Margaret Atwood – Il canto di Penelope

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Il titolo originale di questo romanzo è “The Penelopiad”; in effetti, se in italiano fosse stato tradotto come Penelopiade sarebbe stato più appropriato, specchiandosi, in un’immagine appunto capovolta, con l’Iliade, da cui trae molti spunti.
Margaret Atwood riscrive il mito omerico dal punto di vista di Penelope, che viene spesso rappresentata come poco più di un’ombra nell’Odissea. L’autrice canadese le dà voce, offrendo una visione alternativa dei personaggi e degli eventi della mitologia greca.

La narrazione è condotta con grande maestria e creatività. La voce di Penelope è forte e vivace, piena di un’ironia e di un sarcasmo che la rendono una protagonista affascinante e inedita. La scrittura è fluida e coinvolgente, e offre una prospettiva nuova e fresca sul mito. Del resto il romanzo è anche un’opera di critica sociale e di riflessione sulle questioni di genere, i cui ruoli nella società antica e contemporanea Atwood mette in evidenza, analizzando come Penelope, considerata solo come la moglie di Ulisse, sia stata sfruttata come un’oggetto nelle mani degli uomini e offrendo così una riflessione sulle conseguenze delle azioni maschili sulle donne e sulla società nel suo complesso.
In primo luogo, mette in luce il ruolo subordinato delle donne: Penelope è costretta a sposare Ulisse contro la sua volontà, come rimpiazzo della ben più bella e seducente Elena, sua cugina, e viene successivamente utilizzata come strumento politico, non avendo voce o potere decisionale. Inoltre, l’autrice mette in evidenza la violenza sessuale e la misoginia presenti nella società antica: Penelope viene minacciata dai molti pretendenti (i proci), rischiando di venirne stuprata come le sue ancelle, e la sua unica opzione è quella di sottomettersi inventando un artifizio per proteggere se stessa e la sua famiglia (Telemaco, figura tutt’altro che positiva in questa versione). Atwood sottolinea il fatto che anche oggi molte donne sono costrette a subire abusi e violenze simili, e che la misoginia persiste. Infine, ci fa riflettere sulla rappresentazione delle donne nella mitologia e nella letteratura in generale. Penelope è stata a lungo dipinta come una moglie fedele e passiva, ma Atwood la riscrive come una donna intelligente e forte, capace di prendere le redini della propria vita, e suggerisce che è necessario riscrivere le narrazioni tradizionali per dar voce alle donne e rappresentarle in modo più completo e realistico.

Penelope narra la sua storia dall’aldilà (l’Ade, che in questo caso coincide presumibilmente l’Inferno, visto che è vissuta in epoca precristiana), avendo così a disposizione una visione a tutto campo, dall’epoca della sua vicenda fino a oggi, e potendo così giudicare da diverse prospettive. Questo espediente letterario permette alla Atwood di creare una narratrice onnisciente che può fornire una visione a tutto campo della sua vita e della società in cui viveva anche dal punto di vista odierno. Penelope è in grado di giudicare le azioni degli altri e di esprimere un punto di vista critico e distaccato, consentendo una riflessione più ampia e profonda sulle questioni sollevate. Inoltre, utilizza la sua prospettiva post-mortem per fare commenti ironici o satirici anche sulla società moderna. La Atwood crea così un dialogo tra il passato e il presente, offrendo una critica duplice, e mescola elementi mitologici e contemporanei. Può in questo modo rivendicare la propria voce e la propria storia. Essendo morta, ha finalmente la libertà di raccontare la sua versione dei fatti, che spesso è stata ignorata o distorta nelle narrazioni tradizionali (mutuate, oltre che dai testi omerici, da I miti greci di Robert Graves e da Il briccone fa il mondo di Lewis Hyde, con particolare riferimento a Erodoto, Pausania, Apollodoro e Iginio, come riporta nelle note). Questo consente ad Atwood di riscrivere il personaggio di Penelope in modo più completo e realistico, raccontandoci la sua esistenza precedente all’incontro con Ulisse, ignorata dai più.

