Euro Carello: nessun autore scrive soltanto per sé

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Euro Carello, torinese, non sapendo opporsi a due insopprimibili vocazioni, ha avuto la felice sorte di insegnare e un’attiva partecipazione alla stagione del ’68. Per quindici anni è stato volontario nell’Associazione umanitaria Emergency. Il suo racconto I Corvi sono lì che aspettano ha vinto il XIV Trofeo RiLL. Ha pubblicato Il seme del nemico, racconti contro la guerra (Giulio Perrone Editore, 2011 e 2016), Letti a undici piazze, racconti su undici piazze torinesi (Graphot Editore, con Mario Bianco, 2014) e Trenta per te (Calibano Editore, 2020). Il suo spazio è www.eurocarello.it 
Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del romanzo Trenta per te.

Hai recentemente pubblicato con Calibano Editore Trenta per te, un romanzo distopico che racconta un futuro nel quale i clandestini possono ottenere il permesso di soggiorno solo segnalando altri trenta clandestini, con tanto di scheda magnetica per registrare le catture. Ogni clandestino è quindi, nello stesso tempo, cacciatore e preda, in una sordida guerra senza esclusione di colpi tra gli ultimi. Come mai hai scelto questo argomento per il tuo romanzo?
Credo sia stato semplicemente una sorta di esercizio di estrapolazione, basato sull’osservazione indignata di quanto, ormai da troppi anni, accade nel nostro Paese sulla questione dell’immigrazione. Mi sono chiesto, cioè, che cosa potrebbe succedere se certe derive di rifiuto, demonizzazione e criminalizzazione, sempre più presenti in Italia, acquisissero ulteriore spazio. Come potrebbe andare a finire se la narrazione dell’immigrazione-come-problema fosse ulteriormente amplificata e distorta, fino a far considerare ineludibili e quasi ovvii dei processi che ora sarebbero impensabili?

Il riferimento ai trenta denari con cui Giuda avrebbe venduto Gesù è voluto?
Il numero trenta non era stato pensato con quella motivazione, ma semplicemente per un motivo di plausibilità: nell’ottica crudele del Potere che la concede, dieci o venti catture per avere la carta gialla, cioè il permesso di soggiorno, mi sembravano poche, trenta era un numero più adeguato. Ma l’inconscio ha i suoi percorsi, e un’educazione cattolica, con tanto di frequenza alle elementari in una scuola di suore, ha probabilmente avuto il suo peso, anche in questioni minori come questa. 

Hai deciso di focalizzarti su tre personaggi in particolare, narrando la vicenda da tutti e tre i loro punti di vista. A che cosa si deve questa tua scelta narrativa?
Mi sono chiesto, in fase di progettazione del romanzo, come poter raccontare quello che mi premeva: la degenerazione socio-politica di un paese occidentale avanzato e almeno formalmente democratico, bombardato quotidianamente da propaganda xenofoba e razzista. E ho scelto tre personaggi che, in maniera diversa, incarnano il problema. Una ragazza, Sunee, padre croato e madre thailandese, la più vicina, almeno in apparenza, alla possibilità di integrazione sociale; e poi due uomini: Shamil, ceceno, ex-combattente; e Jab, africano nero, perché non poteva mancare la personificazione della paura del diverso “più diverso”.

Pensi che lo sconfortante futuro prossimo che ritrai nel tuo romanzo possa davvero realizzarsi?
Bella domanda. Posta in questi termini perentori, direi di no, anche se sulla copertina del libro si parla di una distopia prossima ventura, ma lo dico incrociando le dita. Qua e là nel mondo purtroppo abbiamo già assistito e assistiamo a fenomeni che non sono poi così distanti, almeno concettualmente, da quanto narrato nel romanzo. La creazione del “nemico” e poi la sua riduzione a non-persona con l’attribuzione di un numero o di un simbolo – un marchio a fuoco, un tatuaggio o una stella gialla, per esempio – sono processi storicamente accaduti, che possono riemergere ancora, portando magari a qualcosa di non così diverso da quanto ipotizzo nel romanzo.

La tua esperienza quindicennale di volontariato con Emergency e la tua partecipazione alla felice stagione del Sessantotto hanno avuto peso nella scelta di raccontare una storia di immigrati clandestini?
Direi senz’altro di sì. Non saprei dire se la stagione del Sessantotto possa qualificarsi come “felice” in assoluto. Per me individualmente di certo lo è stata ed è stato anche il momento in cui, per la prima volta, mi sono interrogato sull’esistenza (e l’ingiustizia) delle disuguaglianze. Una barra che ho cercato di tenere dritta per tutta la mia vita lavorativa di insegnante e che mi ha fatto quasi naturalmente pervenire ad un volontariato che aveva come focus la cura e l’aiuto agli ultimi.

