Italo Bonera – Vertigine

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1945

Ora di aperitivo serale.
È il momento che di consueto trascorro con gli amici al Bar Commercio, indugiando davanti a spritz e stuzzichini mentre l’atmosfera diventa via via più stimolante e i discorsi fluiscono leggeri. Questa sera, invece, per colpa di una rara congiuntura planetaria, sono abbandonato a me stesso. Franco è atteso dai genitori per cena e, si sa, gli anziani mangiano di buon’ora; Elena e Daniele sono in partenza per uno spettacolo teatrale o per un concerto in una città vicina o lontana, Verona, Piacenza, una di quelle; Giulio è ufficialmente costretto a ritiro monacale causa influenza bronchite enfisema catarro.
Così razzolo nervoso e solitario in cucina, indeciso se prepararmi una cena frugale a base di verdure surgelate oppure incamminarmi con calma verso l’economica ma ottima osteria di Borgo Sant’Assunta.
Il trillo stonato e insistente del campanello al portoncino è quasi un sollievo che interrompe questa specie di naufragio nella malinconia.
La donna, immobile di fronte a me, resta in silenzio. Labbra socchiuse, occhi come uno scanner. Trenta, trentacinque anni; capelli scuri di lunghezza media, un taglio semplice, banale persino; volto dai lineamenti aspri, poco più bassa di me. Veste sobriamente, fin troppo. Malgrado tutto, nell’insieme qualcuno potrebbe trovarla una bella ragazza. O meglio, una donna interessante. Non per me, certo. Non più.
«Ha suonato il campanello,» sottolineo fissandola dall’uscio di casa mentre continuo a stringere il pomello della porta, aperta solo a metà.
Lei pare finalmente riscuotersi. Annuisce. Fruga nella borsa da zia di provincia, mi porge un documento. «È suo questo?»
Esito prima di afferrarlo.
Un cartoncino che doveva essere di color verde, in origine, anni e secoli fa. Spiegazzato e sgualcito. Data di rilascio: 2 Agosto 1982. Appiccicata con una graffa metallica arrugginita, una fototessera in bianco e nero attraversata da una piega che taglia a metà il viso. Eppure il volto lo si distingue bene. È quello di un ragazzo. Un militare di leva, vent’anni o giù di lì. Divisa estiva, basco nero, mostrine da artigliere, occhiali Lozza, barbetta, capelli corti.
Il nome, la data di nascita.
Cazzo, incredibile.
Sono io.
Il mio tesserino da militare.
Una vertigine di anni.
A quel tempo, Sandro Pertini era Presidente della Repubblica, Spadolini a capo del governo, in America c’era Reagan, in Inghilterra la Thatcher, l’Unione Sovietica era indistruttibile e pare che la nazionale di calcio italiana avesse vinto i campionati del mondo.
E io, io avevo vent’anni e facevo la naja.

Naja significava essere proprietà dello Stato per un anno. Le leggi della Repubblica per te non valevano. “Caserma” era la tua Legge. Il sistema gerarchico militare. Il capitano, il maresciallo, il sottotenente, il caporalmaggiore, il “nonno”.
Durante quei dodici mesi un tesserino verde sostituiva la carta d’identità. Lo esibivi per lo sconto al cinema, agli spettacoli, ai musei. Persino dalle prostitute, qualche volta; a quei tempi la maturazione della mia consapevolezza erotico-sessuale era ancora lontana.
L’avevo smarrito quasi subito, io, quel tesserino.
Alzo gli occhi sulla donna chiedendomi chi sia. Un funzionario dell’Esercito? Una poliziotta, forse. Dopo tutto questo tempo? No, impossibile.
«Dove l’ha trovato?», domando ai suoi occhi scuri.

