Federico Moccia – Tre metri sopra il cielo

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Roma. Una ragazza dell’alta borghesia, ottima studentessa di una scuola privata, si innamora di Step, “ribelle senza motivo” e violento, ma che nasconde un animo sensibile. Sarà grande amore, ma finirà presto.

È difficile recensire un libro così famoso, e così brutto. La trama -banale, scontata- recupera cliché della peggiore letteratura di genere: la bella, brava Babi, perennemente a dieta, che ha sempre un asso nella manica, paladina di amiche in difficoltà,  pronta ad affrontare una professoressa di latino così cattiva da risultare fasulla, ama il (finto, perché comunque è ricco sfondato) coatto, tutto muscoli, moto e Ray-Ban, ma capace di dedicarle frasi di poesia burina scrivendole sulle colonne dei ponti cittadini. Intorno a loro, amici e amiche privi di nomi di battesimo (tutti noti con soprannomi agghiaccianti quali Pollo, Madda, Gianlu, Il Siciliano) la cui unica preoccupazione è raggiungere la popolarità all’interno del gregge di beoti che compongono (nel romanzo) la massa studentesca,  attraverso mortali gare di penne, furti in appartamento e sballi di vario genere e tipo.

L’amore dei protagonisti ha come sfondo una Roma che sembra presa di peso dagli anni Ottanta, non fosse per l’attualizzazione delle marche dei prodotti, i conti in euro, e l’mp3 al posto del walkman. Il motivo si capisce presto: il romanzo vede la luce nel 1992, ma il boom delle vendite è del 2004, così il prode Moccia rimaneggia l’ambientazione; come se cambiare qualche dettaglio servisse a nascondere la patina tamarra che trasudano le sue pagine, rievocando climi e atteggiamenti che sono tra le cose meno memorabili e più deleterie degli anni Ottanta.
Per meglio sottolineare il nulla spirituale e culturale che anima il mondo di questi insopportabili teppistelli della Roma bene, Moccia adegua il proprio stile a quello dei cellulari: così, a parte l’omissione dei nomi di battesimo, tutto il romanzo è scritto al presente e infarcito di termini gergali, fastidiosi e inutili.

Rimane un mistero il successo ottenuto da questo centone di banalità sentimentali in salsa tamarra, che strizza inutilmente l’occhio a Il tempo delle mele e a Grease, rimanendo confinato nel campo della peggiore narrativa di consumo indirizzata ai lettori più giovani.

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