«È arrivato!».
La voce di mia moglie al telefono è concitata, persino un po’ allarmata.
«Sicura?» chiedo. È una domanda stupida, me ne rendo conto.
«Come sarebbe a dire sicura? Ce l’ho qui sul tavolo!».
«No, intendo: sicura che sia proprio… quello?».
«Senti, viene dalla casa editrice, è un pacchetto che ha la forma di un libro… che altro vuoi che sia, una bomba?».
Sono le dieci di mattina, mi trovo in ufficio e dovrò aspettare fino alle sei del pomeriggio per raggiungere casa. Non sono in vena di ironie. «Ok, ok… tienilo lì fino a quando arrivo!».
«Tienilo lì?» ripete mia moglie con tono mellifluo. «Quindi se al pacchetto sbucano due gambine e prova a fuggire lo devo inseguire? Nel caso sono autorizzata a sparargli?».
Mugugno qualcosa di poco gentile sul suo spirito umoristico da patata e sbatto giù la cornetta.
Da quel momento in poi il mio cervello si trasforma in gelatina, con la medesima capacità di ragionare di un barattolo di marmellata. Un collega entra nella mia stanza verso mezzogiorno per chiedermi un parere su una questione di lavoro e io rispondo in modo così improbabile che quello si allontana attonito, senza dire una parola, squadrandomi con evidente preoccupazione. Probabilmente già nel pomeriggio si diffonderà la voce che vengo in ufficio sbronzo e poi straparlo.
Durante la pausa pranzo non riesco a mangiare. Lo stomaco è uno straccio strizzato e lasciato a seccare sotto il sole. Butto giù un caffè che ha l’unico effetto di farmi diventare ancora più nervoso.
Alle tre del pomeriggio mi telefona un poveretto per chiedermi notizie sulla sua pratica e ci manca poco che me lo mangi via cavo. L’orologio sembra fermo. Anzi, in un recesso della mente, coltivo l’impressione paranoica che le lancette girino al contrario.
Nonostante tutto, arriva la benedetta ora di uscire. Staziono in piedi davanti al lettore con il badge in mano già da diversi minuti, quando scatta l’orario. Passo il tesserino al milionesimo di secondo, come il più becero dei Fantozzi, e fuggo via correndo come se il palazzo stesse per crollare.
La mia performance dura pochissimo. Siccome sono atletico come un ottuagenario con l’enfisema, dopo due isolati ho già il fiatone e devo rallentare. Tenendomi il fianco che mi fa male, arrivo in qualche modo a casa. Suono il citofono, ma non aspetto che mi rispondano: apro con la chiave e mi catapulto verso l’ascensore. È occupato e allora picchio pugni rabbiosi contro la porta per mettere fretta a chi lo sta usando. Dopo cinque secondi l’ascensore, che in realtà stava già scendendo, si apre e ne esce a fatica il signor Lavopa, del terzo piano. Esce a fatica perché è un marcantonio alto due metri e largo quasi altrettanto, istruttore di body bulding, che mi squadra come se fossi un topo che, invece di correre nelle intercapedini dei muri, ha improvvisamente deciso di usare l’ascensore. In qualsiasi altro momento sarei scomparso profondendomi in umilianti scuse. Oggi invece lo scanso con una spallata (per la verità sono io a rimbalzare) e mi butto nell’ascensore. Lavopa dice qualcosa di poco lusinghiero sulla mia povera mamma, ma non ho tempo (né coraggio) di indagare e premo al volo il pulsante del mio piano. È un vecchio ascensore con le porte interne che si aprono a mano. Naturalmente, preso dalla frenesi,a le spalanco prima del tempo, bloccando la cabina mezzo metro troppo in basso; così sono costretto a richiudere e a ripremere il pulsante. Riapro di nuovo troppo presto e stavolta sono a quindici centimetri dall’obbiettivo. Impreco come un camionista grossetano miscredente e al terzo tentativo raggiungo il pianerottolo e riesco a uscire.
Mia moglie, che nonostante tutto ha pietà di me, mi aspetta con la porta di casa aperta.
«Dov’è?» ansimo.
«Sul tavolo. Non ci crederai ma non si è mai mosso…».
Fingo di non cogliere la battuta.
In cucina, un pacchetto da niente. Una busta color giallino con l’indirizzo scritto a mano.
Mi siedo e mi tergo il sudore dalla fronte con un fazzoletto. Mia moglie mi raggiunge e si siede accanto a me. Restiamo a fissare l’oggetto.
«Cosa aspettiamo?» chiede lei, dopo un minuto.
«Niente… adesso lo apro» dico, restando immobile.
«Vuoi che chiami gli artificieri? Pensi davvero che possa essere una bomba?» commenta caustica dopo un altro minuto.
«No dài, hai ragione, apro!» annuncio.
Prendo il pacchetto con mani non proprio ferme, lo scarto (per la verità lo distruggo) e alla fine eccolo.
Eccolo qui. Qui nelle mie mani.
La prima copia del mio primo libro.
C’è proprio tutto. C’è il titolo. C’è l’immagine di copertina. C’è il mio nome. Ci sono le pagine. Sono pure incollate insieme. Ci sono le righe stampate sopra. Non manca proprio niente.
Lo apro piano, come temendo che possa spaccarsi in due. C’è pure la dedica, quella che non ho confidato a nessuno. Controllo che sia corretta, poi consegno il volume in mano a mia moglie.
Che legge il proprio nome e incomincia a piangere come una fontana.
Non lo so che cosa sto provando. Non lo so dire. Fino a un attimo fa mi sentivo agitatissimo e ora sono improvvisamente calmo, quasi distaccato. Che strano!
Ora sono ufficialmente uno scrittore. Non dovrei essere fuori di me dalla gioia? Questo non dovrebbe essere il momento più bello della mia vita professionale? Perché allora mi sta facendo molto meno effetto di quanto avessi immaginato? Perché sembra quasi più emozionata mia moglie di me?
A un tratto capisco. Capisco che non riesco a lasciarmi andare alla gioia perché sono consapevole che questa non è affatto la felice conclusione, bensì solo il difficile inizio della mia avventura. Che è ancora tutto da fare. Che la cosa importante non è che ci sia un libro con il mio nome sopra (questa è solo una soddisfazione fine a se stessa), ma che quel libro venga letto da più persone possibile. E che gli piaccia.
Nella testa è già scattato il meccanismo. Sono già oltre, sono già in ansia in attesa di vedere se il romanzo andrà venduto.
Insomma, magari non ho ancora nessuno dei pregi, ma ho già tutti i difetti degli scrittori.
FINE