* * *

Avevo avuto una pessima idea.
Ossiuri. Piccoli parassiti che infestano talvolta l’intestino umano. Da bambino mi erano già capitati. E in quei giorni di fine agosto, nella caserma del Centro Addestramento Reclute di Ascoli Piceno, mi era parso di scorgerne di nuovo le tracce inequivocabili. Era giusto segnalarlo, subito dopo l’adunata. Anche perché gli ossiuri sono un fastidio. Prurito là dove non ti puoi grattare, per intenderci. M’aspettavo una pastiglietta di disinfettante intestinale e via. Il mese di C.A.R. era terminato, il giuramento alle spalle, e anelavo solo di andarmene da lì prima possibile.
A marcar visita per lo stesso identico motivo, manco a farlo apposta, , ci aveva pensato, due giorni prima, anche una recluta della camerata accanto.
Fregato.
«Tenente! Qui ce n’è un altro coi vermi!» aveva urlato il caporalmaggiore quando spiegai.
Di corsa in infermeria.
«Isolamento,» la sentenza annoiata dell’ufficiale medico.
Oh cazzo.
«Tenente, io domani parto per la destinazione,» obiettai.
Grazie ai buoni maneggi di un maresciallo, la mia destinazione definitiva era l’accantonamento di Artiglieria Contraerea Leggera presso l’aeroporto militare di Ghedi, a quindici chilometri da casa.
«E che mi frega,» biascicò il tenente.
«Quanto ci devo restare, in isolamento?»
«Il tempo delle analisi, poi si vede. A proposito, toh,» aggiunse porgendomi un contenitore cilindrico di plastica, «caga un pezzetto qua dentro.»
«No, aspetti. Forse mi sono sbagliato.»
L’ufficiale medico sospirò, scocciato. «Un cazzo. Se sono ossiuri c’è rischio di epidemia.»
«Veramente, non è proprio una malattia infettiva…»
«Oh, burba, non allargarti! Mutismo rassegnazione stecca e pentimento!» L’ultima frase l’aveva urlata alzandosi in piedi.
Il servizio militare era una roba così, ottusa. Obiezioni, ragionamenti, confronti non erano contemplati. “Mutismo rassegnazione stecca e pentimento”: la litania, urlata centinata di volte ogni giorno, riassumeva degnamente quel mondo folle.
Il caporalmaggiore mi scortò al nuovo alloggio.
Non fosse stato per il rinvio dell’avvicinamento a casa, non mi sarei trovato nemmeno male in quelle due stanzette accanto all’infermeria: letto comodo, bagno privato, doccia sempre disponibile, niente marce sotto il sole o servizi di corvé. Ogni giorno riuscivo a procurarmi i quotidiani, così avevo di che leggere. E di sera scavalcavo la finestra a piano terra per passare un paio d’ore allo spaccio, in barba all’isolamento.
Ma non fui felice di starmene immobile a osservare i commilitoni del Settimo Scaglione ’82 lasciare le camerate con la sacca di iuta in spalla per salire sui camion verdi, ognuno verso altri undici mesi di follia.
Dopo due vuote, inutili, infinite settimane, arrivò il responso dell’analisi per i parassiti: era negativo.
Così, anziché essere condotto a destinazione attraversando mezza Italia sotto il telone di un traballante e puzzolente automezzo militare insieme ad altre reclute, mi trovai a viaggiare per conto mio e senza controlli.
In fretta preparai le mie cose, indossai la drop – la divisa della libera uscita – e, munito di qualcosa che fungeva da titolo di viaggio per le Ferrovie Statali, lasciai anch’io la caserma del C.A.R. in un pomeriggio di settembre.
Presi una littorina per Porto d’Ascoli, dove attesi fino a tarda notte il primo treno utile.
Il convoglio era inaspettatamente stipato. Percorsi quasi tutti i vagoni finché trovai posto in uno scompartimento già occupato da altre cinque persone. Una giovane donna semiassopita si scostò per farmi posto accanto a sé, lato finestrino. Riprese subito a dormire, come tutti gli altri viaggiatori. Alla luce gialla e fioca concessa dal treno notturno sistemai le mie cose e presi posto.
La signorina al mio fianco avrà avuto cinque o forse dieci anni più di me. Carina. Ma, allora, erano tutte carine. Anzi, erano bellissime. Indossava un vestito leggero, una gonna di tessuto sottile. Si stava stretti e faceva caldo. Ma, ancor più rovente dell’aria estiva, avvertivo il calore delle sua coscia a contatto con la mia. Bastava poco, allora, per scatenare gli ormoni.
La signorina accavallò la gambe, ebbe un guizzo dei muscoli e io lo avvertii, irrigidendomi. Lei se ne accorse, aprì gli occhi e mi guardò per qualche secondo. Anziché scostarsi, la sentii girarsi leggermente di schiena e premere contro di me.
Cercai di valutare freddamente la situazione.
Era vero?
Sì, mi dissi, è vero.
Che fare?
Gli altri passeggeri dormivano tutti.
Il gesto fu più veloce del pensiero. Infilai una mano nella tasca posteriore dei calzoni. In quella promiscuità obbligata, il dorso della mia mano sfiorò, inevitabilmente, la superficie delle sue natiche.
Nessuna reazione.
Spostai il portafoglio da destra a sinistra. Lei respirò più forte e si accostò ancora di più. Non poteva essere infreddolita, pensai. Il testosterone saturava ormai il mio flusso sanguigno, e i corpi cavernosi si stavano dilatando. Sentivo che avrei potuto esplodere. Lei sorrise strana, poi mi fissò proprio lì. Schioccò le labbra, si alzò e aprì la porta scorrevole. Prima di richiudere si girò verso di me, gli occhi brillanti, le narici dilatate dal respiro forte. Fece un cenno col mento che poteva essere un “sì”, prima di allontanarsi lungo il corridoio.
La seguii.

