la città ma solo i dintorni, la periferia. Ora, se questo posto che ha tre milioni e mezzo di abitanti, che è uno dei posti più visitati d’Italia, ha intere zone del territorio che non sono sotto il controllo dello Stato, con quartieri interi dove la polizia non entra, che ha un ragazzo su tre che a scuola non va e nessuno glielo contesta, bambini di 10, 11, 12 anni che stanno per strada, la mattina si svegliano e vanno per strada e per strada rimangono… qui e ora, in questo Paese, permettete che io abbia difficoltà a ritenere che cinquanta disgraziati a bordo di un rimorchiatore siano il mio primo problema? Se ho intere fasce del mio territorio in cui non posso entrare, se io ho un bambino su tre che a scuola non va, se permettete, quando mi vengono a dire che c’è un’invasione perché c’è un rimorchiatore con cinquanta persone che cerca di approdare da qualche parte in Sicilia, la cosa mi fa incazzare. Perché io sono portatore del problema: sono testimone oculare, quotidiano, delle priorità che ci dovrebbero essere per chi si deve occupare dell’ordine pubblico di questo Paese. Il porto di Gioia Tauro introita il 60% degli stupefacenti che alimentano il mercato europeo; il che rende la ’ndrangheta la prima organizzazione criminale del mondo, per disponibilità economica, perché dispone del porto di Gioia Tauro. Non sarebbero quelle le navi da fermare? Chiedo, ma è un mio dubbio personale.
Detto questo, io credo che sia un problema sociale, non politico; sociale e quindi culturale, e deriva dal fatto che purtroppo la classe politica ha un’ottica semestrale e dunque non fa investimenti. Perché dovrei sottrarre risorse che investono sul quotidiano per pianificare una soluzione di un problema a tre anni? Perché dovrei farlo se nei prossimi sondaggi posso non esistere più? Quindi credo che sia proprio un sistema basilarmente problematico: non riusciamo a fare programmazione di lungo termine perché il sistema è fatto in maniera tale che tu debba piacere alla gente adesso, e se non piaci alla gente adesso non hai prospettive perché ti mandano a casa dopo tre mesi. Credo che non sia nemmeno colpa di questi politici, però abbiamo la classe politica più scadente di tutti i tempi, in assoluto. Ma è perché sono vecchio; i vecchi così fanno, dicono: il presente è tutto negativo, tutto era meglio nel passato. E quindi, secondo me, è soltanto per l’età.

Maurizio De Giovanni (a sinistra) con Italo Bonera

Passiamo alla serie de I bastardi di Pizzofalcone, con Nozze. I “bastardi di Pizzofalcone” sono un commissariato in liquidazione, e tu narri le vicende di tutti questi personaggi in maniera corale; anzi, parlando di questa cosa, alcuni giorni un’amica mi ha corretto dicendo: «più che corale lui ne parla in maniera democratica». Ti rifai esplicitamente all’87° Distretto di Ed McBain…
Che è un modello inarrivabile, attenzione. Uno si rifà nel senso che gli piacerebbe, che darebbe un braccio per scrivere come scriveva quello, ma è uno scimmiottare, una tipologia che deriva dal fatto, soprattutto, che ho la fortuna narrativa di essere napoletano, l’unica città con la periferia in centro, è l’unica che in quattrocento metri lineari, quindi nell’area amministrata da un commissariato, ha quattro città diverse socialmente. Per cui Pizzofalcone ha i Quartieri Spagnoli, il Pallonetto di Santa Lucia, che è un luogo popolare, chiuso, ad elevatissima concentrazione criminale, poi c’è via Chiaia, che è un luogo commerciale rovinato dalla crisi economica, poi c’è Piazza dei Martiri, che è un luogo finanziario, arricchitosi con la crisi economica, e c’è l’aristocrazia del lungomare, con i circoli nautici impegnati in un eterno burraco, con le finestre chiuse, e in cui non si ha la minima idea di quello che succede nel resto della città. Raccontare le interazioni di queste quattro città è possibile a Napoli. Le stesse quattro città, a Milano, sono amministrate da quattro commissariati diversi, perché distano chilometri l’una dall’altra, e a Roma è la stessa cosa. Avere la fortuna di essere napoletano mi consente di raccontare, con I bastardi, queste realtà sociali, il conflitto, il contrasto costante fra queste quattro realtà, in maniera narrativamente accettabile.

