June Caldwell – Upcycle: strani avvenimenti a Botanic Road

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È difficile dire se valga la pena raccontare questa mia storia, soprattutto nel contesto in cui ci troviamo, visto che così tanti di noi si trovano ad affrontare situazioni simili e in così tanti ci troviamo a pensare che la sola menzione delle nostre esperienze sia noiosa o insignificante. Dobbiamo però entrare in stretto contatto con i nostri orrori moderni per trasformarli, come il liquame viene ripulito e tramutato in acqua potabile. Alcune piccole, evidenti tracce di oscurità sono sempre state presenti, proprio là, appese ad un’amaca sopra i suoi organi, nella sporca valigia dentro la sua testa. Lui rideva di fronte alla notizia di uno stupro in televisione, rideva in faccia a quell’anziana signora che abitava in cima alla strada e che moriva di cancro (e nel modo più straziante). E ancora rideva alla vista di un cane spiaccicato sulla strada principale, o per un ginocchio lacerato, per una casa sequestrata, per le inondazioni, per la povertà e per la pubertà, per gli incendi nelle foreste, per le rivolte, per l’esaurirsi delle scorte, e tutto il resto. Lui rideva, seduto arcigno, immerso in tutto questo. Ora nella mia testa è morto, perso per me, perduto per l’ignorante bellezza di tutto.

Certi giorni mi accartoccio sul divano e mi lascio naufragare in un intervallo di tempo che pare senza fine: il programma radio di Jeremy Kyle, fiaschette di vodka e il lamento dei corvi rivolto alle luci che illuminano il prato rado del giardino sul retro. Slow Joe, nella casa adiacente, sposta il mobilio solo per il gusto di provocare rumore. Infine mi contorco fino al letto quando so di essere riuscita, con grande successo, a buttare via abbastanza ore della giornata da rovinarmi anche il giorno successivo. Nemmeno a quel punto posso però evitare di essere spiata. Sono completamente sicura che gli occhi di lui siano puntati su di me, e solo su di me. E sono altrettanto convinta di quanto per lei risulti impossibile ed estremamente sgradito affrontare tutto questo. Apparentemente lui è riuscito a venire a capo di tutto, nel momento in cui si è trovato in un letto d’ospedale. «Ecco qui Frank, mangia un po’ di yogurt, su dai. Prova a mangiare qualcosina…». La mente è qualcosa di così particolare, ci ha detto l’infermiera responsabile. Le ho riferito che sembra lui sappia perfettamente che stiamo sistemando la casa, o almeno sostiene di saperlo. Dice di vedere tutto questo con gli occhi della mente. L’infermiera mi ha risposto: «È impossibile, deve aver sentito uno dei badanti parlare di ristrutturare una casa o qualcosa di simile. Insomma, provi a pensare a come si comporta la gazza ladra… così nei giorni di lucidità, quando il sangue scorre normalmente, arraffa brandelli di realtà altrui e la elabora come se fosse sua».

Ho sempre avuto uno strano rapporto con questa casa. Quando sono partita per studiare all’università di Londra, venticinque anni fa, mi capitava spesso di essere tormentata dai ricordi di me da piccola, intenta a volare per il salotto. Quando tornavo a Dublino per le vacanze, ricordo che mia madre mi sbeffeggiava, ridendo: «Che sciocca la mia bambina!». Lui questo però non lo fece mai. Anzi, diceva con tranquillità: «Anche io facevo la stessa cosa una valanga di tempo fa, vicino al molo». Levita dopo esserti concentrata enormemente. È decisamente meglio farlo stando in piedi con i polsi stretti sui fianchi, testa in alto, respirando profondamente. Pensa di passare attraverso lo schifo umano, oltre la copertura, dall’altra parte, ascendendo lentamente. Pensa a te stessa come leggera, pura, senza sostanza. «Se perdi confidenza anche solo per un secondo, è finita» mi spiegava. «Immediatamente ti ritroverai di nuovo con i piedi su questa terra arida. Qualche volta puoi alzarti solo di qualche centimetro da terra, ma ne vale la pena. Altre invece puoi innalzarti fino ad un angolo polveroso del soffitto, senza alcun problema». Una notte, dopo che il suo compagno di stanza lo aveva scoperto, la vecchia che gestiva il pensionato aveva chiamato in aiuto un prete per esorcizzarlo e minacciarlo con parole severe. Il prete, quando capì che mio padre era un reazionario ateo, chiamò una guardia con una faccia da montone e questa guardia, dopo essere stata interrogata da mio padre su quale potesse essere la sua colpa, chiamò a sua volta uno psicologo. Negli anni ’50 l’Irlanda veniva colpita da un malessere diffuso causato dal blaterare dei comunisti. Ad ogni modo la situazione si risolse con un educato richiamo. Mio padre all’epoca svolgeva il servizio civile, e in particolare riusciva a farla sempre franca.