Non l’ho mai raccontato a nessuno. Me ne vergognavo: pareva una storia inverosimile, una fantasia da segaiolo, la brutta sceneggiatura di un film porno, il racconto di uno sborone. Ho sempre preferito tacere.
Quella scopata selvaggia e sudata nel cesso d’un vecchio treno con una sconosciuta più grande è stata per molto tempo uno dei ricordi più poetici dei miei vent’anni. Qualcosa che la vita mi aveva regalato senza alcun pegno in cambio. Attimi irripetibili, impossibili da capire se non li si vive. La gratitudine nei confronti di quella donna senza nome, della quale ricordo il corpo generoso, la voce, il sapore delle labbra e il luccicare degli occhi, è viva ancora oggi. Lei è per me la fata buona delle fiabe, la bella sorte, il sogno, il ricordo senza rimpianto. Era il 1982: malgrado il riflusso, l’eco degli anni Settanta e della libertà sessuale non si era smorzato, mentre il terrore dell’Aids non era ancora tra le paure collettive.

Tornammo silenziosi allo scompartimento, scambiandoci qualche altro bacio nel corridoio prima di riaddormentarci, esausti, insieme al resto del convoglio.
Mi svegliai a Parma, e, come voleva il copione, lei non c’era più. Persa per sempre.
Quando mi presentai alla seconda batteria del diciassettesimo gruppo Artical di Ghedi, mi accorsi che non solo la mia fata, ma anche il tesserino verde era perduto, scomparso, smarrito chissà dove. Forse sul sedile, quando avevo tolto il portafoglio dalla tasca, oppure in quel gabinetto angusto dove passai i minuti più belli di quell’estate afosa.
Mi diedero un duplicato e trenta giorni di consegna di rigore in caserma, da sottrarre al periodo di naja.
Un mese in più di follia militare per scontare cinque minuti scarsi di sesso e poesia.

