Era il 1832 e il cielo del Kachar gravava basso come un coperchio di ferro. L’aria sapeva di pioggia e di foglie marcite, e le montagne, a oriente, parevano sospese in una bruma lattiginosa che inghiottiva le cime una dopo l’altra.
Brian Houghton Hodgson marciava in silenzio, seguito dai portatori nepalesi, tra radici contorte e tronchi umidi coperti di licheni. Tutto, intorno, emanava un presagio di immobilità: persino gli uccelli tacevano.
Fu allora che udì il suono. Non era un verso animale: non il richiamo di una scimmia né il bramito di un cervo. Era un rantolo glaciale, accompagnato da un ritmo – tre passi, una pausa, altri due – come se qualcosa imitasse goffamente l’andatura umana.
I cacciatori si immobilizzarono, gli sguardi dilatati, le bocche aperte e senza voce. Uno di loro mormorò una parola che Hodgson non comprese subito: rakshasa.
Poi lo vide. Emerse da dietro una cortina di tronchi rattrappiti e spezzati, lentamente, come se l’ombra stessa avesse preso corpo. Era alto, sproporzionato, il torace possente, la testa troppo grande, il volto sepolto in una coltre di peli scuri e lucidi come il bitume. Ma ciò che più colpì Hodgson – più della sua figura animalesca – era l’ordine di quei movimenti. Camminava eretto, con un equilibrio impossibile, e a ogni passo il terreno vibrava come per il passaggio di qualcosa che non apparteneva del tutto al mondo visibile.
Gli uomini urlarono. Hodgson restò solo, paralizzato, mentre il suono di quei passi s’infrangeva nel suo cranio come un tamburo lontano. Avvertì un freddo improvviso, un gelo che saliva dal midollo, e comprese – senza volerlo ammettere – che ciò che aveva di fronte non era una bestia. Era qualcosa che ricordava la forma umana, ma non la sua sostanza.
Quando infine la creatura voltò il capo, Hodgson credette di scorgere, dietro la peluria nera, due occhi chiarissimi, privi di espressione, come due perle lattiginose sospese nel nulla. Guardavano attraverso di lui, oltre di lui, forse dentro la memoria stessa del luogo.
Non ricordava come fuggì. Più tardi, scrivendo la sua nota, tentò di ridurre l’orrore a ipotesi zoologica: possibly an ourang, annotò con mano tremante. Ma nel fondo della sua mente, dove la ragione non mette piede, continuò a risuonare quel passo irregolare, quel ritmo da incubo che, nelle notti di vento, sembrava riprendere tra le gole dell’Himalaya. A volte, nel dormiveglia, credeva di sentirlo anche dietro le mura della sua residenza: un rumore soffocato come di passi trascinati nella ghiaia bagnata. Allora il suo respiro si faceva corto, e un sudore freddo gli imperlava la fronte. Sapeva che nessun animale avrebbe potuto seguirlo laggiù, e tuttavia il suono era lì, ostinato, come inciso nei suoi nervi.
Cominciò a temere le foreste, poi le ombre, infine il silenzio stesso. Ogni fruscio gli pareva un richiamo, ogni crepitio un segnale dell’altro mondo che si piegava per osservarlo. Gli occhi lattiginosi della creatura tornavano nei suoi sogni: fissi, impersonali, come quelli di una forma di vita antichissima e dimenticata, forse sopravvissuta al gelo primordiale della Terra.
Così, mentre classificava uccelli e mammiferi, Hodgson sapeva – con un terrore che mai avrebbe osato confessare – che tra le sue note, tra le righe di latino e d’inglese, s’insinuava la memoria di un passo che nessuna scienza poteva spiegare. Un passo che apparteneva al gelo, e che ancora attendeva, nelle valli più alte, di riprendere il proprio ritmo.
Perché là, dove il ghiaccio incontra la foresta, di sicuro qualcuno – o qualcosa – cammina ancora.
Racconto liberamente ispirato alla vicenda riportata qui: B.H. Hodgson e l’abominevole uomo delle nevi: un incontro a metà tra zoologia e leggenda



























