Heiko H. Caimi – Il baule

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1865

Salgo le scale di legno scricchiolanti, inoltrandomi con passi prudenti sui gradini che conducono alla soffitta. Sono anni che non ci vado: tutte le volte che mi sono recato in visita a mia madre è stato soltanto per una cena, per una commissione, per un saluto volante, per ricordi soprattutto che non ho mai voluto rispolverare –avevo ormai la mia vita, e non volevo ricordare ciò che mi ero lasciato alle spalle.

Raggiungo il pianerottolo in cima alle scale e provo a spingere la pesante porta di legno. Non cede: come avevo immaginato, c’è bisogno della chiave. La estraggo dalla tasca posteriore dei jeans, pensando che mia madre l’ha nascosta proprio bene; peccato che io sia più scaltro di lei!
La mappa gira agilmente nella serratura, e gli scontri non hanno difficoltà ad azionare il meccanismo: quattro mandate e via.

Oltre la porta mi attende una tenebra caligginosa, perforata qua e là da sottili raggi di luce che penetrano da spifferi e interstizi. Fa freddo, ma fortunatamente ho indossato il maglione di lana. E’ quello del liceo, che mi piaceva tanto e che portavo sempre quando andavo in montagna con gli amici. L’avevo abbandonato quanto avevo lasciato casa dei miei, quasi fosse un simbolo del passato che volevo dimenticare.

Brancolo nel buio fino ad avvertire sotto le dita la superficie umida delle pareti, la vernice scrostata che si polverizza al mio contatto, ormai completamente mangiata dal salnitro. Allungo un paio di passi incerti tenendomi sulla sinistra, fino a quando incontro un angolo. Annaspo alla ricerca dell’interruttore, e la luce mi esplode in faccia come il sole dopo il suono della sveglia.

Mi stropiccio gli occhi, e li tengo chiusi per qualche istante, cercando di riabituarmi gradatamente alla luce.

Il locale è corto e stretto, più di quanto ricordassi: probabilmente nella mia memoria sono rimaste impresse le dimensioni dell’infanzia. A sinistra giace una vecchia stufa in ferro battuto che era già inservibile quand’ero piccolo, e accanto una decina di vecchie cornici, che hanno contenuto i quadri di mio nonno – venduti da mia madre in un momento di estrema necessità.

A destra, contro la parete che prosegue il breve disimpegno, sono accatastate alcune assi di legno che non ricordo di aver mai visto, e contro la parete in fondo un mobiletto antico che è appartenuto a mia nonna – “lo so che è bello, ma non posso tenerlo in casa, mi ricorda troppo mia madre” – ed il baule.

Le ragnatele si accatastano in una congerie informe attorno e sopra al suo coperchio, e i due anelli ai lati si riescono a scorgere appena. La polvere deve essersi depositata fin da quando l’ho aperto l’ultima volta, il giorno precedente alla mia partenza. Diciassette? No, diciotto anni fa.

Resto ad osservare il baule, con tutto il suo bel ricamo di ragnatele. In quel baule giace tutto il peso della mia oppressione, tutto il retaggio di paure dell’infanzia, e aprirlo significherebbe scandagliare i miei timori più remoti. Gli spettri che vi sono contenuti mi saltellano attorno facendomi boccacce, e sono fin troppo chiari il loro monito e il loro invito.

Abbasso le palpebre sul mio sguardo fisso e mi rendo conto che sto sudando, copiosamente, come se avessi fatto una corsa. Il cuore mi martella all’impazzata nel petto, e non riesco a contenere un tremore alle dita. “Non lo amo, mi dispiace, ma non lo amo. – Che cosa ti impedisce di amarlo? – Non è come lo volevo io”. Ma io ti amavo lo stesso, mi bastava vedere il tuo volto, cogliere un sorriso tra le pieghe della tua bocca, lo scintillio di un riflesso nei tuoi occhi. Ero un piccolo re, ero felice, credevo nel tuo amore, e tu mentivi conoscendo il motivo per cui lo facevi.

