Lauren Foley – Hot Rocks

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Villaggio costiero, provincia nord di Dublino, Irlanda, 1993

 Il suo primo ragazzo aveva l’abitudine di baciarla dopo il caffè e le arance. Era uno strano sapore. Ma lei ci aveva fatto l’abitudine. Se ne stavano seduti dietro il muretto del porto fumando e sorseggiando vodka da una bottiglia di Coca Cola. Avvolti come erano dal vento, lui allungava la mano verso di lei intenta a bere sbottonandole i jeans con l’aiuto dell’indice e del pollice liberi, e lei tendeva l’orecchio alle persone che sopra di loro scendevano verso gli scogli per farsi una canna insieme agli altri. Qualcuno avrebbe portato un impianto stereo e lei avrebbe ascoltato la musica reggae diffondersi dalle rocce.
La mano di lui si allungava per raggiungerle la fibbia della cintura. Lei gli ripassava la bottiglia. Lui doveva afferrarla con la mano libera. Non era capace di afferrare la bottiglia e tenere il fumo in penombra. Poi le aveva passato di nuovo la bottiglia, iniziando a sfilarle via la cintura dalla fibbia che la intrappolava. Lei non si era inclinata all’indietro per rendergli le cose più facili. Lui era sul punto di liberarsi dalla parte frastagliata e lei gli aveva passato ancora la bottiglia. Lei sapeva che lui sapeva perché lei lo stava facendo.
Lui avrebbe avuto pazienza. Lei gliene dava.
Un altro strattone e sarebbe stata libera dalla cintura.
Lei si sedette immaginando disastri per ritardare quel momento. Fantasticando del mare che entrava vicino al muro e delle onde che li inghiottivano e li sollevavano dal loro posto di vedetta. Lei avrebbe sbattuto su qualche roccia, fratturandosi alcune costole, e forse rompendosi anche un po’ la faccia. Ma ne sarebbe valsa la pena, per fermarlo. Per bloccarlo. Per dissuaderlo, avrebbero fatto una lunga passeggiata lungo la riva e su una barca per pescare granchi avrebbero trovato il modo di uscire nel mare. E come un gufo e una gattina se ne sarebbero andati lontano da qui.
Lei aveva aperto un pacchetto di sigarette offrendogliene una, lui aveva riso rispondendo che avrebbe respirato bene tanto nell’aria quanto nelle Silk Cut. Ma lui l’aveva raggiunta toccandole i capelli per individuarne il volto, per poi disegnarle le guance con le dita, fino ad arrivarle alla bocca mettendo le mani a coppa per proteggerla. Lei aveva acceso la sigaretta e lui le aveva sorriso, e lei gli aveva risposto sorridendogli e questo era stato il loro bel momento fatto e finito.
Poi divenne buio di nuovo e lei lo sentì accanto ma non vicino, e il suo buco in gola si aprì nel torace, colando giù fino allo spazio dove una volta c’erano gli organi e lei si sentì vuota nella parte superiore di sé, e pesante come il piombo ai piedi. E forse lui avrebbe fumato  ancora e lei si sarebbe seduta ad aspettarlo. Poi lui aveva scavato un piccolo pozzo nella sabbia nel quale riporre la bottiglia di Coca Cola e con l’altra mano le aveva preso la mano, ora di nuovo libera, posandola sul lato interno della sua gamba destra, e lei l’aveva lasciata lì iniziando a contare nella sua testa fino a dieci avanti e indietro in ogni lingua che conosceva. Lui le aveva guidato la mano fino a che non fosse arrivata lì. Lei gliel’aveva lasciata muovere. E muovere. Indietro e avanti. Avanti e indietro. Lei aveva strizzato gli occhi iniziando a contare le stelle e aveva pensato alla distanza e a come una cosa possa esser visibile eppure intoccabile e si era immaginata distante un milione di miliardi di anni-luce in un oceano di stelle nel cielo e le piaceva essere lì in quel modo e avevano continuato così sui vestiti di lui, finché lui non aveva tossito e si era seduto e aveva voltato il corpo sopra e lontano da lei, facendo qualcosa che lei non riusciva vedere e neppure sapeva se voleva vedere, facendo il minimo rumore come fosse una stella che stesse esplodendo in una galassia lontana anni-luce da questa perché lo fece come se non volesse farle sentire, ma lei glielo sentì fare lo stesso.
Lei si era resa conto della musica che rimbalzava sulla punta degli scogli portando voci vivaci che squillavano e dicevano cosa avrebbero osato fare e si sfidavano l’un l’altro e ad ogni modo nessuno avrebbe ascoltato loro due sotto quel muro laggiù.
Dopo qualche istante lui aveva afferrato il suo zaino da scuola tirando fuori un Thermos di caffè e gliene aveva porta una tazza e aveva iniziato a sbucciare un’arancia e lei ne aveva succhiato un pezzetto che lui le aveva dato, e avevano continuato a sorseggiare e succhiare e a bere rumorosamente sulla sabbia fin quando uno dei loro amici non era arrivato a chiamarli urlando da sopra il muro venite se state venendo se non siete ancora venuti. E loro avevano riso, e lui l’aveva aiutata e le aveva dato un bacio – il suo bacio al caffè e all’arancia – il loro unico bacio in tutta la sera. Poi avevano fatto ritorno agli scogli dove c’erano gli altri e la radio si era mangiata tutte  le batterie e allora qualcuno con una bella voce aveva iniziato a cantare la loro canzone, e quella era stata la parte più bella della serata, e lei si era rilassata con le braccia di lui intorno al suo corpo e nessuna mano cui stare attenta, nel buio, fino alla volta successiva.