Mio fratello Arnold, di sei anni più grande di me, ricorda che i poster di Top of the Pops, appesi sulle quattro pareti nella stanza da letto sul retro, cadevano quando fissava intensamente la squallida toletta con lo specchio. La stessa toletta che è stata recentemente rinnovata da una mano di gesso di Annie Sloan, in grado di trasformare qualsiasi superficie senza dover aggiungere strati sottostanti e cose del genere. Io e la mia amica Geraldine bevevamo spesso del sidro e sfumacchiavamo erba guardando in quello specchio, finchè lei si spaventò al punto da non voler mai più ritornare in casa mia. Un altro fratello, Paul, divenne totalmente pazzo in quella stessa stanza. Cercò di scappare arruolandosi nell’esercito britannico e fu ritrovato nelle Falklands. Non stava combattendo, ma era intento a supervisionare i pinguini e i palazzi dell’esercito superstiti mentre tutti gli altri erano scappati. Successivamente puntò una scommessa di 90.000 sterline su un cavallo e si gettò fuori dalla finestra di un B&B a Warwick, dopo aver scoperto che avevano pagato per sbarazzarsi di lui. Mia madre lo invitò a tornare a casa per riprendersi, e alla fine rimase ben cinque anni. In quella camera divenne totalmente giallo. Alla fine morì dandosi a numerosi tentativi farmacologici di curare la sua dipendenza dalle scommesse. Diceva sempre di vedere volti, e non solo durante la notte. Vedeva facce avvizzite di donne venir fuori dal nulla, dal sacrosanto nulla. Le vedeva attraverso il riflesso del pannello di vetro della porta della cucina, intente a dirigersi verso il giardino dietro casa. Giravano molte voci sul gruppo di abitazioni (non solo la nostra) che si trovavano non lontano dalle vecchie mura dei giardini botanici di Glasnevin. In irlandese Glas Naíon significa “ruscello dei bambini”.  Un fiumiciattolo che era stato infettato dal colera, portato a sua volta dai cadaveri che si trovavano nella cavità del cimitero lì accanto. Quella era una delle teorie, per alcuni residenti un po’ sempliciotti. Allineamenti astrali, tubi di piombo, pali della linea telefonica trasformati in aggeggi per dare la scossa al cervello. Nulla fu mai provato.
Era una notte di pioggia in novembre, alla fine degli anni ’70, quando Frank tornò a casa con dei bocconcini di pollo presi dal cinese. Era fuori di sé, come sempre. Attraverso le tende di pizzo che drappeggiavano il salotto lo vidi strisciare sulle mani blu a causa della gotta e sulle ginocchia in quel gabardine di Datsun Sunny; non era in grado di reggersi sulle gambe. Il takeaway tenuto fra i denti come una doggy bag della Cena Annuale dell’Associazione dei Residenti.
C’era stato un forte scompiglio a causa di un cane rabbioso che spaventava donne e bambini, fuori dalla chiesa di Nostra Signora Addolorata. Si erano raggruppati come galline intorno ai poster laminati di un termometro al neon che pubblicizzavano i vantaggi del metodo Billings per una santa contraccezione, che teneva in considerazione le sensazioni delle sacre vulve. Parlavano del cane rabbioso che sbavava schiuma dalla bocca.
A nove anni pensavo che quel cane sarebbe potuto essere Frank. Ogni sera, quando ritornava dal lavoro, era rabbioso come quel cane. Arnold stava sul patio, con il suo impertinente ciuffo biondo calato sul volto della sua fidanzatina punk.
«Fuori di qua, donnaccia!» ringhiava Frank nel momento in cui cacciava la chiave nella serratura chiusa della porta principale, stortata nella cornice di legno dai suoi assalti precedenti. Una delle sue mosse preferite era quella di beccare uno dei suoi figli nel momento in cui arrivavano al punto di fuga, iniziando a sbattere il corpo che si ingigantiva contro i pannelli di vetro, urlando: «Pensi di essere in grado di uscire di qui facilmente, eh!». Quando capitò, tempo fa, corsi velocemente dal salotto passando per il guardaroba fino all’ingresso, chiusi la porta con forza e accesi la mia candela magica. L’odore di zolfo del fiammifero mi dava uno strano conforto. Una sorta di fuga, poi un urlo violento. Le voci di mia madre e di mia sorella serpeggiavano nell’aria con picchi velenosi. Adesso si sentiva un gruppo di voci. Si udì un forte tonfo, come il rumore di un corpo che cade. Un cucciolo ridotto ad una poltiglia di sangue rosso sparso ovunque sul muro veniva ripulito con delle spugne gialle, impugnate da piccole mani bianche. La testa di Paul era stata aperta in due con un cavo della macchina. «Andate a letto!» urlava mia madre, «tutti voi, andate a letto, me ne occupo io!».

Il punto era che non se ne sarebbe mai andato di casa di sua volontà, anche quando fosse stato anziano. E nemmeno la casa lo avrebbe sputato fuori di sua volontà. In lui albergava in realtà un qualche potere, nonostante il whiskey gli avesse preso il cervello, il cuore, le abilità intellettive, le ambizioni, le viscere, il conto in banca e le gambe. Quando si sposarono, mia madre Emma era sicuramente la sua Miss Carbone[1] della Seconda guerra mondiale. La villetta a schiera costruita negli anni ’50 aveva quattro camini; uno di questi si trovava nella camera doppia al piano di sopra e veniva utilizzato per qualsiasi donna che dovesse partorire e deporre comodamente il bebè in una cesta da bucato. Nessuno comprava lettini da bambino in anticipo, a quel tempo. C’era una mensola sopra al camino, sulla quale erano appoggiati un Padre Pio genuflesso, una Madonna in ceramica, la statuetta rotta di un pompiere, la fotografia del suo defunto padre intento a danzare ad una festa e un barattolo per la spazzatura; vinti ad un Blackpool bingo nel 1981. Io sono nata in questa stanza.