Trenta per te non è la tua prima esperienza letteraria. Vuoi parlarci dei tuoi libri precedenti?
Oltre a qualche decina di racconti pubblicati in antologie, sia su cartaceo che online, ho scritto e pubblicato altri due libri. Prima una raccolta di nove racconti (poi undici nella seconda edizione, solo in e-book) su e contro la guerra, i cui diritti ho destinato a Emergency: Il seme del nemico, con Giulio Perrone Editore, prima in cartaceo e poi come e-book. Il migliore apprezzamento su questo libro – che mi ha toccato profondamente – l’ho avuto da un’amica, medico di Emergency, che dopo averli letti mi ha detto: “Sembra proprio che tu ci sia stato, la guerra è davvero così”.
Poi Letti a undici piazze, per Graphot Editore, scritto a quattro mani con Mario Bianco (autore anche di tutte le illustrazioni). Si intitola così perché è composto da ventidue racconti, metà miei e metà di Mario, ispirati a undici piazze di Torino. È stato divertente e coinvolgente cercare ispirazione – spesso dalla Storia – per scrivere sulla mia città, Torino, alla quale sono molto legato.

Sei anche un collaboratore di Sdiario, il blog letterario curato da Barbara Garlaschelli. Come vivi questa esperienza?
Sono approdato a Sdiario nell’attuale formato solo da pochi mesi. Però i miei primi contatti e le mie prime pubblicazioni, che hanno portato a quello che sono onorato di poter chiamare il mio rapporto di amicizia con Barbara Garlaschelli, che Sdiario l’ha fondato e lo coordina, datano dal lontano 2008. Nel frattempo, sono stato molto preso dalla mia attività di volontariato e ho fatto la scelta di relegare la scrittura nei ritagli del (poco) tempo rimanente. Sdiario è un’esperienza interessante e coinvolgente. Lo vedo e lo vivo come una vera e propria comunità di autrici e autori. Mi dispiace soltanto che, per via del Covid19, la possibilità di incontri e di scambi non solo virtuali sia (spero solo temporaneamente) azzerata.
Mi piace e mi ci ritrovo perché, pur con le ovvie differenze anagrafiche, di percorsi di vita, di stile di scrittura, mi pare costituisca il tentativo di dare vita a un collettivo che ha un suo substrato comune forte, dovuto alla volontà di dare il proprio piccolo ma non inutile contributo a una resilienza culturale di cui ritengo ci sia assoluta necessità.

La prima stesura la fai a mano, a macchina o direttamente al computer? E come mai?
Di regola, salvo l’abbozzo schematico di qualche idea con carta e matita, lavoro direttamente al computer. Essendo dotato – da sempre – di una calligrafia che non sfigurerebbe su una ricetta medica, l’utilizzo del computer è per me indispensabile. Permette di buttare giù idee e frasi grezze, parole-chiave anche apparentemente slegate, di spostare, tagliare e ricomporre. Una comodità irrinunciabile. 

In Trenta per te ti esprimi in maniera semplice, diretta. Quanto ritieni che siano importanti la leggibilità e la scorrevolezza, in un’opera letteraria?
Questo è un mio vecchio pallino, derivante probabilmente anche dal mestiere che ho fatto per più di trent’anni. Parlandone in generale rispetto alla comunicazione, non vedo perché dire pasticcio di mais quando si può dire polenta. In particolare e in riferimento al mio modo di scrivere, penso che leggibilità e scorrevolezza siano fondamentali. Posto che nello scrivere il mio scopo è dare al lettore un’emozione, farlo entrare nella narrazione, suscitargli il piacere di proseguire nella lettura e magari il rimpianto per il fatto che volga al termine, il mio imperativo è chiaro. Devo esprimermi in modo non solo coerente rispetto alla situazione e ai personaggi, ma allo stesso tempo fruibile dal lettore in maniera naturale, senza codici o linguaggi artificiosi o inutilmente faticosi. Il mio mandato non deve essere dimostrare quante parole difficili conosco, ma far appassionare alla lettura. Il che non significa, ovviamente, innalzare a obiettivo la povertà di linguaggio, ma trovare il giusto equilibrio tra le necessità della narrazione e quelle del fruitore.                                         