***

Alla fine dell’estate quando la notte era tranquilla e la luna era su di lei poteva sentirlo accanto a sé mentre la guardava in un modo nel quale lei non sapeva di voler esser guardata. Quando le fece scivolare la mano di sotto e le sbottonò la fibbia della cintura riusciva a vedere se lei si muoveva o stava invece ricurva rendendogli le cose più difficili. Quindi lei si sporse indietro leggermente e lui proseguì poi togliendosi di bocca la sigaretta e appoggiando la bottiglia di Coca Cola. Le aprì il bottone alla luce con disinvoltura e le strattonò la cerniera più in basso di quanto lei credeva potesse arrivare. Le mise tre dita sotto la piega e le mosse a sinistra, poi giù e a destra. La pellicina delle sue unghie le scavava nel lato interno delle gambe e le rimase impigliata nell’elastico delle mutandine che le aveva arrossato l’interno coscia. Lei gli prese la mano per tirarla via, tirandola contro la sua volontà dentro la propria bocca, prendendogli il dito e mordendone via il pezzettino di pelle ruvido. Lui la guardò con puro godimento. Poi annidò la sua mano nell’incavo del collo di lei e con l’indice ne scrisse il nome sulla giuntura delle sue clavicole e tracciò il proprio nome al centro del suo sterno per poi tornare dov’era prima. E lei glielo lasciò fare. E la sensazione di lasciarlo fare era quasi come quella che provava quando suonava con la chitarra una canzone in maniera esatta. La sensazione di lasciarlo fare era la sensazione di lasciarsi andare, e lasciare lui, lasciar andare se stessi; e il lasciarlo e il volerlo continuavano a darle sentimenti di sempre maggior felicità e lei ora desiderava sentirli ovunque, tutt’intorno a sé. Lui riportò la mano laggiù dove avrebbe o non avrebbe dovuto essere e lei sapeva cosa veniva dopo, dunque al chiaro di luna con le onde che si infrangevano lei fece scivolare giù i jeans per mostrare la sua disponibilità e lui mosse la mano per afferrarle per intero il sedere e premergli contro le dita e lei si sentì viva. E fecero un passo indietro e lui si sbottonò e mentre lui si sbottonava lei sapeva che presto lui l’avrebbe sbottonata e lei voleva esser sbottonata proprio lì in quel momento, lei voleva che lui la sbottonasse. Lui allungò la mano e prese quel coso di cui avevano bisogno per fare quella cosa e mise questo coso sul suo coso e poi il suo coso si avvicinò alla cosa di lei e con le loro due cose divennero una cosa nuova.
Poi lui la guardava in un modo in cui nessuno l’aveva mai guardata, come se guardare qualcuno fosse qualcosa da fare accuratamente, come se guardare qualcuno potesse essere tutto ciò di cui avevi bisogno o volevi. E lei lo guardava a sua volta ed ogni parte di lei lo guardava e lui guardava lei e questa cosa nuova che non era né lui né lei ma loro, e lei lo sentì. L’amore. E non faceva male come lei pensava avrebbe fatto, e lei ne gioì per il tempo che durò, e alla fine di questo quando lui appoggiò la mano di nuovo sul suo sedere com’era stato prima e premette e respirò in lei e lei in lui e poi fece quella piccola cosa del colpo di tosse ma più forte e nell’orecchio di lei così che lei lo sentì e per lei adesso era il loro rumore da conservare; e rimasero sdraiati così per un po’.
Finché non fu tempo di tornare ad essere di nuovo due cose separate e non più lui sopra di lei e lei sotto di lui come un tutt’uno e si separarono e lui si chinò lentamente ed iniziò a togliersi le scarpe e lei pensò che fosse una cosa talmente strana da fare in quel momento. E lui appallottolò i suoi calzini e i jeans e la sua maglia dell’Adidas e la sua t-shirt tutto d’un colpo e le stette davanti così seminudo. Lui la guardò come se lei fosse speciale poi corse giù alla spiaggia e poi nel mare e lei lo guardò lavarsi laggiù, e pensava cosà farà mai con i boxer tutti bagnati in questo modo e pensò che probabilmente li avrebbe gettati via, finché non riuscì più a vederlo e si chinò indietro con tutti i vestititi di nuovo addosso e guardò e guardò e non riusciva a vederlo da nessuna parte. Allora cacciò un urlo soffocato sperando che lui strillasse a sua volta, ma niente.
Poi tutti accorsero laggiù dove stavano loro ed entrarono tutti nel panico guardando lei e guardando la pila di vestiti e facendole una domanda dietro l’altra. Sapeva che erano persone che conosceva e voleva dar loro una riposta ma non riusciva a trovare il modo di far funzionare la bocca in modo che formulasse le parole e realizzò che non avrebbe potuto pronunciarle perché si accorse che la sua bocca era ancora spalancata e l’urlo che avrebbe voluto gridare stava ancora uscendo ed era questo il rumore nelle sue orecchie e loro capirono che lui era in mare e correvano in giro fuori di sé e qualcuno corse verso un pub vicino alla strada che poteva essere ancora aperto e forse una persona o due l’avevano schiaffeggiata forte perché sembrò arrivarle da entrambi i lati insieme e poi il rumore finì e il silenzio fu infinitamente peggio.