Ancora ai tempi del Pat-a-cake[2] e dell’hand-jive[3], quando fu chiesta in sposa per la prima volta, trattenne un sorriso e iniziò a correre come impazzita, nella sua gonna svasata e le sue calzette corte. Mio padre la inseguì. Come ci si aspetterebbe, dopo tutto. A ribaltare definitivamente la situazione fu forse il ritrovamento di un bambino, abbandonato senza vita in una scatola di scarpe Clark sul pavimento della camera da letto. Ma potrebbe anche essere stato qualcos’altro, non deve per forza trattarsi di qualcosa di così particolare. Forse una promozione mancata al lavoro, la noia, il bisogno improvviso di andarsene. Ma sicuramente, in un momento dei suoi trent’anni, si lasciò e ci lasciò andare. Ovviamente continuammo ad amarlo, nonostante le violenze psicologiche, la fatica quotidiana, il bere, l’incessante discussione per qualsiasi cosa, e soprattutto nonostante il terribile grigiore dell’impossibilità di cambiare la situazione. Proprio come ci si aspetterebbe da parte di una certa società nei confronti di un padre o di un marito.
Un lascito dell’età vittoriana, forse. Lo amavamo perché ci era richiesto di amarlo. Lottammo a lungo per capire perché lui fosse sempre immerso in un tale dolore, perché avesse così tanto bisogno di buttarci addosso parte di quel dolore.

Per gli ultimi tre anni, essendosene andati tutti gli altri, passava il tempo brancolando in quel vecchio pozzo maleodorante e intriso di un dolore totale. Presidiava tutto il giorno i muri, come un tornitore del legno. Agonizzava per ciò che adesso sappiamo essere state briciole di pazzia, che si stavano posando alla base della sua coscienza. Gridava nei corridoi di vetri di Murano e qualche volta, di notte, si arrampicava fino alla stanza da letto in cui dormivamo io e mia madre, da quando lui era diventato totalmente incontinente. C’erano piccole pozzanghere gialle sul lino marrone del bagno che si stendevano fino al secchio verde con il coperchio rotto nel quale lui si liberava quando non trovava più la via per il vaso. Ci chiedeva dove si trovasse e cercava una spiegazione per quella trappola sferragliante che aveva nella testa. Continuava a chiedere scusa per qualcosa che non riusciva a ricordare di aver fatto. «Non posso più gestire tutto questo» ripeteva mia madre. Era malato di demenza. Eravamo entrambe distrutte e sembrava inoltre che a nessuno importasse. Il medico della mutua ci disse che non potevamo più chiamarlo perché l’ente sanitario locale non avrebbe potuto pagare nessun dottore per patologie simili, dopo la recessione. Doveva riuscire ad arrivare all’intervento oppure marcire. Circa alla fine dell’estate di due anni fa, forse nel 2013 o giù di lì (non è facile riportare tutto) ho chiamato il servizio sociale collegato con il dipartimento locale della sanità e stabilimmo un piano. Non sapevamo che cosa sarebbe successo, non avevamo mai avuto prima esperienze di questo tipo. Persino raccontando questi fatti, mi trovo in uno stato di tristezza e di confusione simile a quello che provavo quando lo stavo affrontando. Non riuscivo ad essere assolutamente sicura di ciò che stava succedendo, sapevo solo che quel giorno sarebbe venuto. Entrambe cercammo di consolarlo dicendogli: «Sii forte, è l’unico modo per andare avanti!».
Anche quando, per la prima volta in quattro anni, uscì con la sedia a rotelle per gustare il sole tondo su di sé, la casa rese evidente che c’era un problema. Una cisterna che si trovava nell’attico, sostituita solo l’anno prima, decise di gonfiarsi come una pancia sul soffitto del bagno, esplodendo prima che arrivasse l’ascensore.
Trovammo poi uno specchio rotto senza che ci fossero finestre aperte né una corrente d’aria. Il frigorifero sussultò fino a cessare di funzionare, da solo. Io la guardai e dissi: «Non osare nemmeno dirlo! Non essere ridicola! Non essere semplicistica! Stiamo facendo la cosa giusta». Mi sentivo come se l’unico motivo per cui mi trovassi lì, mi trovassi ad essere viva, fosse quello di dovermi prendere delle responsabilità. È sicuramente ciò che dobbiamo fare, giusto? Dio sa che lui non ce l’avrebbe fatta! Era totalmente incapace di fare qualsiasi cosa. «Cerca di ricordartelo», dissi a quel punto a mia madre. Soffriva immensamente per tutta quella situazione. Si fece il letto: non lo avrebbe lasciato fino al “giorno del giudizio”.

