Il Decameron di Pier Paolo Pasolini

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Il Decameron è il film con cui Pasolini inaugura la Trilogia della vita (seguiranno I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte), prima di concludere la sua parabola artistica – e purtroppo anche esistenziale – con il tragico epilogo di Salò o le 120 giornate di Sodoma, celebrazione cupa (ancora non del tutto compresa) di una morte aberrante e senza vie d’uscita.

Pasolini rilegge con il suo stile nove racconti del Decameron di Giovanni Boccaccio, ambienta l’azione principale a Napoli e sulla costiera amalfitana – perché Napoli è una sacca storica, i napoletani hanno deciso di restare quello che erano, dirà -, usa il dialetto partenopeo, sceglie attori non professionisti che esprimano i volti dei poveri del tempo e la genuinità che pretende dagli interpreti.

Il film viene accolto male da certa critica ideologica, soprattutto dai borghesi benpensanti che si accaniscono sul lavoro del regista tacciandolo di immoralità e ritenendo che violi il comune sentimento del pudore. Pasolini raccoglie ben ottanta denunce per oscenità in un film dove si limita a mettere in scena quel che Boccaccio ha scritto nel 1350, senza mostrare niente più del dovuto, soltanto accennando ad atti sessuali, sempre sfumati al momento opportuno. Saranno i prodotti successivi a esagerare, quella ridda di pellicole definite decamerotici dalla critica colta, che spesso risalivano alle fonti boccaccesche premendo l’acceleratore sui contenuti erotici più espliciti. Una moda che durò poco, esaurendo gli argomenti carnali e assecondando un bisogno di erotismo da parte degli spettatori, per portare verso la commedia sexy ambientata in tempi moderni. Pasolini è responsabile anche di questo – si fa per dire – come in parte ha dato origine al nazierotico (insieme al collega Tinto Brass che diresse un ottimo Salon Kitty), degenerazione del lato più violento ed eccessivo del suo Salò. In ogni caso solo certa ottusa cultura borghese degli anni Settanta – intrisa di cattolicesimo per beghine e baciapile – poteva accusare di pornografia un’opera d’arte come il Decameron, dove il poeta di Casarsa interpreta Boccaccio alla luce della propria sensibilità artistica.

Nel film troviamo tutti i temi cari a Pasolini, a partire dai volti dei poveri – scelti appositamente, come detto, tra non professionisti – passando per una perfetta ricostruzione di ambienti e per una scelta antiartistica, vicina al realismo, narrando le storie con spirito popolare, dai vicoli di Napoli, con narratori che si esprimono in dialetto. La pellicola è impaginata con due storie portanti che si intersecano ad altri sette episodi, tutti molto metaforici e vicini al modo di sentire di Pasolini e alla sua poetica letteraria.

Ser Ciappelletto – interpretato da un convincente Franco Citti – è il primo episodio guida, incarna il truffatore che anche in punto di morte mette in scena l’ultima beffa e si fa passare per santo. Pasolini (causa il rifiuto del poeta Sandro Penna) è l’interprete dell’episodio finale che ci accompagna per tutta la seconda parte e mostra un allievo di Giotto intento a confezionare la sua opera d’arte. Silvana Mangano, unica vera attrice del film, compare solo per un istante come Madonna nel sogno del pittore. E il finale dell’episodio è tutto pasoliniano: Perché concepire un’opera d’arte quando è così bello sognarla? Tra i due episodi principali vediamo intersecarsi la storia del ragazzo che si finge muto per approfittare di un intero convento di suore; l’ingenuo che vuol trasformare la moglie in cavalla ma non vorrebbe che il furbo amico le mettesse la coda; Andreuccio che prima fa il bagno negli escrementi poi si vendica rubando un anello sacro da una tomba; la ragazza che conserva la testa dell’amato ucciso dai fratelli in un vaso di fiori; lo sciocco marito che pulisce la botte mentre la moglie intrattiene l’amante; i due innamorati sorpresi in terrazza e costretti a sposarsi.

Pasolini inneggia alla vita ma non dimentica la morte, che non comparirà improvvisa nel drammatico epilogo di Salò, ma è immanente anche negli episodi più comici di questa pellicola. Il Decameron di Pasolini finisce per rappresentare – in perfetta sintonia con il corpus della sua opera – uno sberleffo al potere e alla religione, una sinfonia di volti e caratteri eterni e immortali, un poema visivo che ricostruisce un Medio Evo carnale e concupiscente, vitale e intenso, fuori dagli schematismi di chi lo ritiene un’epoca soltanto di bigotte superstizioni. Pasolini incontra Boccaccio e lo fa suo, nelle tematiche simboliche che servono per continuare a costruire un affresco antiborghese e anticonvenzionale.

Inutile dire che un fantastico dilettante come Pasolini è un ottimo direttore di attori non professionisti, che guida con mano ferma, oltre a scegliere gran parte della colonna sonora con la consulenza di Morricone. Tonino Delli Colli imposta una fotografia a colori luminosa e piena di vitale energia, mentre Dante Ferretti imbastisce scenografie stupende nelle credibili location napoletane. Ottimi i costumi di Donati e il montaggio compassato di Baragli. Un film da vedere, magari insieme a Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani – più convenzionale e in linea con gli ambienti fiorentini del Decameron –  per cominciare a capire non solo l’opera letteraria del Boccaccio, ma l’intero Medio Evo.

Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto: tratto dal Decameron di Giovanni Boccaccio. Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Fotografia: Tonino Delli Colli. Scenografia: Dante Ferretti. Costumi: Danilo Donati. Montaggio: Nino Baragli, Tatiana Casini Morigi. Musiche: Pier Paolo Pasolini, con la consulenza di Ennio Morricone. Aiuti Regista: Sergio Citti, Umberto Angelucci. Assistente alla Regia: Paolo Andrea Mettel. Case di Produzione: PEA (Roma), Les Productions ArtistesAssociés (Paris), Artemis Film (Berlin). Produttore: Franco Rossellini. Pellicola: Kodak Eastmancolor. Formato: 35 mm. Colore. Mixage: Mario Morigi. Distribuzione: United Artists Europa. Riprese: settembre – ottobre 1970. Teatri di Posa: Safa Palatino. Esterni: Napoli, Amalfi, Vesuvio, Ravello, Meta di Sorrento, Casetta Vecchia, Roma (periferia campestre), Viterbo, Nepi, Bolzano, Bressanone, Sana’ (Yemen del Nord), Valle della Loira (Francia). Durata: 110’. Prima: Festival di Berlino, 29 giugno 1971. Premi: XXI Festival di Berlino, Orso d’argento. Interpreti: Franco Citti (Ser Cepparello – San Ciappelletto), Ninetto Davoli (Andreuccio da Perugis), Jovan Jovanovic (Rustico), Vincenzo Amato (Masetto da Lamporecchio), Angela Luce (Peronella), Pier Paolo Pasolini (allievo lombardo di Giotto), Guido Alberti (ricco mercante), Gianni Rizzo (il padre superiore), Giuseppe Zigaina (frate confessore), Elisabetta Genovese (Caterina), Silvana Mangano (La Madonna). Anno: 1970.

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Gordiano Lupi (Piombino, 1960), Direttore Editoriale delle Edizioni Il Foglio, ha collaborato per sette anni con La Stampa di Torino. Ha tradotto i romanzi del cubano Alejandro Torreguitart Ruiz e ha pubblicato numerosissimi volumi su Cuba, sul cinema e su svariati altri argomenti. Ha tradotto Zoé Valdés, Cabrera Infante, Virgilio Piñera e Felix Luis Viera. Qui la lista completa: www.infol.it/lupi. Ha preso parte ad alcune trasmissioni TV come "Cominciamo bene le storie di Corrado Augias", "Uno Mattina" di Luca Giurato, "Odeon TV" (trasmissione sui serial killer italiani), "La Commedia all’italiana" su Rete Quattro, "Speciale TG1" di Monica Maggioni (tema Cuba), "Dove TV" a tema Cuba. È stato ospite di alcune trasmissioni radiofoniche in Italia e Svizzera per i suoi libri e per commenti sulla cultura cubana. Molto attivo nella saggistica cinematografica, ha scritto saggi (tra gli altri) su Fellini, Avati, Joe D’Amato, Lenzi, Brass, Cozzi, Deodato, Di Leo, Mattei, Gloria Guida, Storia del cinema horror italiano e della commedia sexy. Tre volte presentato al Premio Strega per la narrativa: "Calcio e Acciaio - Dimenticare Piombino" (Acar, 2014), anche Premio Giovanni Bovio (Trani, 2017), "Miracolo a Piombino – Storia di Marco e di un gabbiano" (Historica, 2016), "Sogni e Altiforni – Piombino Trani senza ritorno" (Acar, 2019).

1 COMMENTI

  1. La Trilogia della vita (così definita dai critici) è, a mio parere, parallelamente, una trilogia della morte (della metafisica della morte) e anticipa paradossalmente le cupe atmosfere de Le 120 giornate di Sodoma, l’ultimo truce film di Pasolini (che si rivela quel pessimista che io suppongo che fosse).
    Come spiegare altrimenti, accanto allo sfavillio esibito della vitalità, le scene di morte disseminate nei film: tombe profanate, teste mozzate, cadaveri, agonie, crocifissioni, decapitazioni, avvelenamenti, castrazioni; e lo sfacelo rappresentato da rovine, latrine e merda, volti luridi e sfigurati da ghigni inquietanti e dentature improbabili; e le lacrime che accompagnano separazioni e tradimenti, le angosce per amicizie e amori impediti, le pene d’amore strazianti.
    E l’uso ricorrente di Fenesta ca lucive, la struggente canzone napoletana che troviamo sia ne Il Decameron che ne I racconti di Canterbury  (e perfino in Accattone) che narra della morte tristissima di una amata (Nennella toja è morta e s’è atterrata, …  Mo dorme co’ li muorte accompagnata).
    E la scena finale dei Racconti che mostra un inferno corrusco e feroce, peggiore di quello descritto da Dante, più terribile di quelli dipinti da Hieronymus Bosch.

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