B.H. Hodgson e l’abominevole uomo delle nevi: un incontro a metà tra zoologia e leggenda

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Nel 1832, sulle pagine del Journal of the Asiatic Society of Bengal, comparve un articolo firmato da Brian Houghton Hodgson, orientalista e naturalista britannico che visse a lungo in Nepal. Hodgson non era un viaggiatore occasionale: fu residente britannico a Kathmandu e per decenni studiò con passione la fauna, la flora, le lingue e le religioni dell’Himalaya. La sua curiosità lo portò a descrivere nuove specie animali, a raccogliere manoscritti sanscriti, a osservare usi e costumi delle popolazioni locali. Uomo di scienza, ma anche di ampie vedute culturali, incarna bene quella generazione di studiosi-ufficiali coloniali che intrecciavano ricerca naturalistica, filologia e amministrazione politica.

Ma veniamo all’articolo di cui vogliamo parlare: On the Mammalia of Nepal era un contributo zoologico: una sorta di catalogo ragionato delle specie osservate nel territorio himalayano. Eppure, tra descrizioni di scimmie, cervi e felini, Hodgson inserì anche una nota sorprendente. Raccontò, di seconda mano, ciò che i suoi cacciatori nepalesi gli riferirono: l’apparizione improvvisa di un wild man, un “uomo selvatico”, che camminava eretto, ricoperto di peli scuri, privo di coda. Hodgson, fedele al suo razionalismo, ipotizzò che potesse trattarsi di un orangotango o di un altro animale male identificato, ma non nascose che i suoi uomini lo presero per un demone, un rakshasa delle credenze indiane, e che preferirono fuggire piuttosto che affrontarlo.
Questa breve parentesi, che occupa lo spazio di una nota a piè di pagina, può sembrare marginale; eppure ha avuto un destino singolare. È infatti considerata la prima menzione occidentale di quello che, un secolo più tardi, sarebbe diventato l’“abominevole uomo delle nevi”, lo Yeti.

Da un’osservazione incerta, forse un malinteso, nacque dunque l’embrione di un mito globale.

Il valore letterario di questo passo non sta solo nel contenuto “meraviglioso”, ma nel suo essere una narrazione sospesa tra scienza e mito. Hodgson scrive con il linguaggio della zoologia ottocentesca, ma nel suo testo s’insinua la voce dei portatori nepalesi, con la loro paura e la loro immaginazione. Abbiamo così un piccolo racconto nel racconto: un gruppo di uomini nella giungla, un’apparizione improvvisa, la fuga precipitosa, l’ipotesi di un demone. È una scena che si legge come una micro-novella gotica o fantastica, degna di essere accostata alle leggende di frontiera.
In questo senso, l’articolo scientifico si apre alla dimensione letteraria perché non descrive solo un animale, ma documenta un’esperienza percettiva, una paura collettiva, un modo in cui la natura si confonde con l’immaginario. La logica del brano, infatti, segue una traiettoria chiarissima:

  1. constatazione zoologica (forse un animale sconosciuto, “possibly an ourang”);
  2. dichiarazione di scetticismo (Hodgson stesso “doubt[s] their accuracy”);
  3. inserimento del punto di vista indigeno (la creatura scambiata per un rakshasa);
  4. descrizione fisica sintetica (camminava eretto, era peloso, non aveva coda).

È un mini-racconto in cui la voce dello scienziato e quella dei suoi informatori convivono, e in questa convivenza nasce il fascino del passo.

Brian Houghton Hodgson (1801–1894) fu una figura poliedrica: diplomatico britannico in Nepal, lessicografo del tibetano e del sanscrito, studioso delle religioni buddiste e naturalista instancabile. A lui si devono decine di descrizioni di nuove specie animali, collezioni di manoscritti che ancora oggi arricchiscono le biblioteche europee e osservazioni etnografiche che mescolano rigore e sensibilità. Non fu un romanziere né un narratore di professione, eppure – come spesso accade negli scritti di esploratori e scienziati dell’Ottocento – nelle sue righe trapela una dimensione narrativa che travalica l’intento puramente scientifico.
In altre parole: Hodgson non “inventò” lo Yeti, ma il suo breve resoconto è il primo seme di una leggenda che avrebbe trovato terreno fertile nell’immaginario occidentale. E ciò che rimane affascinante, a quasi due secoli di distanza, è come una nota a piè di pagina di un naturalista possa trasformarsi, per un curioso destino, in un frammento di letteratura mitica.