Una cosa che trovo particolare della narrazione di Pizzofalcone è che le inchieste sono tutte indagini tradizionali, fatte sul territorio: la tecnologia influenza poco nella ricerca dell’assassino. Non si fanno analisi del DNA: si va sul posto, si interrogano le persone. Addirittura, un personaggio dice: «Contano i dettagli. I dettagli fanno la differenza tra indagare sul campo e rimestare nelle identità digitali». Come mai questa scelta?
Ho scritto cinque romanzi di Ricciardi prima di cominciare a scrivere altro, ed ero convinto di scrivere Ricciardi perché avevo un odio personale per la fiction di base scientifica. Il fatto che il reperimento di un pelo sul luogo del delitto ti faccia risalire al segno zodiacale dell’assassino, e scoprendo che ha Saturno contro puoi determinare il colpevole, l’ho sempre considerata una trovata stucchevole e sostanzialmente noiosa. Per cui scrivevo sugli anni Trenta, quando la polizia scientifica non c’era proprio. Poi io vivo, per mia fortuna, in una città dove la scena del delitto nasce naturalmente inquinata, perché tutti mettono le mani, toccano, cercano di dare una mano, mettono ordine per non far vedere che c’è disordine a chi arriva. Poi ho scoperto che la polizia scientifica riesce raramente a risolvere le cose, nel senso che, sì, tu trovi del DNA su un posto, ma devi avere già censito il DNA di qualcuno, perché altrimenti quel DNA te lo friggi e lo servi a colazione. Tutti quanti pensano che la polizia scientifica riesca in pochi secondi a trovare una prova, un indizio, ma non è vero, e questo mi ha molto rassicurato. Quindi scrissi Il metodo del coccodrillo, che è un libro basato su una rivisitazione della storia di Un borghese piccolo piccolo, il libro di Cerami, bellissimo, che poi diventò il film straordinario con Sordi (diretto da Mario Monicelli, 1977, n.d.r.), lo feci più come esperimento che altro. Invece poi Il metodo del coccodrillo vinse il Premio Scerbanenco, che è il massimo riconoscimento per il romanzo nero italiano. Prima di me era stato vinto, nelle venticinque edizioni precedenti, sempre da Roma in su, quindi sono il primo autore straniero che lo ha vinto. Soprendo poi che il personaggio di Lojacono, che nasce con Il metodo del coccodrillo, piaceva, ho immaginato di seguirlo all’interno di una squadra che assomigliasse a quella dell’87°, nel senso che sono tutti quanti minoranze, tutti con qualche frattura, con qualche lesione interiore. Mi piaceva l’idea di questo gruppo, di questa “sporca dozzina”, anzi, di “questa sporca mezza dozzina” da mettere insieme. E, devo dire la verità, man mano che ho raccontato I bastardi, i personaggi si sono allargati, nel senso che sono diventati divertenti da raccontare: sono diversi, ognuno di loro ha una storia. Questo mi consente di andare con la telecamera su uno o sull’altro, aumentandone il volume e abbassando il volume degli altri, in maniera molto particolare. In televisione non si può fare, dato che la televisione vuole un protagonista, per cui Alessandro Gassman, che interpreta Lojacono, rimane centrale perché è proprio la forma della narrativa televisiva che prevede la predominanza. Invece, per esempio in Nozze, Lojacono quasi non c’è: cioè Lojacono è presente ed è anche molto partecipe, però il mio occhio di bue non è su di lui, ma è sulle donne, sulle figure femminili del gruppo. E anche questa è stata una cosa interessante, sperimentale da fare.