A fare le spese del patriarcato sono soprattutto le dodici ancelle più fedeli di Penelope, che vengono impiccate perché sospettate di aver complottato con i proci e di aver avuto rapporti sessuali con loro durante l’assenza di Ulisse (e viene evidenziato come lo stupro delle donne di rango inferiore fosse consentito, purché venisse ottenuto il permesso del padrone di casa). Atwood tratta questo evento con grande sensibilità e lo utilizza per offrire un’altra riflessione sulla misoginia: le ancelle rappresentano le donne che sono state vittime della violenza sessuale e dell’oppressione maschile. Vengono punite per le azioni degli uomini (al pari di quelle donne che ancora oggi “se la sono cercata”, secondo una visione violentemente sessista), mentre i pretendenti che le hanno violentate vengono uccisi per aver dilapidato le ricchezze di Ulisse e insidiato Penelope, ma rimangono impuniti per gli stupri. Le donne vengono considerate colpevoli della violenza subita, e anche durante il processo che precede il finale la loro voce viene sostanzialmente ignorata e soppressa, tant’è che devono ricorrere alle Erinni per sperare di avere giustizia. L’autrice sottolinea in questo modo la necessità di riconoscere la violenza di genere, senza la cui ammissione combatterla non è possibile.
La scelta di impiccarle è un richiamo all’impiccagione delle streghe durante l’inquisizione: entrambi gli eventi rappresentano una punizione delle donne che si oppongono alle norme di genere imposte dalla società patriarcale.

Il capitolo dedicato al processo, del resto, è un momento chiave del romanzo, che offre una riflessione sulla giustizia, la verità e la rappresentazione dei fatti. Ulisse viene giudicato e assolto per l’omicidio dei centoventi pretendenti di Penelope, ma le istanze portate avanti dalle donne hanno seguito con un non luogo a procedere. Certo, le sue vittime hanno finalmente la possibilità di esprimere la loro versione dei fatti, nascosta dietro la narrazione ufficiale, ma senza ottenere giustizia. Atwood utilizza il processo di Ulisse per mostrare come la verità storica possa essere soggettiva e dipendere dal punto di vista del narratore. Ulisse, infatti, ha rappresentato se stesso come un eroe e un marito devoto, mentre la sua vera natura è nascosta sotto la superficie, tant’è che la versione omerica delle sue avventure non è l’unica che circoli e sia accettata, ma di certo è la più onorevole e agiografica.

Un forte senso di disillusione permea l’intero romanzo. Il tono del racconto di Penelope, di conseguenza, è spesso amaro, e non nasconde il fatto che la sua vita sia stata dominata dalla paura, dalla solitudine e dal senso di abbandono, a partire dal tentativo di affogamento subito dal padre quand’era ancora piccina.
Atwood propone una prospettiva femminile sulla mitologia greca, che di solito è stata narrata da un punto di vista maschile e patriarcale e, concentrandosi sulla figura di Penelope, le dà voce e visibilità, riscrivendo la storia per valorizzare l’esperienza delle donne. Affronta anche molte questioni femministe, come già accennato, quali la rappresentazione delle donne nella letteratura e nella società, la loro mancanza di autonomia e di potere, la loro subordinazione agli uomini. E questioni di genere come l’idea di femminilità e di mascolinità, la sessualità e la maternità, idee spesso imposte alle donne, che hanno dovuto lungamente lottare per affermare la propria identità e la propria voce.

Il coro svolge una funzione importante nella struttura del racconto. Composto dalle dodici ancelle, costituisce un utilizzo del classico “coro greco” che si alterna alla voce narrante di Penelope, commentando e riflettendo sulle azioni e sulle motivazioni dei personaggi. In particolare, rappresenta la voce delle donne subalterne, svolgendo una funzione critica nei confronti della cultura maschilista. Inoltre assume una funzione drammatica e musicale. I suoi commenti sono spesso scanditi da rime, che contribuiscono a creare un senso di musicalità e di ritmo nel racconto (quasi come le canzoni ideate da Brecht per le sue opere teatrali). In questo modo, il coro svolge una funzione estetica, arricchendo il racconto e offrendo un’ulteriore forma di espressione artistica.