Mi asciugo gli occhi con le mani, e poi le mani sui calzoni. Devo aprirlo, non ha senso stare qui in piedi ad aspettare: devo affrontare i miei ricordi, qualunque cose troverò – e devo fare in fretta, prevenire il ritorno di mia madre per l’ora di cena.
Stacco il grosso delle ragnatele con una delle assi che sono contro il muro e soffio via il resto alla bell’e meglio; poi resto a contemplare il coperchio istoriato dai tarli. Ho paura, e non riesco a smettere di tremare. Inserisco la chiave nella grossa toppa e le faccio fare uno scatto. Il baule è dissigillato, ora posso aprirlo.

Ora devo aprirlo.
Faccio scattare i lucchetti laterali e inserisco la dita nelle scanalature che vi sono celate: non mi resta che far forza e sollevare il coperchio.
Sollevare il coperchio.

Chiudo gli occhi, e spingo con le braccia, veloce, irruento. Mi risponde un tonfo mentre il legno cozza contro il cemento della parete retrostante.
Riapro gli occhi e la vedo – vedo l’apparizione, il fantasma, quello stesso fantasma che mi perseguitava tutte le notti quand’ero bambino, lo stesso fantasma che le mie angosce hanno generato dopo aver ascoltato le parole che non volevo accettare.

Mia madre si erge dinnanzi a me con sguardo severo, immacolata come la giustizia nel suo abito bianco di seta, ed è bellissima, ma mi ha atteso nel baule e ora ne sta uscendo con la consueta aria di rimprovero. “Io ti odio, piccolo mio, io ti odio e lo sai, ma continuiamo a far finta di niente”. So che poi mi darà un bacio, che il suo rossetto rimarrà stampato sulla mia fronte e che per tutto il giorno sarò felice. Per lungo tempo, per lungo tempo ancora non prenderò la carrozza.

Ma no, stavolta non è così, ecco che l’immagine di mia madre già si sta trasformando, mentre i suoi vestiti si sciolgono per lasciare spazio al vuoto oscuro di una presenza che non riesco a decifrare, arcigna, curva, crudele. Per un momento penso a mia nonna, che non ho conosciuto ma che mia madre detestava, poi muovo le mani nel vuoto per dissipare l’incantesimo. Ora mi guarda dal fondo lo sguardo del nonno: lo ricordo ancora, tanto affettuoso ma tanto incredulo, tanto incapace di capire. Afferro il suo cappello, sento che è lui che me lo porge, lo afferro e resto a guardarlo in silenzio. La stoffa è lisa, i bordi consumati, ma conserva ancora una certa miserevole dignità. Me lo calo sul capo, e scopro che affonda: ho la testa molto più piccola di mio nonno.

Un baluginio mi attrae dall’interno del baule. Penso che sia ancora quello sguardo acuto, ma mi accorgo che si tratta di uno specchio, un piccolo specchio tondo con una cornice intarsiata. Mi guardo: è vero quel che diceva papà, assomiglio a mio nonno.

Poso il cappello sul pavimento accanto al baule, in mezzo alla polvere, e ne cade un fazzoletto. So di chi è. Afferro Marta per un braccio: indossa ancora quel suo vestito pesca da bambolina, il suo sorriso ha ancora tredici anni e mi seduce con il suo candore. Mi sorride con uno sguardo senza malizia, e mi sento pervadere dalla gioia.

Siamo ancora sul prato, scalzi in mezzo alla rugiada, e ridiamo senza chiedercene il motivo, i vestiti inzaccherati e i piedi sporchi di terra – siamo felici senza sapere perché, siamo insieme, stiamo bene, ci stiamo divertendo e non dobbiamo renderne conto a nessuno. Poi il suo sorriso si spegne, il suo volto si turba, la sua voce si arrochisce e vedo che guarda alla mie spalle. Tocco la sua faccia preoccupato, e in quel momento vedo che un’ombra corta e tozza si avvicina, mi volgo e riconosco sua madre, e dal suo sguardo capisco che da quel giorno Marta e io non ci vedremo più.