Com’è per uno scrittore maschio interpretare, confrontarsi con un personaggio donna?
Io le donne non le ho mai capite; non ci ho nemmeno mai provato, per la verità. È al di là delle mie capacità. Quando scrivo delle donne mi attengo a un principio empirico, che però funziona: sono convinto che, per un fatto proprio genetico, le donne vedono nel futuro, mentre gli uomini vedono nel presente. Le donne vedono nel futuro, sono proiettate nella programmazione. Credo dipenda dal fatto che per milioni di anni noi uscivamo a caccia, portavamo qualcosa e ci addormentavamo; e le donne dovevano fare in modo che se l’indomani, quando uscivamo, non trovavamo nulla, ci fosse qualcosa da mangiare anche quel giorno. Quindi le donne, anche per la conservazione della specie, hanno uno sguardo istintivo rivolto al futuro. Per cui quando scrivi personaggi femminili devi pensare sempre che guardino avanti, tutte, a qualsiasi titolo, ognuna a suo modo, ognuna con la sua caratteristica. Noi vogliamo una birra, vogliamo del sesso veloce e vogliamo dormire, in sintesi estrema. L’uomo è terrorizzato soprattutto da una cosa: dal tornare a casa e dal sentirsi dire «Dobbiamo parlare». Questa è la cosa che più terrorizza ogni essere umano di sesso maschile: il fatto di tornare a casa e di vedere la propria donna che dice: «No, siediti, adesso dobbiamo parlare.» Mamma mia! «Cioè parlar di che? Adesso? È tardi, parliamo domani.» «No, parliamo adesso.» Perché le donne guardano al futuro. Quando scrivi personaggi femminili e fai così, alla fine risultano plausibili. Ricevo un sacco di complimenti da un sacco di donne, di giornalisti: «Guarda, come parli delle donne tu…». C’è Roberto Costantini, scrittore fantastico, spero lo abbiate letto… Scrive per Marsilio e per Longanesi, ed è quello del commissario Balistreri. Lui si lamenta perché la moglie dice: «Ecco, vedi, Maurizio sì che capisce le donne, non tu». Ma in realtà io non le capisco, le donne: mi attengo a questo principio, che evidentemente però funziona. Devo aver trovato una chiave. Non nella vita però: nella vita no, nella vita le donne continuo a non capirle, però quando le descrivo funziona.

Alessandro Zannoni, autore della raccolta di racconti Stato di famiglia, ha detto, parlando dei lettori: «Voi non siete più lettori, voi per le case editrici siete dei clienti». Mi ha colpito questa cosa, e mi sono chiesto quanto conti l’ufficio marketing nelle case editrici che tu frequenti.
Io non ci vedo niente di male. La casa editrice è un’impresa, e l’impresa deve funzionare per costi e ricavi; non ci vedo niente di scandaloso. Certo, una volta c’erano gli editori mecenate; ma non credo che vendere i libri sia una colpa, penso che sia un fatto positivo. Quello che è importante da dire, invece, per fortuna, è che il lettore non ha un telecomando: non è che preme un pulsante e poi rimane lì a guardare. Il lettore entra in libreria ed esercita una scelta. Paga. Dopodiché, se quel libro non gli piace, non ne compra più, né di quell’autore, né, magari, di quell’editore. Se ne compra altri vuol dire che quel libro gli è piaciuto. Quindi io non credo che sia quello il problema, credo che il problema sia nelle scelte dei lettori, che stanno cambiando. Prima c’erano le librerie e i librai. La libreria col libraio implicava una discussione. Tutti noi siamo entrati in libreria per comprare un libro e siamo usciti con quattro, e magari in nessuno dei quattro c’era quello che volevamo comprare. Perché succede che tu ti innamori di una fascetta, di una copertina, senti parlare due persone e ti incuriosisci. Il libraio ti consigliava qualcosa perché ti conosceva: «Guarda, è uscito questo, secondo me ti piace da morire», il che comportava un’indagine da parte del lettore, che inciampava in libri diversi. Credo che se chiedessi a ognuno di voi di ricordare un incontro con un libro, casuale, un libro che ti ha chiamato, che non volevi leggere e poi magari si è rivelato uno dei libri più importanti della tua vita, ognuno di noi ne avrebbe uno. Adesso invece ci sono gli acquisti su internet, che sono la negazione di quel principio. Tu senti parlare del libro di De Giovanni? Vai su internet e compri il libro di De Giovanni, che ti arriva con il 25% di sconto entro 24 ore. Questo che cosa implica? Che chi vende molto vende sempre di più, perché è di moda. Mentre non si vendono i libri dei giovani, i libri degli esordienti, i libri delle piccole case editrici, che non riescono ad arrivare alla prima pagina di Amazon, o alla prima pagina di IBS. In questo devo dire che sì, il marketing diventa un problema, perché priva di questo tipo di lettura e secondo me è un danno. Ma per quanto riguarda il fine di lucro dell’editoria non ci trovo niente di sbagliato. L’editoria propone i suoi libri, poi è il lettore che esercita un giudizio. Se vogliamo lamentarci del livello di quello che la gente legge, è del gusto dei lettori che dobbiamo lamentarci, non dell’attività degli editori. L’editore, correttamente, manda in libreria i libri che crede migliori, è così che qualsiasi azienda dovrebbe funzionare. 