* * *

«No, non si preoccupi, non sono venuta a chiederle soldi, o di assumersi responsabilità. Non voglio nemmeno impormi, mi creda. Sa, io sono cresciuta in una famiglia particolare, nella quale mia madre e io eravamo tutto il mondo. Oggi è diverso, per me la parola “famiglia” ha un altro significato. Quand’ero giovane avrei voluto figli anch’io, poi le circostanze sono mutate. Sarebbero suoi nipoti, pensi. In ogni caso, nessun rimpianto. Insomma, intendo dirle che vivo in serenità. Allora perché sono qui, si sta chiedendo. Mia madre è mancata da tempo, da quasi dieci anni, ormai. Le dispiace? Certo, capisco, ma non è il caso… Voglio dire, lei nemmeno sapeva. Ma, le dicevo, mia madre – a proposito, si chiamava Carla – prima di andarsene ha voluto svelare il segreto. Nessun trauma per me, ero già adulta, forte. Mi mise in mano questo cartellino spiegazzato e raccontò. Perché non ha mai voluto cercarla? Mia madre non era dell’idea che una donna avesse bisogno di un uomo… Perché sono qui, giusto. Vede, io sono… Insegno. Sono insegnante. Non solo insegnante, certo. Non si è mai una cosa sola. Da due mesi mi hanno… Mi sono trasferita in questa città. Ecco, un trasferimento per forza maggiore. Ma non mi fraintenda: qui mi trovo bene. Però non ignoravo che fosse anche la sua città. Una piccola città. Ho pensato che prima o poi sarebbe stato inevitabile incontrarsi. Sono certa che, incrociando per strada qualunque uomo sulla cinquantina con i lineamenti simili al ragazzo della fotografia, mi sarei posta la domanda. Del resto credo che, in qualità di figlia biologica, ho diritto di conoscere il mio genitore, non trova? Tutto qui. Ora ci conosciamo e ci saluteremo incontrandoci per strada. Siamo civili. Le ripeto, non mi deve nulla, non si preoccupi. Se volesse rivedermi, ecco, questo è il mio numero di telefono, ma non si senta obbligato. Lo faccio per lei, nel caso volesse sapere altro. A proposito, mi chiamo Agata.»