Per quattro giorni di fila lui chiamò supplicando per la propria vita. Gli dovemmo dire di no. Doveva rimanere lì per un mese e darci il tempo di ripulire la casa. Puzzava come se fosse un orinatoio di Berlino. Per prima cosa avrebbe dovuto essere disinfettata. Dovevamo organizzare un nuovo letto. E a maggior ragione, se ne avessimo avuto la possibilità, avremmo dovuto mettere un bagno al piano di sotto, con tutto l’occorrente per lavarsi. Probabilmente avremmo potuto avere una sovvenzione per trasformare il garage, dato che le elezioni erano dietro l’angolo. «Non posso stare in questo posto terribile, sei mia moglie, per piacere riportami a casa!». Mia madre non lo aveva mai difeso, mai. Una volta cercò di avvelenarlo con lo stufato, ma fu molto tempo fa. Ricordo che stava rovistando tra gli scaffali del garage cercando la scatola nera e gialla. Io avevo la mia uniforme marrone della scuola e la sostenevo da dietro mentre lei si occupava di rimescolare un pentolone che ribolliva sulla cucina a gas incrostata di sporcizia, come se fosse una strega indiavolata.
«Sei lì per riposare, ho bisogno di tregua anche io», disse a Frank sbattendo il telefono. Il Terzo Giorno ebbe un infarto. Il Settimo Giorno fummo convocate. «È molto peggiorato, soprattutto emotivamente», ci disse l’infermiera. «Mi dispiace molto, ma poteva succedere ovunque e in qualsiasi momento». Non capivamo che cosa intendesse esattamente con tali parole, ma quando lo vedemmo ci prese un colpo. Ci trascinammo avanti e indietro per ben tre volte attraverso il reparto, prima di riuscire comprendere che quel sacco grigio sgualcito e stucchevole era la stessa persona esuberante che avevamo lasciato lì solamente una settimana prima. Impiegammo altri tre giorni e varie minacce legali per riuscire a spostarlo, da quel puzzolente sanatorio nel parco, in un vero e proprio ospedale, specializzato nel trattamento di cui lui aveva bisogno. Si leggeva accanto al suo letto la frase Non Resuscitare. Un’esile figura che veniva da Killiney o da qualche parte lì intorno ci disse che alla sua età, con la qualità di vita che lo aspettava e con la prognosi generale che gli era stata fatta (anche se non erano ancora del tutto convinti) non aveva senso fare alcunché. Dovevamo solo stare lì, aspettare. La sua vita ormai non era altro che uno scadente timer da cucina. La gola rotta. Lo stomaco vuoto. La sua testa, in poche parole, aveva iniziato a prenderlo in giro. L’arteria media del cervello mostrava un considerevole restringimento. Parecchi coaguli. Presentava varie emorragie celebrali, più di quante ci si potesse aspettare. Polmonite da aspirazione. Danni muscolari. Urlava, ringhiava. Si aggrappava a noi come ci si aggrappa a una scialuppa salvavita mezzo sgonfia. Avremmo dovuto tornare a casa e darci da fare, avremmo dovuto cercare di proseguire con i lavori. Soprattutto lei, sua moglie, la sorvegliante del suo declino. Doveva andare oltre, doveva guardare a se stessa. Doveva guardare alle cose in prospettiva. Tutti arrivano a questo punto, e quando ci si ritrova lì non c’è davvero più molto da fare.

Quella notte mi svegliai alle 2.23 del mattino. Non dimenticherò mai l’ora esatta perché vidi, attraverso la luce verdognola della sveglia, mio padre strisciare per la stanza come una lucertola impazzita. Il suo corpo era parzialmente schiacciato dai vecchi vestiti da ufficio della marina che scivolavano e cedevano. La testa pareva molto più piccola, ma non dimenticherò mai gli occhi di un feroce aspetto giallastro. Il collo piegato come se fosse stato strappato e rimesso a posto con un mucchio di pelle allentata e ricucita addosso in maniera grossolana. Ciondolava sopra la libreria Billy, da una parte all’altra, come ci si aspetterebbe di vedere nella Casa dei Rettili allo zoo di Berlino. Quella visione era accompagnata dal suono più rivoltante che mai avessi udito: una specie di clangore che non si addiceva alla sua forma umana. Il suo corpo rimpicciolito era steso sopra il mobilio come se lui o quella cosa volesse attaccarmi, preparandosi per l’incursione. Mi tirai su e mi stropicciai gli occhi. Accesi la luce sul comodino. Controllai mia madre nell’altro letto per vedere se stesse ancora dormendo profondamente. La sua figura si gonfiava e si sgonfiava lentamente dentro le coperte rosa. Ad un certo punto mi trovai nello stravagante cortile esterno di un lavaggio macchine con il motore acceso, ma senza sapere dove sarei andata. Rimasi lì per una buona ora e la ripugnante visione non vacillava, non svaniva. Potevo a malapena respirare o muovermi, i miei arti dolevano dalla paura. Potevo sentire il meccanismo dei miei polmoni nel petto che buttavano fuori e succhiavano aria viziata. Rimanevo a fissarlo mentre si rivoltava e si scagliava e correva via senza dare segno di volersi fermare. Prima di quel nauseante momento pensavo di sapere che cosa significasse essere umano, di che cosa si trattasse. Potevo aspettarmi qualsiasi terribile situazione ai limiti della paranoia o dei momenti tetri. Ma in quel momento mi resi conto di non sapere proprio nulla. In un doloroso secondo notturno, era diventato irragionevole; opaco, oscuro.