Di un libro, naturalmente, la copertina è fondamentale. In Nozze vediamo un vestito proprio di nozze. Tra l’altro, tutti i romanzi del ciclo di Pizzofalcone hanno un titolo composto da un’unica parola, che poi viene declinata all’interno della narrazione per ciascuno dei personaggi, perché nel ciclo di Pizzofalcone sono importanti i singoli personaggi. Una vera e porpria struttura. Mi chiedo come è nata questa idea.
I romanzi nascono nelle maniere più strane e non preventivabili. Poi la storia diventa urgente. Perché la testa continua a lavorarci finché, a un certo punto, la storia ti scappa. È proprio un fatto di incontinenza: devi scriverla per forza, perché sennò si mette al centro della testa e tu non riesci a pensare ad altro. Nozze nasce da una mia passeggiata nel novembre del 2018. Passai davanti a un negozio di abiti da sposa. Questo negozio aveva tre vetrine, e neòla più piccola uno di quegli abiti era caduto dal manichino, si era staccato; evidentemente era stato agganciato male, e c’era questo manichino nudo con l’abito da sposa a terra. Siccome gli abiti da sposa sono pesanti, non era caduto leggermente, ma proprio pesantemente. Questa cosa mi fece impressione, perché l’abito da sposa siamo abituati a vederlo in posizione, addosso alla sposa oppure dopo essere stato indossato. Per cui mi sembrò così antitetico a se stesso, come vedere un ginocchio piegato male in un infortunio: è una cosa che ti dà proprio un sensoo di fastidio, quindi vederlo lì mi fece pensare al mancato utilizzo di quel vestito, cioè alle nozze mancate. Non le nozze: le nozze mancate, cioè le nozze alle quali non si arriva, per qualche motivo. Scrivendo una certa tipologia di libri, il motivo per cui non si arriva alle nozze può essere uno solo. Le nozze sono la festa della sposa: c’è tutta una serie di comprimari, fra cui lo sposo, ma le nozze, sappiamo bene, è la festa della sposa, quindi vedere l’abito in quelle condizioni mi colpì moltissimo. Siccome io sono un po’ una gogna per Einaudi, nel senso che voglio che le copertine abbiano un’attinenza con la storia che c’è dentro, pretesi che ci fosse questo abito da sposa, sulle onde del mare, buttato come un rifiuto in mezzo ad altri rifiuti. L’editoria propone la bellezza della copertina, cioè la copertina deve essere bella. Per cui, per Nozze poteva essere un bel tramonto con due che si tengono per mano e va bene così. Loro su internet non trovarono niente, e hanno dovuto allestire un set fotografico. JHanno comprato un abito da sposa su eBay: evidentemente qualcuna se ne era liberata non avendo questo gran ricordo del matrimonio, né delle nozze successive. Caso volle che quel giorno sul mare di Posillipo non ci fossero rifiuti, per cui mi telefonarono preoccupati. «Non ci stanno rifiuti, va bene lo stesso?» «No, i rifiuti servono.» Per cui dovettero buttare dei rifiuti finti, e poi si sono anche dovuti buttare a mare per raccoglierli, giustamente… La copertina di Nozze è stata fatta in questa maniera. Ne sono molto contento, perché dà proprio il senso di quello che volevo scrivere. Non è un montaggio, è un vero abito da sposa sulle onde del mare.

