Mattia Di Carlo – Piccioni – 3: Tre tigri contro tre tigri

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“Pronto?”.
“Ciao, scemo, sono Gabri, è il mio numero tedesco. Come stai?”.
“Grande, Gabri. Benone, e tu? Sei in città?”.
“Sì, per qualche giorno. Senti, ho litigato con mia madre e avrei bisogno di un posto, solo per stanotte, che faremo le ore piccole!”.
“Certo, fratello, ci mancherebbe. Ma perché ore piccole? Hai dritte di qualche festa?”.
“È il trentun agosto, bello mio: ormai fanno tutti la festa di fine estate. Padova è piena di eventi. Ci sbronziamo!”.
“Ok!”.
“Alle sette sono da te, prima tappa ai Giardini dell’Arena… anzi, io arrivo alle sette meno qualcosa in stazione, ci vediamo là”.
“Ma come, i Giardini? È fighetto, quel posto!”.
“Appunto! Dai dai dai… Stasera comando io!”.
“Va bene, a dopo”.
“Ciao”.
“Ciao”.
Gabri era affascinante. Una bellezza scultorea, aulica, quasi antica lo accompagnava nei suoi passi come la colonia sul collo di un bell’uomo in abito elegante che cammini per le vie del centro in una domenica d’autunno. Aveva un profilo da moneta e il mento forte. Padovano doc, per un periodo aveva fatto lo scultore a Carrara. Da poco meno di un anno la Germania l’aveva cambiato nell’abbigliamento, e la sua cura dei capelli si era trasformata in ossessione: pantaloni corti di velluto, color marroncino chiaro, camicia coreana bianca piena di disegni minuscoli di foglie e alberi, cintura in cuoio rivestita di pelle ruvida che scendeva con fronzoli sul fianco, quattro o cinque bracciali e due collane, tutti in pelle con incastonate pietre di ogni dimensione e colore, tatuaggi con figure mitologiche e medievali su entrambe le braccia ed entrambe le gambe, capelli dorati, pieni di boccoli, così lucenti che a chiunque lo incontrasse veniva voglia di toccarli, come in una di quelle pubblicità di shampoo che si vedono in tv.
Quella sera uscì con noi anche il mio coinquilino Francesco, con la sua inseparabile barba folta e nera, perfettamente rasata ai lati e sugli zigomi. Ci trovammo nel parcheggio a fianco alla stazione, ci guardammo e scoppiammo tutti e tre a ridere:
Francesco e io eravamo vestiti uguali. Sembrava ci avesse agghindati la stessa madre, come due fratellini che di domenica vanno a messa: jeans corti, chiari e attillati, maglietta nera senza nessuna scritta, scarpe grigie da battaglia, con una “S” blu di lato, che entrambi avevamo comprato a quindici euro al mercato di Prato della Valle, calzino nero di spugna alzato sopra la caviglia (io portavo sempre i calzini così, d’estate, per non farmi pungere dalle zanzare). Chiesi a Francesco il perché dei calzini alzati e gli domandai di abbassarli. Mi rispose: “Col cazzo, abbassateli tu, che al parco le zanzare me se magnano”. Ci giocammo le caviglie a carta forbice sasso, secca. Persi e mi abbassai i calzini.
Partimmo in direzione Giardini, ma ben presto capimmo che le nostre risorse economiche dovevano per forza di cose dirottarci verso il Pam-local più vicino.
Avevamo con noi uno zaino e, dopo qualche giro di birre, comprammo una bottiglia di grappa e una di J&B. Girammo tutti i festival della città: Arcella bella, Parco della Musica, Giardini, Golena…
Tornammo a casa verso le tre, completamente ubriachi, e ci addormentammo l’uno accanto all’altro sul grosso divano blu a tre piazze.
Mi svegliai a causa di due colpi decisi sul fianco. Doveva esser metà mattina, perché il sole si rifletteva caldo sul pavimento. Mi girai assonnato, imbronciato e con un forte mal di testa e vidi gli occhi spalancati di Francesco, terrorizzati, che mi facevano segno di guardare verso la cucina mentre il dito portato alla bocca m’intimava di tacere.
Guardare verso la cucina mi fu difficile proprio per via del riflesso del sole sul pavimento color marmo. Misi a fuoco con difficoltà.