Telemaco, figlio di Ulisse e di Penelope, contrariamente alla versione omerica assume un ruolo negativo, in quanto rappresenta un maschilismo brutale e rapace: il suo personaggio è descritto come un giovane arrogante e violento, che maltratta le ancelle di Penelope e non rispetta la madre, di cui anela l’eredità. Penelope lo vede come un figlio che ha perso la strada giusta, a causa della sua educazione mal guidata (affidata quasi interamente a Eraclea, a suo tempo nutrice di Ulisse): la sua arroganza è dunque il risultato di un sistema culturale che promuove la violenza e la sopraffazione delle donne. Ciò nonostante, la madre mostra una certa simpatia per lui e cerca di proteggerlo dalle conseguenze delle sue azioni. Il giovane rappresenta sostanzialmente un’ulteriore critica della società patriarcale e dei suoi effetti negativi sulle relazioni interpersonali e sulle dinamiche familiari.

Anche Euriclea è un personaggio importante nel romanzo, perché, in quanto anziana nutrice di Ulisse nella sua infanzia, governa la casa cercando di escludere Penelope da quasi tutte le incombenze, servizio che di fatto esautora la padrona di casa da qualsiasi decisione. Se da un lato rappresenta la saggezza e l’accudimento, non riesce però a divenire la figura materna che Penelope non ha mai avuto, in quanto figlia di un umano e di una sfuggente naiade. Anche perché, fortemente conservatrice, rappresenta quelle figure femminili che si oppongono al progresso della donna in senso femminista. Non a caso è Euriclea a scegliere le dodici ancelle che verranno impiccate, anche se in questo c’è una responsabilità di Pelelope stessa.

La figura di Elena di Troia, presente in più di una circostanza, viene dipinta come una donna bellissima ma anche vanitosa e insensibile, che non sa niente di niente, a parte il suo aspetto e che agisce sempre senza pensare alle conseguenze. Del resto è la causa del conflitto tra spartani e troiani, poiché è stata la sua fuga dal marito a scatenare la guerra. Atwood, tuttavia, non si limita a questa visione superficiale e stereotipata di Elena: in una prospettiva più complessa, sostiene che il suo ruolo nella guerra di Troia è stato ingigantito dalla propaganda dei vincitori. Inoltre suggerisce che potrebbe aver avuto motivazioni più complesse e personali per lasciare Sparta e seguire Paride a Troia, invece di essere stata semplicemente rapita. In questo modo, sfida il tradizionale punto di vista, offrendo una visione più sfumata e meno archetipica.

In questa “Penelopiade” ci sono anche alcuni punti d’incontro con il romanzo più famoso dell’autrice, Il racconto dell’ancella (“The Handmaid’s Tale”). Innanzitutto, entrambi i romanzi affrontano la questione del potere e della subordinazione delle donne nella società: nel Racconto dell’ancella sono costrette a diventare schiave sessuali per i loro padroni maschi e sono sottomesse a un regime totalitario che controlla ogni aspetto della loro vita. Nel Canto, Penelope è costretta a sposare Ulisse e ad aspettare il suo ritorno, subendo abusi e violenze da parte dei pretendenti che le invadono la casa. Ambedue le opere mettono in discussione la natura della verità e della narrazione, che nel primo è controllata dal regime (e la protagonista Offred mette in discussione la veridicità delle storie che le sono state raccontate), nel secondo Penelope racconta la sua storia dalla prospettiva dell’aldilà (mettendo in dubbio la veridicità delle storie che sono state raccontate su di lei e sulla sua vita). Entrambi i romanzi riflettono la preoccupazione di Atwood per il futuro della società e della politica, partendo da una situazione di sottomissione della donna per parlare della necessità di combattere per la giustizia e l’uguaglianza di genere nella società contemporanea.

In generale, il romanzo sembra essere una critica al modo in cui le donne sono state rappresentate nella letteratura e nella mitologia, e alla mancanza di autonomia e di voce che hanno avuto. Atwood evidenzia come le donne fossero spesso ignorate o ridotte a semplici oggetti nelle storie mitologiche, e come la loro esperienza fosse spesso esclusa o minimizzata. Non così è in questa sua versione, da confrontarsi con i racconti di Marilù Oliva nel suo L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre.

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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