Le nozze negate… e la ragazza delle nozze negate è naturalmente la vittima. C’è un capitolo centrale, un po’ più lungo degli altri, perché di solito scrivi capitoli abbastanza brevi, perché vuoi bene al lettore.
No, il motivo dei capitoli brevi è, direi, lassativo. Una delle recensioni più belle che abbia avuto nella mia vita è di un tassista che mi disse: «Dottò, mi avete fatto addormentare le gambe tre volte per leggere questo libro, perché io posso leggere solo in bagno». Questo fatto mi porta a utilizzare capitoli brevi perché, per il bene degli altri abitanti della casa, se il bagno è unico sarà bene usare capitoli brevi. Uno pensa chissà quale motivo aulico ci sia dietro… invece io ne faccio un problema diuretico.

Come gestisci tutti i personaggi della serie riuscendo a dare spazio ad ognuno?
Quando si scrive in terza persona, come faccio io, i personaggi ti raccontano delle storie e io racconto le storie che mi raccontano i personaggi. A volte, però, capita che uno debba scrivere sugli stessi personaggi in prima persona. A me è successo con I bastardi, quando Einaudi mi ha chiesto di accompagnare con dei racconti le fotografie della prima serie televisiva, in un volume che si chiama Vita quotidiana dei bastardi di Pizzofalcone. In questo libro ho dovuto scrivere in prima persona sei racconti dei sei “bastardi”. Questi racconti alla fine sono stati diversi, nel senso che i personaggi hanno raccontato in un altro modo, rispetto a come io li conoscevo in terza persona.

Il pubblico poi si è affezionato a ognuno dei sei protagonisti…
Quando finì la seconda serie, ricevetti una telefonata di mia madre, che ha novant’anni, all’una e trenta del mattino. Mi prese un colpo. Mia madre, per dire il tipo, ha un profilo Facebook, uno Twitter e uno Instagram, per dare l’idea del soggetto. Mi chiama e mi dice: «Senti..». Io saltai dal sonno, preoccupatissimo, dissi: «Che c’è, mamma?» Dice: «Vedi, io ti ho partorito con quattordici ore di travaglio, ho il diritto di sapere chi è vivo e chi è morto nella serie de I bastardi.» Allora dico: «Mamma, non lo so, perché dobbiamo fare delle riunioni di sceneggiatura e dobbiamo…» «Allora prendi una penna e scrivi» «Mamma, è l’una e trenta» «Prendi una penna e scrivi. Non devono morire: Aragona…» e mi fece tutta la lista di quelli che non dovevano morire. Mia madre è fatta così. Finge di non essere mia madre e quando qualcuno scrive qualcosa di negativo su di me, ha delle reazioni E mi chiama “l’autore”: «L’autore è una persona meravigliosa.»

Lo sceneggiato è stato realizzato con una certa cura…
Sì, anche secondo me.