Secondo te l’arte, e nello specifico la letteratura, può e deve produrre coscienza nel lettore? Può avere ancora un potere rivoluzionario?
Forse rivoluzionario è una parola grossa, però a mio parere la letteratura può e deve sicuramente aiutare a pensare, che è necessariamente il primo passo per arrivare a produrre una coscienza critica. Con buona pace dell’annosa querelle sul valore della cosiddetta letteratura di genere, che è il campo in cui mi muovo abitualmente. Mi pare sia ormai abbastanza comunemente accettato che in un romanzo (o racconto) etichettati come thriller, noir o fantascienza, possano essere e di fatto spesso siano presenti stimoli e analisi di valenza critica rispetto allo stato di cose presente o passato. Che possono indurre il lettore a riflettere, a ipotizzare raffronti e cercare analogie. Cioè, a pensare.  

Erri De Luca ha scritto che lo “scrittore dev’essere più piccolo della materia che racconta”. Tu sei d’accordo?
Non so se lo deve essere. A me – quando va bene, quando mi riesce, quando ciò che scrivo mi pare funzioni – capita di esserlo, nel senso che la storia che racconto mi si allarga tra le mani, che i personaggi si muovono quasi da soli, che la storia, in qualche modo, si scrive da sé. E sono i momenti migliori.

Ogni buono scrittore è anche un assiduo lettore; quali sono state le letture che ti hanno influenzato maggiormente?
Sono un lettore onnivoro e disordinato, frequentatore abituale e recidivo di biblioteche e bookcrossing, più ancora che di librerie, complice l’ormai scarso spazio in casa. Ho cominciato come tutti da ragazzo, saccheggiando la non troppo fornita libreria di casa e, ahimè, all’epoca anche approfittando di obbrobri come I libri di Selezione del Reader’s Digest che circolavano in casa, sorta di Bignami di narrativa che potevano ridurre Guerra e pace alle dimensioni di un opuscolo.
Fin da subito sono stato affascinato dalla letteratura statunitense e dalla forma-racconto. Hemingway prima di tutti, poi ho scoperto la fantascienza. Fredrick Brown, Philip K. Dick, Isaac Asimov tra gli altri. Il gusto per le distopie probabilmente viene da lì, e non mi ha mai abbandonato. Altri autori di riferimento sono stati, negli anni, citando alla rinfusa: Jorge Amado e ovviamente Gabriel Garcia Marquez, Cormac McCarthy e Jack London, John Steinbeck ed Émile Zola. Tra gli italiani Cesare Pavese e Italo Calvino, più di altri. Ma sono dell’idea che ogni buon libro lasci una traccia, sovente inconscia, che magari dopo anni carsicamente riappare.
C’è infine, ma non per ultimo, un autore – non propriamente letterario in senso stretto – che ha sicuramente costituito una pietra miliare nella mia formazione e che mi ha influenzato fortemente: Fabrizio De André, per il valore umano, sociale e politico in senso lato, oltre che letterario e direi poetico, della sua opera.

Stai lavorando a un nuovo libro? Vuoi anticiparci qualcosa?
In questi tempi di clausura forzata, con tanto più tempo a disposizione, so che forse apparirà strano, ma ho avuto difficoltà a dedicarmi a scrivere. Soltanto in questa seconda ondata ho ripreso con più costanza e ora sto abbozzando un nuovo romanzo, che però è solo alle battute iniziali. Per scaramanzia preferisco non anticipare nulla. 

Perché scrivi? Perché la scrittura?
La risposta più banale è anche la più vera: perché mi piace. Mi gratifica vedere le parole accumularsi sullo schermo del computer, le storie che ho immaginato – creato – dipanarsi e arrivare a conclusione. Sono uno scrittore piuttosto lento e minuzioso, al limite del maniacale. Posso stare delle mezz’ore sulla ricerca di un aggettivo o a cercare di far quadrare una frase che non funziona. Cerco di fare attenzione anche alla resa sonora di ciò che scrivo, andando a caccia di cacofonie e ripetizioni ridondanti. Ma poi la soddisfazione di rileggermi – dopo un’opportuna fase di decantazione – e di verificare che il prodotto è come l’avevo pensato e lo volevo, è grande. Poi naturalmente c’è la soddisfazione non secondaria di essere apprezzati. E pubblicati, perché penso che nessun autore scriva soltanto per sé. Ma qui si apre un altro capitolo, che non è sempre a lieto fine, anche se in quest’ultimo caso, con Calibano, lo è stato.


Potete leggere in anteprima un brano tratto da Trenta per te qui:
Jab di Euro Carello – da Trenta per te 

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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