Solo una volta, per un istante nell’autunno del 1982, prese il palloncino etereo e si alzò parzialmente verso il cielo.
Era stata un’altra terribile settimana in casa, avevamo acceso il primo fuoco di carbone di fine settembre. Avevamo messo in cucina alcune sedie blu intorno alla griglia sfrigolante e tostavamo il pane, infilzato su grosse forchette, nel punto più alto della fiamma. Mia sorella Lucy aveva iniziato un nuovo lavoro come segretaria nell’Ospedale del Dottor Stevens ed era rientrata a casa prima. Frank era in uno dei suoi momenti di furia, non si dava pace e, appena entrava rovinosamente dalla porta, riprendeva con chiunque potesse la discussione del giorno precedente, riferendola a domani, riportandola indietro a oggi.
La regola generale era quella di rimanere in silenzio e fermi quando la chiave fosse stata infilata nella serratura. Per vedere. Per vedere se il cappotto sarebbe stato lanciato a terra accanto alla ringhiera. O se si sarebbe preoccupato di camminare fino al guardaroba e appenderlo, il che sarebbe stato un affare per noi. Bussò con forza alla porta della cucina e disse: «Ebbene?». Ovviamente nessuno rispose. Se qualcuno avesse risposto si sarebbe trovato con le spalle al muro. «Bene, nessuno ha nulla da dire? Nessuno che si senta abbastanza coraggioso qui?». Ancora nessuna risposta. Colpì di lato il tavolo di formica, che sbatté contro le nostre belle sedie disposte intorno al fuoco. Apparentemente fece un salto molto alto in aria (nessuno aveva il coraggio di tenere lo sguardo fisso su di lui), e atterrò sui piedi nudi di Lucy con i suoi pesanti scarponi. Ovviamente lei emise un gemito, come ci si sarebbe aspettato. Paul, che era solo di due anni più grande di Lucy, era nascosto dietro al frigorifero, fingendo di essere un investigatore. A un certo punto uscì dal suo nascondiglio e prese Frank per il collo della camicia, trascinandolo all’indietro fuori nell’atrio, mentre quello si dimenava come un gigantesco pesce gatto del Mekong che cerca di trovare l’equilibrio contro il bordo di una barca troppo piccola.
Paul gli si buttò addosso e iniziò a prenderlo a calci in piena schiena e sulla testa. Si percepivano molti tonfi e rumori sordi. «Uccidilo!» urlò Arnold. «Distruggilo». Io sgattaiolai fuori nel giardino sul retro e rimasi lì finché non diventò buio. Delineavo maiali selvaggi e bestie dalle zanne appuntite come rasoi con una lancia improvvisata ricavata da una scopa rotta che i ragazzi avevano rubato durante una gita con gli scout. Si incastrava nell’erba in posizione perfetta, nonostante ci volesse impegno per riuscire a infilzarla nel fango tra le zolle d’erba. Sembrava che gli altri si fossero dimenticati di me, o forse pensavano che sarebbe stato meglio per me rimanere fuori a perdermi per un po’. Quando mi diressi verso il salotto, qualche ora dopo, quando faceva troppo freddo per rimanere fuori, trovai Frank privo di coscienza abbandonato sulla sua poltrona, quella su cui nessuno poteva sedersi. «Non guardare», mi disse mia madre. «Guarda la televisione, su, puoi decidere tu cosa guardare se vuoi, solo per questa volta». Mi passò il gigantesco telecomando che vantava ben undici tasti cicciottelli. Un trattamento davvero raro, specialmente se si considera che il telecomando era nuovo di zecca, ancora ricoperto da una sottile plastica blu scura.

Dopo aver visto la lucertola, mia madre affermava di averlo sentito chiamare il suo nome per ore e ore. Emma! Emma! Emma! Aggiunse la mattina dopo di non essere stata nel suo momento migliore. Mi svegliai all’alba cercando di prepararmi, iniziando a fare quelle cose per la casa che erano state abbandonate da qualche tempo. La rassicurai: «È comprensibile, è normale che tu senta una specie di senso di colpa. Lo sai, stai lasciando uscire tutte le emozioni che si ricollegano a lui, a quello che lui sta affrontando ora». No, lei era totalmente sicura di aver proprio udito il suo urlo. «A un certo punto l’ho sentito anche bussare alla finestra, cercando di entrare». Ho pensato alla loro finestra, la finestra sulla facciata della camera doppia, dalla quale avevo cercato di calarmi, ai tempi, quando avevamo provato quella stupida seduta spiritica con una scatola di fiammiferi come tavoletta. Ce l’eravamo tutti data a gambe, una mandria di ragazzini sugli undici anni. «Muoviti se c’è qualcuno in questa stanza! Muoviti se puoi sentirci!». Subito dopo la scatoletta era volata giù dal letto, colpendo il termosifone e finendo ai piedi della parete più lontana. Sembrava impossibile che qualcuno di noi fosse stato capace di farlo, date le nostre mani piccole e dato che nessuno di noi aveva ancora esperienza nel fare giochetti di quel tipo. Vickie Cawley rideva sguaiatamente come il lamento di dieci corvi insieme. Io ero totalmente sconvolta dalla paura. Billie Dunne era saltata fuori da quella maledetta finestra a sei metri d’altezza per cercare di salvare la sua cara vita. Questo era accaduto solamente due settimane dopo che Billie aveva scoperto il neonato nel sacchetto di plastica giù nel vicolo verso il convento delle suore di Nostra Signora della Carità. Lo stesso posto nel quale successivamente trovarono ventidue neonati e sei scheletri di donne. Nessuna di quelle donne era mai stata denunciata come scomparsa. Billie era inciampata nella busta nel 1981, e l’aveva aperta senza veramente comprendere che cosa fosse. La piccolissima mano esangue l’aveva gettata nel panico. Immagino che fosse quello il modo in cui, un tempo, le giovani donne si liberavano di prove indesiderate. Non sarebbe probabilmente accaduto di questi tempi, dati i progressi nello studio del DNA e i progressi nella coscienza sociale. Il giorno della nostra seduta spiritica mia madre stava lavorando alla Fiera dei cavalli RDS al banchetto della cioccolata di Rowntree: Munchies, Caramacs e barrette Mars. I prodotti invenduti rimanenti furono raccolti in una sacca e trasportati per tutta la città per esserci donati. Era la prima volta che mi veniva data la responsabilità di rimanere a casa da sola senza la supervisione di Arnold o di mia sorella Lucy. Quando mia madre arrivò mi prese a schiaffi sulle guance. Doveva aver incontrato una delle madri per strada – quella di Billie Dunne era particolarmente isterica – ma, anche non fosse stato così, il suo incredibile sesto senso doveva averla avvertita che ero stata coinvolta in qualcosa di oscuro. Qualcosa di problematico e anormale. Riusciva ad avvertirlo. Il freddo che si era sparso per tutta la casa sembrava quello di una caverna, umido e pesante.
La visita successiva non avvenne nemmeno durante il rispettoso cliché della notte. Ero seduta sulla tavoletta, in bagno, con la porta spalancata, intenta a guardare fuori dalla finestra e a pensare. Era metà pomeriggio. Pensavo a come potessi rendere migliore la vita di mia madre, considerando il tempo che le rimaneva (aveva già ottant’anni). Pensavo a come avere accesso ai conti in banca di mio padre per riparare la casa, soprattutto per sistemare la cucina e l’umidità dei muri della camera da letto i quali, essendo stati lasciati per molto tempo senza alcuna cura, si trovavano in uno stato orrendo. Tutto era a suo nome. Mia madre non aveva niente. Quello che vidi dopo mi fa ancora sentire come se a quel punto fossi già una controllata e remissiva paziente del manicomio. Scalpitava per le scale, la testa era come quella che mi ricordavo, ma il corpo era quello assurdo di un ragno nero, con le otto zampe che fremevano sul tappeto davanti a me. Aveva fatto un rapido scatto prima di finire a fissarmi negli occhi. In un momento di panico fuggì di nuovo e sparì alla mia vista. Saltai velocemente giù dalla tavoletta urlando a pieni polmoni «Mamma! Mamma! Gesù Cristo, mamma, aiutami!» come se per un istante fossi tornata bambina.