L’innocenza finisce quando te la strappano via con la forza. E infatti ecco anche mia madre, furente, con il giudizio già stampato in volto e l’incapacità di rimproverarmi, l’assoluta mancanza di volontà di capirmi. Ma quel fazzoletto, rosa come l’alba di quel mattino, l’ho tenuto sempre con me. E’ l’unica cosa che mi ha regalato, e mi dispiace soltanto che lei non abbia qualcosa di mio.

Ed ecco la carrozza dei pionieri, e i soldatini dei vecchi cowboy. Avanza lentamente nella prateria, e i pellirosse potrebbero arrivare da un momento all’altro. Quello sul tetto, con il fucile spianato, sono io, la difenderò a costo della vita, è la diligenza che mi porterà a destinazione, ed io ho una missione da compiere. I fiori riempiono la vallata che stiamo attraversando, ma non ho tempo per guardarli, sono un uomo duro e devo sorvegliare l’orizzonte.

Il sole mi martella sulla testa, e la sete mi toglie l’aria come il cappio di un capestro, ma non ho il coraggio di chiedere acqua, basterebbe un momento di distrazione per ricevere una freccia nel petto. Io lo so, mi è già successo. E ora ho una missione da compiere, un posto dove fuggire. Passato torbido, da pistolero. Passato da dimenticare.

Papà invece se ne sta in panciolle, sempre intento a leggere: quello è il primo libro che mi ha regalato, Alice nel paese delle meraviglie, non mi era piaciuto ma lui insisteva che era un libro bellissimo, che l’avrei capito meglio quando fossi stato più grande. Non l’ho mai riletto. E lui adesso se ne sta lì, con la sdraio a cavallo del baule, con un cappello di paglia in testa e il libro in mano, e continua a ignorarmi, troppo assorto nella lettura, mentre il vento gli scompiglia i pochi peli sul petto nudo e il sole gli arrossa la pelle delicata.

Ripongo mio padre e scavo dentro al baule. Ecco Laviana, la mia prima amicizia femminile, la mia prima dichiarazione, il mio primo anello rifiutato. E’ troppo piccolo, non mi entra nemmeno nel mignolo. Com’era delicata, come sembrava fragile. Piccola, fine, sensibile. Ma così energica nel dire “no”. E adesso è lì che mi scruta ancora con il suo sguardo interrogativo, dopo tutto questo tempo non ha capito ancora e Tatiana la prende per mano per portarla via. Eccola lì Tatiana, sempre gentile con me, sempre così presente.

Adesso che ha accompagnato Laviana sta tornando, e porta con sé Brown, il mio orsetto di peluche. Me lo ricordo ancora quel Natale: io lo intuivo che non c’era Gesù Bambino, e stavo nascosto dietro la porta a spiare. “Ecco, dovremmo aver finito! – Veramente, signora, ci sarebbe anche questo. – E che cos’è? – Un regalo per suo figlio, signora. Un mio pensiero. – Tu quel bambino lo stai viziando, Tatiana. – Forse è vero, ma gli voglio bene. E’ un bambino delizioso”. E io piango, e ritorno a letto con il magone nel cuore: li ho scoperti, ora conosco il loro segreto, e non potranno mai più fare Gesù Bambino.

Poi Tatiana se ne va, prende una carrozza anche lei, ma non va nella stessa direzione. “Adesso sei cresciuto, su, da bravo, e nel pomeriggio hai tante cose da fare, e poi papà è a casa spesso. Vedrai, ti ci abituerai presto”.
“Ma io volevo Tatiana!”

I suoi seni sono morbidi mentre l’abbraccio, molto più materni di quelli di mia madre, e le sue lacrime mi bagnano la testa mentre anch’io piango. Poi la mano di mamma sulla spalla, che mi porta via, che ci separa.