L’incontro con lo yeti

La religione ha introdotto il Bandar nella regione centrale, dove pare prosperare, mezzo addomesticato, presso i templi, nella popolosa valle del Nepal propriamente detta. Una volta, nel Kachar, i miei cacciatori furono allarmati dall’apparizione di un “uomo selvatico”, forse un ourang, ma dubito della loro precisione. Presero la creatura per un cacodemon o rakshas, e fuggirono invece di sparargli. Si mosse, dissero, eretto; era coperto di lunghi peli scuri e non aveva coda.

Testo originale

Religion has introduced the Bandar into the central region, where it seems to flourish, half domesticated, in the neighbourhood of temples, in the populous valley of Nepal proper. My shooters were once alarmed in the Kachar by the apparition of a “wild man,” possibly an ourang, but I doubt their accuracy. They mistook the creature for a cacodemon or rakshas, and fled from it instead of shooting it. It moved, they said, erectly: was covered with long dark hair, and had no tail.

Il brano apre una piccola finestra sull’Himalaya ottocentesco, attraverso lo sguardo combinato di un naturalista europeo e dei suoi collaboratori nepalesi. Hodgson, con la sua precisione scientifica, ci racconta una scena che avrebbe potuto essere presa pari pari da un racconto fantastico: l’apparizione improvvisa di un uomo selvatico che cammina eretto, peloso, senza coda, e la reazione istintiva dei cacciatori che fuggono terrorizzati.

Due elementi meritano una spiegazione culturale:

  1. Cacodemon: termine latino che Hodgson usa qui con gusto antiquario. Significa letteralmente “demone maligno” (kakos daimon in greco), una creatura soprannaturale pericolosa e temuta.
  2. Rakshas: figura della mitologia indiana e tibetana, spesso descritta come demone o spirito maligno, capace di spaventare o ingannare gli esseri umani. I portatori nepalesi usavano la parola per dare un senso alla paura improvvisa e inspiegabile di fronte a un essere insolito.

La potenza letteraria del frammento nasce proprio dalla sospensione tra realtà e mito. Hodgson non inventa nulla: riporta fatti, dubbi, osservazioni. Eppure, il suo testo funziona come mini-narrazione fantastica, perché:

  • Inserisce la voce dei portatori locali, con la loro paura e il loro immaginario.
  • Alterna registro scientifico (“forse un ourang, ma dubito della loro precisione”) e registro narrativo, creando un ritmo tra verosimile e meraviglioso.
  • L’apparizione è descritta con pochi dettagli essenziali ma fortemente evocativi: camminava eretto, era coperto di lunghi peli scuri, non aveva coda. In poche righe Hodgson costruisce un’immagine visiva precisa e inquietante.

In altre parole, questo frammento dimostra che la letteratura può nascere anche in un contesto scientifico, quando l’osservazione si tinge di paura, sorpresa e cultura popolare. Non c’è invenzione artificiosa: l’incanto nasce dalla testimonianza, dalla discrepanza tra ciò che i cacciatori vedono e ciò che Hodgson tenta di spiegare, e dal dialogo implicito tra realtà animale e immaginario demoniaco.
È un piccolo racconto di frontiera, quasi gotico, sospeso tra l’Himalaya reale e l’Himalaya della leggenda, e proprio per questo continua a essere così suggestivo.

 

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021), "Ci sedemmo dalla parte del torto" (con Viviana E. Gabrini, Prospero, 2022), "Niente per cui uccidere" (con Viviana E. Gabrini, Calibano, 2024) e "Trasformazioni. Storie dal pianeta che cambia (con Giovanni Peli, Calibano, 2025). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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