Curato sia come anbientazione, che come colonna sonora, e ben interpretato. Tu dici che è tutto incentrato su Lojacono, ma anche gli altri attori sono di livello.
Diciamo che avrei voluto maggiore pluralismo. Ma sì, son tutti molto bravi. La cosa divertente è che mi telefonano. C’è Gianfelice Imparato, che è bravissimo e che fa Pisanelli, per esempio… Siccome Pisanelli è ammalato, Gianfelice ogni tanto mi chiama e mi dice: «Ciao, come sto?» E io lo devo rassicurare sul fatto che sta ancora bene.
E il ragazzo che fa Aragona, che si chiama Antonio Folletto ed è bravissimo, è una persona educatissima, molto sommessa, invece Aragona ha tanti guai, perché è sessista, classista, razzista, milanista, cioè ha tutta una serie di problemi. Quando iniziai a scrivere la sceneggiaura, andai a trovarlo sul set e lui mi chiamò da parte. «Senti, Maurizio, ma questo veramente le pensa tutte queste cose?» Gli ho detto «Sì.» «E le deve dire?» «Eh sì, le deve dire» «Ma mi vede mia nonna».
Un’altra carina è Simona Tabasco, che fa Alex. Alex è, come sapete, una poliziotta gay. Simona è convintamente eterosessuale, è proprio sicura, non ha titubanze. Quando andai all’inizio della prima serie mi disse: «Senti, Maurizio, ma io devo girare qui per sei mesi, questi si cambiano… Alessandro Gassman si spoglia e si veste, quindi mi gira mezza nudo davanti; e Massimiliano Gallo, Antonio Folletto, Gennaro Silvestro, tutti attori diciamo piacenti, no?» E mi chiese una scena in cui lei si redime: «Con uno qualsiasi, scegli tu quale, dopodiché però lei torna come prima, però una scena…» Le ho detto «No, non la posso scrivere». Quindi, diciamo, c’è questo divertente dialogo con gli attori.

Quindi abbiamo speranza di rivederli? Il finale della seconda stagione è stato preoccupante.
Stanno girando adesso la terza serie. Pensa che dopo quel finale sono stato aggredito fisicamente da alcune signore per sapere. Bisogna stare attenti, la popolarità è una cosa strana. Nel caso mio si traduce in cazziatoni. E poi devo cambiare i titoli, perché un tassista, la settimana scorsa, mi disse: «Ah, ma lei non è un bastardo?». È una cosa pure antipatica da sentirsi dire, insomma… soprattutto davanti a persone estranee. «Sì, nel senso che li ho scritti.» «Eh, quello volevo dì.» «Lei non è un bastardo?» è brutto da sentire.