Mi sorprendono gli occhi dolci e bonari della professoressa Maffei, mi perdona con lo sguardo anche se non ho fatto i compiti neppure stavolta, sorride e dice che mi promuoverà. Si alza sui suoi tacchi robusti, facendo roteare la gonna marrone, e mentre si allontana le cade da una manica un petalo di crisantemo.

Odo il vento ululare nel cimitero, mi mette a disagio, e il crisantemo secco che conservo in una custodia per gioielli è l’unico ornamento rimasto sulla tomba di mio padre. Mi inginocchio e non riesco a pregare, non trovo le parole, forse le ho dimenticate, e mi vergogno davanti a Dio di non ricordarle più. La mano di mia madre ancora una volta mi porta via.

In fondo al baule c’è anche Sergio, con le sue biglie che barattava continuamente, “tanto mio papà le fa, le biglie”, e Giovanni gli fa compagnia con il suo bigliettino: “Buon compleanno da un amico che non dimenticherò mai”. I due fratelli mi fanno ancora ciao con la manina dal vetro posteriore dell’auto, si trasferiscono ancora una volta, e se li incontrerò so che non li riconoscerò più.

L’orso bianco sogghigna con la sua bocca spalancata, con le sue fauci rosse pronte a sbranarmi, lo vedo ancora mentre mi insegue nel sonno, io che corro attorno al letto dei miei genitori gridando “aiuto” e loro che continuano a leggere imperterriti senza degnarmi di uno sguardo. Ad ogni passo l’orso sembra raggiungermi, sento le sue fauci chiudersi a vuoto dentro di me, sento il mio fiato farsi sempre più corto, la fatica aumentare, e l’animale che è sempre più vicino mentre fa schioccare la lingua.

Il risveglio non è mai piacevole, e non è piacevole neanche svegliarsi a diciott’anni e scoprire “Tu non sei mio figlio”. Le hai voluto bene sempre, l’hai sempre considerata più di papà e scopri che ha mentito sempre. “Mamma, cosa stai dicendo?”. “Ti ho voluto io, ho voluto tuo padre… non potevo…”. Il mondo è bello, il cielo è azzurro, l’aria limpida e mite. La valigia è senza chiave, e preparata per un viaggio che farà sembrare inutile e assurdo ogni ritorno.

Ma il ritorno è un tragitto alla Mecca che tutti una volta nella vita compiamo. Chiudo il baule e resto a pensare. Il mio sguardo vaga sul coperchio intarsiato dai tarli in percorsi che paiono simulare cocchi e bacilli, i miei pensieri ripercorrono tutti quegli avvenimenti compiuti e si sciolgono in un brivido di disagio profondo – rumore di passi, su per le scale.
«Caro, sei lì?».
«Si, mamma».

Mi alzo, ritorno nell’ingresso, spengo la luce, esco sul pianerottolo, accosto la porta.
«Che cosa hai fatto?». La sua autorità è flebile, lontana.
«Ho guardato nel baule».
«Dove hai trovato le chiavi?». E’ allarmata.
«Lo sai, dove le ho trovate». Incomincio a scendere i gradini.
Lei mi fronteggia: «Perché?».
«Per lo stesso motivo per cui sono ritornato».

Sono all’ultimo gradino, mi abbraccia, la bacio su una guancia.
«Mamma, tu eri gelosa di Tatiana?».
Mi guarda, severa. Abbassa lo sguardo, si volta. Se anche fosse, non lo ammetterebbe mai. Non si può essere gelosi della nuora. Non sarebbe decente.
La luce si assopisce, il cielo si chiude nel crepuscolo e i ricordi sembrano cose lontane. Nell’ombra della sera, scaldato da un maglione che avevo dimenticato di possedere, ripenso a quindici anni di matrimonio, e so che non tornerei indietro mai più.

(Pubblicato per la prima volta sull’antologia “Scrivimi una storia”, maggio 2013)

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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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