C’era qualcosa di particolare nel vedere Frank sulla tromba delle scale. Nel 1986 circa ero un’adolescente Mod con un caschetto tagliato netto, pantaloni svasati blu e una faccia da cucciolo cicciottello imbrattata di fondotinta pallido della Rimmel. In quei mesi estivi facevo le consegne a mano in tutta Dublino per uno strano tizio in completo gessato che vendeva enciclopedie alle persone che volevano vantarsi di possedere della conoscenza sui ripiani del salotto. Si stava bene, mi godevo la libertà, trascorrevo nottate dedicate ai balli Northern Soul e alla musica dal vivo: nuove persone, nuove sensazioni. Mi nutrivo di polvere spaziale e lattine Campbells di polpette immerse in salsa gravy. Le banchine erano piene di bancarelle dell’antiquariato, uffici ammuffiti di avvocati e cabine telefoniche, utili per bere durante la camminata quando si avvicinavano le sette del mattino. Un pomeriggio sul presto, durante i miei giri da fattorina, vidi Frank che si arrampicava lungo una scala di metallo sul molo di Ormond aggiustandosi i pantaloni, aggiustando se stesso, tirandosi su la cerniera della vita. Sorrideva senza il suo caratteristico sogghigno. Sinceramente non lo avevo mai visto così, mai come un uomo a caso. Lui mi fissava e io fissavo lui. Entrambi continuammo a camminare senza dirci nemmeno una parola. «Non durerà molto così», mi disse la mamma quando glielo raccontai. «Non può andare avanti così». Era quasi certa che sarebbe riuscita a rimetterlo in pista se avesse smesso di bere per qualche mese. Lui era già stato dalla sua amica e, a notte fonda, mia madre rimaneva in piedi fino a tardi per scrivergli delle lettere, che secondo il suo medico sarebbero state utili. Voleva essere sicura di poterle gettare nel fuoco non appena le sue emozioni si fossero sfogate. Non sarebbe stato giusto aspettarsi che un uomo del genere potesse sostenere la frammentarietà emotiva di una donna. Faceva un lavoro importante e molto stressante che la maggior parte delle persone non sarebbe riuscita a gestire. Quella notte, dopo che lo vidi in città, su quei gradini neri della cantina, tornò a casa con i bocconcini di pollo del ristorante cinese, ma questa volta per l’intera famiglia. Polpette deliziose e bollenti come lava contenute in piccoli sacchettini anti-unto, spolverate con sale grumoso e squisito. Affondare i denti nelle polpette il pollo dà una strana sensazione alla lingua, apre una specie di nuovo ombrello costoso, l’impanatura ti si spande per la bocca. Questo gesto, per qualche ora, ci rese incredibilmente felici.