I tuoi personaggi sono piuttosto variegati eparlano spesso in prima persona, con flussi di coscienza: si raccontano, raccontano le loro storie, ma soprattutto raccontano se stess;, e sono bambini, adulti, maschi, femmine. Ho sempre apprezzato la tua capacità di immedesimati nei vari personaggi. È come se vivessi ogni personaggio in prima persona: deriva da una tua naturale curiosità nei confronti della gente, e quindi da un’osservazione di quello che è il panorama umano che vediamo tutti i giorni, oppure è frutto della tua fantasia, e quindi appartiene a un tratto della tua personalità?
È una bellissima domanda, di quelle che ogni scrittore vorrebbe sentirsi fare. Penso che ci siano delle psicopatologie censite in letteratura medica, che possano descrivere questa cosa. Io scrivo per immersione. Io scrivo in trenta giorni: ogni mio romanzo, e sono ventisei a oggi, è stato scritto in un massimo di trenta giorni; un minimo di quindici e un massimo di trenta giorni, perché in quei trenta giorni io divento una brutta persona: mi lavo poco, mangio in orari strani, mi alzo in piena notte… La mia famiglia mi tiene chiuso nello studio, credo che si vergognino: dicono che è per rispettare la mia creatività, ma in realtà si vergognano. Io devo andare in quel posto, non saprei scrivere altrimenti, e devo diventare quei personaggi. Credo che il più grande regalo, l’unico vero sacrificio che un autore fa per i suoi lettori, sia diventare qualcun altro. Dovetti diventare un pedofilo, dovetti diventare un assassino seriale, dovetti diventare uno che picchia la moglie… Trovare le ragioni di questo (perché tu per scriverne devi trovare le ragioni, perché se io parlo così vuol dire che ci credo, che sono così) è come aprire un tombino e buttarsi dentro, può essere una cosa veramente penosa, molto dura da fare; anche bella, ma molto dura. Ci sono stati dei romanzi, penso a Il giorno dei morti del ciclo di Ricciardi, a Buio per i bastardi di Pizzofalcone… Io ho una grande sensibilità nei confronti dell’infanzia, perché sono un papà che, per diverse motivazioni, ha cresciuto dei figli da solo. I miei figli sono stati affidati a me, e quindi erano piccoli: ho vissuto per una quindicina d’anni con questi bambini che crescevano, da solo. Ero terrorizzato, per esempio, all’idea che io mi addormentassi così profondamente per cui loro avrebbero potuto chiamarmi e io non li avrei sentiti, per cui per anni e anni ho dormito male, per la paura di dormire profondamente. Ne Il giorno dei morti racconto di un bambino che viene trovato morto all’inizio del libro e poi racconto l’ultima settimana di vita di questo bambino, in parallelo con la settimana di indagini di Ricciardi. Negli anni Trenta, a Napoli, c’erano bambini che non erano nemmeno anagrafizzati, cioè nascevano e venivano abbandonati per strada e venivano cresciuti così, dalla comunità: c’era chi se ne prendeva cura un po’, un giorno un panino qua, un giorno là… erano come gli animali per strada, come dei cani, come dei topi. Quindi facevo vivere questo bambino in maniera così terribile che la morte era una liberazione, in qualche modo, nella mia mente. Era un bambino fortemente balbuziente, che camminava scalzo, e in questo romanzo piove tutto il tempo; questo bambino cammina scalzo nel freddo, e l’unico amico che ha è un cagnolino randagio. Viene preso in giro dagli altri perché balbuziente, viene picchiato. Io ero sereno, nel senso che mi dicevo “ce la faccio a scrivere questa storia, perché penso continuamente che questo bambino sta male e quindi l’ho salvato”. Invece, a metà del libro, scrivevo una scena in cui il bambino correva, aveva fatto tardi, doveva andare dal rigattiere di cui era apprendista. E correndo nella pioggia, con il suo cagnolino, scalzo, con i geloni, scacciato dalle persone perché alzava schizzi d’acqua, ho sentito chiaramente che era felice, l’ho capito proprio. Vedendolo correre, entrando in lui, perché stava scappando, ho capito che era felice. Ti assicuro che i quindici giorni che mi sono serviti per finire il romanzo sono stati i quindici giorni più brutti della mia vita, perché quel bambino l’avevo ucciso io, ed era felice di vivere, invece, e io l’avevo ucciso. È stato durissimo da finire, quel libro. Ancora adesso tutti dicono che questo libro è il migliore dei miei; non lo so se lo è, ma sicuramente ho sofferto da morire scrivendolo. Quando ho finito, non sono riuscito più a sedermi al computer per due settimane: mi dava la nausea, mi veniva da vomitare il solo vedere la tastiera. È quello, se devo dire, il regalo che un autore può fare: è vivere cose del genere. È stato terribile. E Buio… Ho pianto scrivendolo, ho proprio pianto. Perché il bambino che viene rapito, per vivere il periodo in cui lo tengo in una stanza al buio, e lui ha paura del buio, sostanzialmente pensa al papà, costantemente, per tutto il tempo, perché il papà è l’eroe e lui si appiglia a questa figura. Il pensiero di questo bambino, nel buio, che pensa al padre, è stata una cosa devastante. Quindi ringrazio di aver notato questo: è un bellissimo complimento, perché significa che alla fine serve a qualcosa questo modo di scrivere. 

Trascrizione ed editing di Francesca Pavanel.


Francesca Pavanel

Francesca Pavanel frequenta il Liceo Scientifico, dannato complice del fiorire di numerose passioni, coltivate per evadere dall’aridità degli studi. Sulle note di “Altrove” getta, incerta, il seme a Milano, dalla provincia friulana che, nel suo immobilismo, piovosa, rende fertili curiosità e fantasia, libere di crescere su orizzonti privi di impedimenti. Design della Comunicazione un lustro, continua la ricerca del terreno giusto.

 

 

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