* * *

La Piazza della Cattedrale è divisa in due.
Da una parte, la schiera ordinata dei manifestanti. Geometricamente inquadrati, ritti in piedi, un libro nelle mani, gli occhi fissi sul libro, silenziosi, immobili, rivolti verso la chiesa. Ogni tanto qualcuno dimostra di essere vivo girando una pagina. Intorno alla schiera ordinata, transenne e polizia a contenere e sorvegliare. A proteggere.
L’altro lato è invaso da una massa disomogenea e anarchica di contromanifestanti indisciplinati. Alzano cartelli. Si baciano. Sventolano bandiere a strisce multicolori, oppure viola. Slogan, canzoni, invettive.
Cinque amici – quattro uomini, una donna – si tengono un po’ in disparte per conversare mentre, senza enfasi ma con convinzione, partecipano alla protesta contro le “Sentinelle in piedi”, il movimento ultraconservatore contrario al riconoscimento delle coppie omosessuali.
«Insomma,» domanda Franco, «ti sei dimenticato di aver scopato una fata nel cesso di un vagone notte trent’anni fa, e ora ti ritrovi padre?»
«Trentatré anni fa,» precisa Ferruccio.
«Non ti capisco,» obietta Elena, la fronte corrucciata, «Dovresti essere esaltato, oppure spaventato, o comunque sentirti smosso dal di dentro fino alle viscere… Invece, niente, è come se ci stessi raccontando le previsioni del tempo.»
«Hai intenzione di rivederla, la figlia della fata?» s’intromette Daniele
«Certo che no. Non è affatto necessario frequentarci. Anche lei è d’accordo.»
Giulio commenta salace: «Appunto, anaffettività completa in tutti e due. È proprio figlia tua.»
«Ma va là!»
«Perché mai ti avrebbe cercato, allora?», insiste la donna.
Ferruccio alza le spalle. «Semplice curiosità? Quién sabe. A volte i motivi che spingono le persone sono così insignificanti. Non val la pena di costruirci sopra teorie.»
«Insomma,» lo canzona Franco, «adesso hai una famiglia.»
«No-oh! Nessuna famiglia e nessuna figlia. Agata è il risultato di una fecondazione involontaria della quale sono stato inconsapevole per decenni.»
«Ah, ecco. Una figlia a tua insaputa.»
«Essere padre non ha nulla a che fare con la genetica. Come posso sentire figlia una donna vestita con tanta sciattezza? No, no. Non è davvero mia figlia, vi dico.»
«Comunque è colpa tua,» riprende Elena. «Se avessi capito già allora di essere omosessuale non ti sarebbe accaduto.»
«Va’ a farti friggere, etero.»
«Il nostro amico Ferruccio non è un frocio vero, come noi,» interviene Giulio con tono mesto. «Piuttosto, è un versatile senza alcuna patria erotica. Esercita tutte le forme, soprattutto quelle più promiscue.»
«Giulio, sei diventato il mio biografo? Però è vero, aborro la coppia, io.»
«Perché siamo qua, allora?» Con un gesto circolare Franco indica tutto intorno a loro.
«Che c’entra? Un conto sono i diritti di tutti, altro le scelte individuali. Io, per me, sono contrario alla coppia, alla coppia di fatto, alla coppia aperta, al matrimonio…»
«Anche loro sono contrari alle coppie di fatto,» lo interrompe Franco indicando le “Sentinelle”.
«Ah no! Mi offendi. C’è una bella differenza! Questi sono omofobi e fascisti, vogliono imporre il loro oscurantismo. Io sono per la libertà: chiunque deve poter scegliere di rovinarsi la vita con una tristissima relazione di fedeltà eterna. Io, no. Per me, che sia unione civile, fidanzamento o matrimonio, la coppia stabile è un’istituzione repressiva. Anche se gay.»
«Ah, bravo,» si fa sentire Daniele, «Elena e io allora saremmo due repressi?»
Ferruccio sbuffa mentre Elena ride. «Escluso i presenti, ça va sans dire. Guardate le coppie normali. Squallore e ritratti di infelicità. Tutte problematiche, finte, distrutte o al massimo a scadenza. Volete dire di no? Il fatto che si dica “contrarre matrimonio”, come se fosse una malattia, dovrebbe far pensare.»
«Caduta di stile,» interviene Franco. «Questa l’ho letta su Facebook.»
«Sarà, ma è vera.»
«E il tuo compagno che ne pensa?» domanda Daniele.
«Non ho un partner.»
«Oh, scusa.»
«Ferrucio non ha un compagno, anche se molti amanti transitano nella sua vita,» specifica Giulio.
«Transitavano, caro biografo. Transitavano.»
«Però, la storia della figlia della fata…» riprende Elena, pensosa, «non lo so… mi sembra così strana.»
«Fai presto a dire “strano”. Tutto il mondo è strano. Anzi, è folle. Ci sono follie accettate socialmente, come la vita nelle caserme. O come certe intolleranze di tante persone.»
«Le “Sentinelle in piedi”,» specifica Giulio, «ad ogni manifestazione aumentano.»
«Ma sì, la gente va dove c’è gente, è gregge. I più sono ragazzi d’oratorio che pur di non rinnegare un’appartenenza si lasciano cadere nel cesto dei più integralisti.»
«Come pecore mature,» commenta Franco.
«Vorrai dire “Come pere mature”. Oppure, “come pecore” e punto.»
Giulio sbuffa guardandolo di sguincio. «Noioso. Sei incredibilmente noioso.»
«Giulio ha ragione,» sottolinea Franco, «ed è per questo che non hai una relazione stabile. Mica per le tue filosofie. Ringrazia noi che ti sopportiamo, altrimenti saresti solo.»
«Guarda!» esclama Giulio nell’urgenza di cambiar discorso, «c’è anche una suora tra le “sentinelle”.»
«Dove?»
«Là, in seconda fila,» indica, «dietro il ciccione.»
Non gli interessa veramente, ma Ferruccio, irritato dai commenti di Franco, si sposta di lato e scruta. In seconda fila, la vede.
Trenta, trentacinque anni, un volto dai lineamenti aspri. Non una brutta donna. Nell’insieme qualcuno potrebbe trovarla una bella ragazza.
Una vampa gli accende il viso.
«Che c’è?» Giulio segue lo sguardo di Ferruccio, fisso sulla suora. «Oddio! È quella la figlia della fata?!»
Ferruccio si gira verso gli amici, curvo, come schiacciato da una gravità invincibile.
«Vedete, no? La genetica non conta nulla.»

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Italo Bonera, bresciano, 1962, ha pubblicato i romanzi “Ph0xGen!” (con Paolo Frusca, Urania Mondadori, 2010), “Io non sono come voi” (Gargoyle, 2013), “Cielo e ferro” (con Paolo Frusca, La Ponga, 2014), “Rosso noir, un pulp italiano” (Meridiano Zero, 2017), "Il male che fa bene" (Calibano, 2023) e diversi racconti su varie testate, tra le quali la rivista Inkroci e le collane da edicola Urania e Segretissimo di Mondadori.

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