***

E nelle notti più fredde tutti loro andavano ancora giù alla spiaggia quando in altri anni non se ne sarebbero preoccupati e continuarono ad andarci finché la pioggia non fu troppo forte per star fuori tutte quelle ore e il freddo non lì riportò al chiuso. Lei se ne stava seduta nel loro angolo e nessuno la disturbava o le parlava e lei per questo li amava perché sapevano che non aveva voglia di parlare ma sapevano anche che non voleva restare laggiù tutta sola. E la musica era cambiata dal reggae agli accordi e le sinfonie, e si parlava di fondare una band con massimo di dieci componenti; perché loro non erano The Commitments, ma non volevano lasciare fuori nessuno, cazzo. E la musica più soft sfiorava l’acqua, su per gli scogli fin dentro il suo grembo, e scaldava quel posto laggiù dove viveva adesso la sua anima. E lei li raggiungeva quando cominciavano a cantare e prendeva posto per farsi una canna e sentirsi una parte di una parte di qualcosa di più, piuttosto che una parte in meno di una parte di niente; così lei seppe a diciassette anni nella sua cittadina che sarebbe rimasta per sempre quella ragazza tragicamente solitaria, e desiderava star così per sempre perché questa era adesso la sua identità. Era stata la cosa più grande che le fosse mai successa e la migliore e la peggiore e nessuno nemmeno sapeva cosa fosse perché non c’era stato il tempo di dirglielo e lei non pensava fosse giusto vomitarlo dopo. E lei amava il fatto che le fosse stato offerto nella vita della cittadina questo posto al sicuro che lei poteva tenere e indossare come un impermeabile e nessuno mai sarebbe stato così scortese da levarglielo lasciandola sotto la pioggia sola e svestita, e nessuno si sarebbe aspettato da lei qualcosa in più dell’esser delicata e a pezzi per sempre. E lei desiderava che questo sentimento di appartenenza non finisse mai, che le persone fossero gentili con lei e sapessero il suo nome ora che lei avrebbe per sempre fluttuato a metà strada verso il mare, se stessa di fronte a tutto questo. Voleva ricordarlo per sempre perché quella di lui era adesso la sua identità. Così fece, ogni mattina, prima delle sette e mezza, con il caffè e le arance.

Traduzione di Cecilia Romano

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Lauren Foley è irlandese/australiana. Nel 2016, ha vinto il premio inaugurale Overland/Neilma Sidney Short Story, ed è stata selezionata per @ Writing.ie/BGEIBAs come Racconto dell’Anno per la stessa opera: "K-K-K", che è stata pubblicata anche da Melbourne Books nell’ambito del Premio Winning Australian Writing. Lauren è stata ulteriormente elogiata nel Premio Over The Edge New Writer of the Year per: "I Don’t"; ed è stata premiata al Varuna Residential Writers' Fellowship dalla Eleanor Dark Foundation, NSW, nel 2016. Lauren è stata recentemente inserita nella categoria emergenti del Premio letterario Irish Times/Hennessy Literary, 2017. Vive a Skerries, nella contea di Dublino, e ha un Lupus eritematoso sistemico. laurenfoleywriter.com @AyearInSouthOz