“Shhh” mi fece Francesco appena vidi ciò che i suoi occhi mi stavano indicando.
“Cazzo, e ora che si fa?” replicai a bassa voce.
“Ora ci alziamo e, senza fare troppo chiasso, pian piano li facciamo uscire”.
In cucina c’erano tre piccioni, due a terra e uno sul tavolo. La portafinestra non era spalancata, anzi mi sembrava non fosse neanche aperta.
“Come cazzo sono entrati?”.
“La porta è socchiusa. Ma se ora li spaventiamo, quelli fanno un casino e svolazzano per tutto l’appartamento”.
“Ok, che si fa?”.
“Dobbiamo farli uscire accompagnandoli piano piano”.
Ci alzammo dal divano e io gattonai a destra della porta d’ingresso del salotto verso lo sgabuzzino. Presi la scopa e il mocio e tornai da Francesco. Il mal di testa era sparito, incalzato da una strana paura. La paura di chi è stato invaso senza preavviso. La paura di chi vedeva in quel gesto una replica, un attacco nemico dopo la straordinaria vittoria di qualche giorno prima.
La faccenda si fece improvvisamente eccitante.
Dovevamo provare ad accompagnarli fuori senza spaventarli. La portafinestra era aperta di appena dieci centimetri, forse quindici: la situazione era complicata.
Provammo a marciare lentamente l’uno accanto all’altro verso la cucina, io con la scopa e Francesco con il mocio. La nostra tattica sembrava funzionare: uno dei tre si mosse velocemente verso la porta finestra. Gli altri due parevano più agitati, ma entrambi mossero dei passi nella stessa direzione del primo.
“Cosa cazzo state facendo?”. La voce di Gabri risuonò forte nell’appartamento. Ci girammo bruscamente verso di lui per farlo stare zitto, ma non ce ne fu il tempo. I piccioni, impauriti dal rumore improvviso e dai movimenti bruschi dei nostri manici, andarono in panico e iniziarono a svolazzare per la cucina. Gabri si spaventò e cacciò fuori dalla gola un urlo isterico che spaventò Francesco e lo fece indietreggiare. Io, per proteggermi la testa da quel caotico svolazzare, persi la scopa e inciampai sullo stipite della porta della cucina. Francesco agitava il mocio per aria. Gabri continuava a urlare. La situazione era completamente fuori controllo. Più noi ci agitavamo e più quei bastardi scorrazzavano in giro. Uno, per la paura, cacò proprio vicino al mio piede, un altro uscì dalla stretta apertura della porta finestra del balcone. Ne rimanevano due. Gabri, urlando come un pazzo, corse a occhi chiusi verso il balcone e aprì la portafinestra. Poi si accovacciò di lato, si mise le braccia sulla testa e iniziò a gridare: “Fateli uscire, cristo, fateli uscire!”. Francesco e io ci ricompattammo. Con le armi sguainate verso il soffitto, avanzammo in cucina. Un altro uscì. L’ultimo si posò sul lavello, proprio sopra la testa di Gabri.
“L’ultimo, Gabri, l’ultimo. Stai fermo!” gridai.
Gli tirai un colpo deciso, dritto, potente con la scopa. Lo mancai di qualche centimetro. Ero convinto di averlo preso. L’avevo proprio mirato. Anche Francesco si fermò, mentre Gabri restò accovacciato, con la testa tra le gambe. Ci fu un attimo di sospensione. Mi sentii come June in Pulp fiction quando assiste al miracolo delle pallottole deviate. Qualcuno doveva aver deviato il colpo della mia scopa. Era senza dubbio un miracolo. O forse una semplice coincidenza, come ribatteva nel film Vincent.
Il piccione se ne fregò altamente delle mie congetture cinematografiche e approfittò di quei preziosi secondi per andarsene: ci guardò, girò la testa di lato per analizzare meglio la situazione, poi fece un saltello, finì sul pavimento, andò lentamente verso la portafinestra e decollò con una calma quasi solenne.

(continua)


Le puntate precedenti:
1: Una breve giornata di merda
2: Due piccioni con una fava

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