Luciano Taffurelli – Rapsodia

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La villa occupava l’angolo all’incrocio tra la via principale e la strada a senso unico che portava alle colline tagliando in due la parte vecchia del quartiere. La costruzione era segregata dal resto del mondo da un muro con inferriate che correva lungo il perimetro. L’unico varco era un imponente cancello d’ingresso in ferro battuto. Alcuni grossi pini nascondevano la casa padronale. Un portico e una fontana circolare le conferivano un aspetto d’altri tempi. A detta di qualche ben informato abitante, era stata la dimora bresciana dello scrittore e patriota Giuseppe Cesare Abba. La casa confinava con una villa che un tempo apparteneva alla stessa proprietà. Il giardino era curato e l’erba veniva tagliata spesso: non a caso era meta ambita dai gatti del vicinato che di notte, con i loro miagolii, tormentavano il sonno dei residenti.
Ogni anno, a luglio, il portico ospitava un concerto di musica classica del corpo bandistico locale, e in più di un’occasione mi ero trovato a sbirciare i musicisti durante la loro esibizione. Non era la musica in sé che mi attraeva, ma la ragazza che suonava il violoncello.
Da quando l’avevo notata, due anni prima, quel concerto era diventato per me un appuntamento imperdibile.
Quella sera ero arrivato alla villa con largo anticipo e, appoggiato al muretto, guardavo i preparativi per l’esibizione serale mentre un vento leggero muoveva i cespugli di sempreverdi che impreziosivano il giardino.
Improvvisamente, un gradevole aroma fruttato solleticò i miei sensi. Mi voltai e vidi la violoncellista passarmi accanto in compagnia di una collega. Mi sfiorò appena con una mano: sentii un brivido correre lungo il corpo mentre il suo profumo si faceva largo tra le mie narici. Prima di varcare il massiccio cancello d’ingresso, la donna mi regalò un sorriso luminoso.
Portava i capelli corti e neri come la notte, con un ciuffo biondo che le ricadeva sulla fronte. Gli occhi erano di un blu profondo, mentre il viso era spigoloso, quasi felino. Indossava un lungo vestito nero da sera, con ampi spacchi laterali. Emanava un fascino esotico: sembrava la regina di un lontano e irraggiungibile regno. Quella donna mi aveva stregato.
Assistei al concerto spiandolo come mia consuetudine attraverso le inferriate. Un anziano che lo seguiva al mio fianco conosceva tutti i pezzi e, quando arrivò l’assolo di violoncello, affermò con certezza che si trattava di Bach. Durante quell’esecuzione ebbi l’impressione che la violoncellista si voltasse verso di me e mi sorridesse. Abbracciava lo strumento con passione, come fosse un amante, mentre gli spacchi del vestito, forse troppo audace per la serata, lasciavano intravedere le lunghe e flessuose gambe. Quanto avrei voluto essere io quel violoncello. Illudersi talvolta può anche servire a trasformare i sogni in realtà.
Dopo il concerto la cercai con lo sguardo, e la vidi parlare e ridere con i compagni d’orchestra. Speravo di incrociare i suoi occhi. Ma quando entrò nella casa la persi definitivamente di vista.
Di fronte alla villa si trovava il pub che frequentavo. Mi ci rifugiai per il resto della serata.