Ovviamente mia madre non era più in grado di ricordare quei bocconcini di pollo dorati. L’unica cosa che riusciva a fare era ossessionarsi sulla possibilità che la colpa del suo infarto fosse nostra. Non siamo state noi, però, a provocarglielo! Se lui ci avesse permesso di aiutarlo un po’ di più mentre era a casa, non avremmo avuto bisogno di insistere per farlo portare via in quel modo. Evidentemente anche lui aveva un problema. Tutto ciò di cui avevamo bisogno era sapere se agisse così con coscienza, volontariamente. Si trattava forse di una lezione che voleva insegnarci testardamente e con determinazione, quando in realtà ci eravamo trovate senza alternative? «Avere a che fare con queste situazioni è come avere a che fare con una foresta che brucia», disse l’infermiera Blathnaid, «anche chi ha la più ampia esperienza non può affrontare situazioni del genere a casa. Arriva il momento in cui bisogna accettare di lasciare andare quella persona». Lui nel frattempo parlava di interazioni con persone morte da molto tempo e io le chiesi se, a suo parere, potesse davvero vederle. Sembra sia una cosa che accade alle persone gravemente malate. Non sarà in grado di comprendere che sono già morti. Mi chiedevo se fosse bloccato in qualche atrio di mezzo. «Non ha senso che continui a chiedere di suo fratello Edward», interruppe mia madre. «Dio sa quanto non lo sopportasse quando era ancora vivo. Lui o quella sua orribile moglie di Sligo». Le dissi che dovevamo smetterla di pensare a tutto questo, che dovevamo accettare il fatto che stesse ricevendo le cure appropriate al suo caso. Aggiunsi che noi invece adesso avevamo il diritto di vivere a casa, nel modo migliore possibile. La cucina era stata aggiustata: una saliera color crema, piastrelle di alta qualità provenienti dall’Italia, una nuova cisterna per l’acqua con un rivestimento al titanio; le assi del pavimento della stanza da letto erano state completamente sostituite (poiché l’urina le aveva bruciate del tutto). Mia madre disse: «Per un secondo ho pensato che fosse nel patio, una notte sul tardi». No! Le risposi che quello era l’uomo del latte. A quel punto la cosa più utile da fare era porsi in modo severo riguardo a tutta quella faccenda. La dipendenza mentale di mia madre nei confronti di mio padre era durata talmente a lungo che per lei era praticamente impossibile riuscire a liberarsi da lui in modo significativo. Ridipingemmo di grigio la parete in fondo alla camera da letto dove dormivamo lei ed io e la arredammo con dei mobili verde provenzale per scacciare il malocchio. Il garage fu ripulito dalle sue cose e il giardino fu risistemato, così che ora ci si poteva sedere ad una piccola cappelletta di pietra in fondo e respirare l’aria in lunghi soffi protratti.

Giunta la sera, pensai che la cosa migliore fosse rinchiuderlo nello specchio per evitare tutto il nonsenso che sicuramente sarebbe accaduto più tardi. Lei era già talmente spaventata di andare a dormire che la spostai nella stanza singola libera, dove lui non avrebbe pensato di andare. Durante tutti gli anni della nostra crescita non ci aveva mai dato fastidio là dentro. Le diedi dell’Ambien insieme a qualche Panadol per aiutarla a dormire durante la notte e spruzzai della valeriana e degli oli essenziali di Camomilla Romana sul suo cuscino. Rinchiusa lì dentro dalla sera presto fino a buona parte del giorno dopo, iniziai a sentire come se lei non facesse più parte di tutto ciò, come se fossi riuscita a trascinarla via da una potenziale sofferenza e dalla paura.

La sua presenza nello specchio da toletta era amorfa e vaga, come se il mostrarsi a me nella sua piena forma non facesse parte del piano più grande, come se in qualche modo non ne fossi degna. Non avrebbe fatto così con nessuno dei miei fratelli, se fossero stati vivi; ma gli uomini della sua generazione erano immersi nella misoginia, che lo ammettessero o meno. Eppure non dubitai per un secondo che lui fosse lì a fissarmi, beffardo, a informarmi che nessun uomo sarebbe entrato di corsa dalla porta per portarmi fuori, che la mia pelle non era la migliore, che a dirla tutta non ero la più intelligente di loro, che mi mancava qualche rotella, e altro a seguire. Il suo odio ribollente iniziò a farmi ridere, come se la poca empatia che mi era rimasta per lui e la sua schifosa condizione fosse nascosta in uno sgabuzzino dove si mettono i fagioli, uno di quei posti che le persone usano per tenere i vestiti che sperano, un giorno, tornino di moda. «Pensi che io non mi ricordi quello che è successo alle serate del bingo anni fa?» gli chiesi. «Quando feci la pipì a letto e tu mi facesti rotolare giù come un rotolo di salsiccia, dicendomi che dovevo aspettare nell’atrio che la mamma tornasse a casa. Quando mi mettevi in quel letto che puzzava di whiskey ogni domenica notte perché eri troppo pigro per prenderti cura di noi decentemente al piano di sotto, quando tutto quello che volevo era guardare Worzel Gummidge. Che padre schifoso che eri, eppure ci facevi pena. Tutto riguardava sempre te. E che diavolo hai fatto per i tuoi genitori quando hanno lasciato l’Irlanda? Hai a malapena provato a muovere il culo per rivederli. E quando l’hai fatto eri scocciato oltre ogni limite. Ci hanno telefonato qui per lamentarsi, dall’altra parte del Mare d’Irlanda, per la tua mancanza di rispetto, tu che ti presentavi ai funerali due giorni in ritardo. Tu che ora pretendi così tanto da noi! Che dannato scherzo! Fai del tuo peggio, continua, fai del tuo peggio. Fai qualsiasi cosa tu pensi funzioni a questo stadio, e fallo con il tuo cervello malato in tutta la sua raccapricciante gloria!».
Oh, ma non pensate che questo abbia fermato la sua trasformazione in quegli orribili animali e il suo saettare da un mobile all’altro durante la notte; in realtà il mio brontolare allo specchio lo fece solo peggiorare, portandolo ad avvicinarsi di più a me, invece che alla libreria o all’armadio o ai muri. Un furetto che strisciava tra le sbarre del letto ai miei piedi, lasciando gocce di sudore e altre sostanze da farmi trovare la mattina.