Il tempo trascorse veloce, e senza che me ne accorgessi il locale stava già chiudendo. Ordinai un’ultima birra, una bottiglia, e uscii sul marciapiede. Finii di bere mentre la serranda calava sulla notte. Attraversai la strada per riprendere la bicicletta che avevo legato al lampione. La luna era alta nel cielo e la brezza rompeva la calura della notte frusciando tra i rami degli alberi.
Un improvviso miagolio alle mie spalle mi fece sobbalzare.
Mi voltai in tempo per scorgere un gatto siamese di colore bianco saltare sul muretto, infilarsi tra le inferriate e sparire nel giardino. Lo seguii con lo sguardo.
L’animale raggiunse la base di un pino, si strusciò contro la corteccia e si volse nella mia direzione. Ci studiammo per alcuni secondi. Poi, con velocità sorprendente, il felino sparì sotto il portico.
Presi la bicicletta intenzionato a tornare a casa quando una melodia inaspettata giunse alle mie orecchie. La riconobbi immediatamente: era l’assolo di violoncello.
Con lo sguardo frugai le finestre intorno, ma la musica pareva nascere dal nulla. Scrutai la piazza: non vidi anima viva sulle panchine. Girai l’angolo della villa: tutto era immobile lungo la strada. Attraversai la piazza allungando gli occhi fino alla vecchia pieve: nemmeno un’ombra. Le note di Bach continuavano a riempire l’aria.
Tornai alla bicicletta giusto in tempo per scorgere il siamese che usciva dal giardino. Si attardò sul muretto, muovendo nervosamente la coda. Poi, con un leggero miagolio, balzò sul marciapiede prendendo la direzione del vecchio borgo. Dopo qualche metro si voltò. Sembrava m’invitasse a seguirlo. Non si mosse finché non mi decisi, mentre la musica si spegneva d’improvviso.
Trotterellò strusciandosi contro le antiche mura, poi sparì in un vicolo buio alla mia sinistra. Affrettai il passo arrivando all’inizio della strada. Non c’era alcuna illuminazione artificiale, solo la luce della luna. Era un vicolo cieco. Riuscii a scorgere il gatto che s’infilava in un cancello sparendo all’interno. Mi avvicinai cauto alla struttura di metallo scarsamente illuminata, cercando di abituare gli occhi all’oscurità. Udii di nuovo la musica. Questa volta l’origine era il cortile della casa.
Appoggiai le mani sul cancello provando a spingere: si aprì senza fatica e mi trovai all’interno. Percorsi pochi passi, vidi una figura che mi dava la schiena, seduta su uno sgabello al centro del cortile. Le spalle, perfette e squadrate, sembravano scolpite nel marmo, e la loro pelle liscia scintillava alla luce della luna. Stava suonando al violoncello la melodia di Bach, accarezzando con l’interno delle cosce il corpo dello strumento. Percepì la mia presenza e si voltò. Era la ragazza dell’orchestra; ed era nuda. Intravidi il candore del suo seno. Mi sorrise maliziosa continuando a suonare. Le gambe mi tremavano mentre un brivido caldo attraversava il mio corpo.
La melodia struggente che scaturiva dallo strumento mi avvolse in un’estasi dei sensi. Feci alcuni passi verso di lei, mentre il suo intenso profumo fruttato riempiva l’aria tiepida della notte. La luna nel cielo sembrava una grossa sfera abbagliante.
Fissai la sua schiena bianca perfettamente diritta, mentre con il polso della mano destra reggeva delicatamente, ma con fermezza, l’archetto che scivolava sulle corde. Sembrava una danza leggera fra le note, un amplesso tra lei e lo strumento.
Quando ebbe finito infilò con cura il violoncello nella custodia, si alzò dallo sgabello e si voltò lentamente verso di me: sembrava Venere che usciva dal mare. Colmò rapida la distanza tra di noi con passi felpati. Osservai incredulo quel corpo nudo dalle proporzioni perfette, risalendo con gli occhi le curve delle gambe, i fianchi e il ventre piatto fino alla rotondità armoniosa dei seni. Ebbi l’impressione che il mio corpo si stesse dissolvendo in un mare di desiderio. Lei si sporse in avanti e mi sfiorò le labbra con un bacio leggero. Con il cuore che batteva all’impazzata l’attirai a me, baciandola con trasporto.
Le nostre bocche si unirono. Potevo sentire le sue labbra morbide e calde. Lei non si oppose al mio desiderio, che si stava trasformando in un impeto incontenibile. Le nostre lingue iniziarono a rincorrersi, prima gentilmente, poi sempre più insolenti.
Improvvisamente, si staccò appoggiando le mani sul mio petto e mi spinse via.
Ignorai il gesto cercando nuovamente la sua bocca. Si divincolò dal mio abbraccio e mi graffiò. Prima di avvertire il dolore sentii un leggero rivolo di sangue colarmi sulla guancia. E mentre la luce della luna si spegneva nel cielo e il profumo svaniva, la vidi allontanarsi nel buio come un miraggio che si stesse dissolvendo.
Intravidi un’ombra vagamente umana raccogliere la custodia in tutta fretta e sparire dietro una porta socchiusa. Non provai a seguirla. Rimasi impietrito per alcuni minuti, finché un miagolio mi svegliò dal torpore. Scorsi il gatto siamese uscire dalla porta e venirmi incontro. I suoi occhi blu sembravano sorridermi. Gli stessi occhi della violoncellista, lo stesso sguardo. Mi passò tra le gambe strusciandosi e lasciò il cortile. Lo seguii chiudendo il cancello alle mie spalle.
Mi toccai la guancia e osservai la mano sporca di sangue. “Chissà se ritroverò ancora la bicicletta”, pensai.

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Luciano Taffurelli (1960) è Direttore artistico presso la “Festa di Radio Onda d'Urto” di Brescia dal 2005 e conduttore musicale presso la stessa emittente con le trasmissioni “Baraonda d'urto” e “Cianotik Time". Appassionato da tempo di letteratura gialla, noir e thriller, da qualche anno coltiva la passione della scrittura. Ha pubblicato "Anche le ombre hanno il loro inferno privato" (Calibano Editore), esordio elogiato da Massimo Carlotto.

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