Quando lei morì nella stanza singola, non la feci portare via subito, perché era esattamente quello che lui si sarebbe aspettato. Se la sarebbe aspettata lì, sdraiata, al Masseys nella Old Finglas Road, con un twin-set e con la gonna blu militare (sempre in blu militare, come la moglie di un marinaio che, durante il primo viaggio per nave, spera di sembrare perfetta per qualunque destinazione). Non gli dissi nemmeno che se n’era andata, volendo vedere se mi avrebbe detto qualcosa a riguardo, se avesse davvero un asso nella manica quando bisognava usare l’intuizione, il suo avido desiderio di fare bella impressione. Ma non fece una piega! Iniziò, però, ad apparire più spesso, più sonoramente, se volete, nello specchio. Non sono sicura che fosse una protesta latente, ma la casa fece la sua parte cadendo sempre di più. Il sistema di riscaldamento smise completamente di funzionare e le tubature sul retro della doccia crollarono del tutto. Dovetti chiamare due volte una persona della zona per rimettere le cose a posto e rimpiazzare interamente la conduttura. Muffa nera si sparse sui muri di entrambe le stanze, formando figure di farfalle spiaccicate e altre forme familiari (quella della torre Eiffel era divertente, ma mi assicurai di non ridere ad alta voce), eppure le cancellavo con la pittura di Annie Sloan dopo poche ore dall’apparizione.

Mi manca terribilmente, ma una parte di me è felice che si stia riposando come si deve. Niente più «Oddio, pensi che dovremmo tornare da lui oggi? Avrà abbastanza cioccolato amaro? Ha ancora problemi di deglutizione? Ci sono abbastanza vestiti là? Non voglio che pensino che non ci stiamo dando abbastanza da fare». Si era torturata fino al punto di dare un nome pietoso alle mogli dei martiri cattolici. Mi dispiaceva anche che non sarebbe mai riuscita a salire sulla nave da crociera della Royal Caribbean Cruise, come le avevo promesso. Quelle navi sono fuori dal mondo! Salire trecento piedi sopra il livello del mare in una capsula North Star! Una stravaganza da cena di lusso che contiene più di duemila persone felici alla volta! Lui non la portò praticamente da nessuna parte, ad essere sinceri, per lungo tempo. Non ne aveva le forze, o l’autocontrollo.

Adesso che siamo solo noi due sento come se avessi l’opportunità di capirlo un pochino meglio. Spero che, vedendo che so come si sente, che so quanto sia ferito, la smetta con i suoi giochetti in giro per la casa e cerchi una sorta di compromesso. La tovaglia era stata fatta per loro, una volta sposati, da un sarto molto talentuoso, molto costoso, con la promessa che non esisteva nessun altro pezzo identico nell’intera Glasnevin. Lo specchio era inciso in uno stile classico barocco. Fa bene concentrarsi sugli aspetti positivi della nostra situazione al momento e dimenticarsi di tutte le cose che non hanno funzionato in passato. Lui voleva essere uno scrittore, per esempio, ma non riuscì mai a continuare a farlo, come invece sto facendo io ora. «C’è molto di più nella vita che cogliere al balzo ogni bizzarra occasione che ti si pone davanti», gli dicevo. Lui pensa sia un’osservazione sensata, una di quelle che ti evita il disappunto per non avere raggiunto delle aspettative forse troppo alte. «E’ questo il problema al giorno d’oggi, le persone vogliono sempre così tanto», dice. Ha talmente ragione! Riusciamo ad essere d’accordo, e sento questa cosa come un sincero progresso. Pensare che eravamo così spaventati da lui, tutti quegli anni fa, quando in realtà era lui ad essere terrorizzato da noi. Adesso lo capisco. Cristo, se lo capisco. Così spaventata da nascondermi qua su, sotto le ruvide coperte per cavalli, durante i litigi. Le dita così a fondo nelle orecchie da farle restare appiccicose e doloranti una volta che mia sorella fosse entrata nella stanza a farmele tirare fuori. «Se n’è andato a dormire», diceva. «Via libera per adesso, la mamma ha dei deliziosi biscotti al burro nel forno».

[1] Si fa riferimento a un concorso di bellezza organizzato in Inghilterra negli anni Sessanta a cui partecipavano figlie e sorelle dei minatori.
[2] Un gioco nel quale i bambini battono le mani al ritmo di una filastrocca in rima.
[3] Una danza associata alla musica degli anni ’50, in particolare al rhythm and blues.

Traduzione di Francesca Proni

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June pubblicherà nel 2017 una raccolta di racconti con New Island Books. Il suo racconto SOMAT è stato pubblicato nel pluripremiato The Long Gaze Back – An Anthology of Irish Women Writers (Il lungo sguardo retrospettivo - Antologia di scrittrici irlandesi), a cura di Sinéad Gleeson ed è stato scelto come il ‘favorito’ dal Sunday Times. E’ stato selezionato e/o ha ricevuto una menzione speciale da: The Colm Toíbín International Short Story Award; Lorian Hemingway (USA); Sunday Business Post/Penguin Ireland Short Story Prize; il concorso per racconti RTÉ Guide/Penguin Ireland ; Over The Edge New Writer of the Year. Ha ricevuto una borsa di studio dalla John Hewitt e un premio per la letteratura dall’Arts Council of Northern Ireland (ACNI) dopo aver conseguito un Master in Scrittura Creativa alla Queen’s University di Belfast. La sua narrativa breve è pubblicata in The Moth, The Stinging Fly, Sixteen Magazine, Literary Orphans, RTÉ Ten, The Bogman’s Cannon, North West Words, Woven Tale Press, e Popshot Magazine, così come la biografia di una Puttana della povertà con Gill & MacMillan (2006). E’ possibile ascoltare June che parla della scrittura di racconti durante il programma radiofonico Hen House, oltre a una citazione della sua scrittura su CBC SundayEdition (Canada).

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