Un film di fantascienza dove il fantastico è soltanto una scusa per parlare di politica, società dei consumi, pubblicità, televisione invasiva e aggressività umana. Elio Petri non è regista di genere: anche quando gira un piccolo horror come Un tranquillo posto di campagna lo fa con la consapevolezza di usare il tema per comunicare idee antisistema con le armi della commedia grottesca.
L’ambientazione è incentrata su una Roma del prossimo futuro (anche se le prime sequenze sono girate per le strade di New York), soprattutto Eur e zone marine di Ostia, in una società che ha abolito le guerre, ma che – per sfogare l’aggressività – si è inventata un gioco assurdo e mortale. Il Ministero della Grande Caccia seleziona i partecipanti a una lotta senza esclusione di colpi in cui il ruolo di cacciatore si alterna a quello di cacciato, e lo scopo è quello di resistere a dieci cacce consecutive, per ottenere onori e ricchezza.
Protagonisti una bellissima Ursula Andress (recente bond girl) nei panni della cacciatrice americana Caroline – nata da una fecondazione artificiale e vincitrice di ben nove cacce – e un ossigenato quanto indolente Marcello Mastroianni, che sfoggia anche nella finzione il nome di battesimo. Non solo, viene apostrofato da moglie e amante con lo stesso accento con cui lo chiama Anita Ekberg in La dolce vita, inoltre è angustiato da problemi economici e sentimentali, sia con la moglie (dalla quale sta divorziando) che con l’amante Elsa Martinelli che vorrebbe sposarlo, oltre a dover nascondere gli anziani genitori improduttivi dalle grinfie governative. Tra gli altri attori citiamo il grande Salvo Randone in una breve parete da allenatore di cacciatori, in versione quasi cyberpunk.
Alcuni temi (la vecchiaia improduttiva) saranno ripresi da Ugo Tognazzi in I viaggiatori della sera (1979), un film fantascientifico tratto da un romanzo di Umberto Simonetta, girato per fare critica sociale oltre che cinema di genere. La decima vittima, invece, deriva dal racconto breve The Sevent Victim di Robert Sheckley, ambientato in una scenografia avveniristica che rimanda alla pop art e alla pittura di De Chirico.
Sceneggiatura che funziona scritta nientemeno che da Guerra, Flaiano, Salvioni e Petri, rivista da Ernesto Gastaldi (non accreditato), uomo di fiducia di Ponti e grande esperto di fantascienza. Alcuni hanno scritto che la sola cosa datata del film sarebbe la colonna sonora: mi permetto di dissentire, perché la musica jazz di Piero Piccioni è molto incisiva, così come è perfetta la canzone di Mina (Spiral Waltz) che scorre sui titoli di coda. Scenografie suggestive curate da Piero Poletto, a base di installazioni viventi, come i due jazzisti che suonano immersi nella bianca luce dell’Eur, quartiere romano in espansione fotografato benissimo da Gianni Di Venanzo.
Elio Petri si produce in un alternarsi di primi e primissimi piani dei due protagonisti, con alcuni evocativi (ma non compiaciuti) piani sequenza. Un film distopico – come si usa dire oggi – avanti per i tempi, che risulta molto attuale e che non è facile vedere, soprattutto su grande schermo, come è capitato a me grazie al Cineclub Molino Cult di Grosseto. Ma l’elemento base del film è la commedia grottesca – che in Italia ha avuto continuatori solo con Marco Ferreri e, in qualche pellicola, con Pupi Avati –, la critica alla società contemporanea, alla pubblicità invasiva, a un mondo alla deriva nel consumismo più becero, dove tutto è mercato, persino la religione. Da notare, a tal proposito, la riunione dei tramontisti, convinti da un Marcello (che si finge santone) a piangere di fronte al tramonto sulla spiaggia di Ostia in cambio di denaro. Inoltre il gioco mortale viene ripreso dalle televisioni in diretta mondiale: ogni caccia è buona per pubblicizzare un prodotto, dopo l’uccisione della vittima predestinata. Lieto fine imposto dalla produzione, che Elio Petri non vorrebbe, ma al suo quarto lungometraggio non riesce a opporsi, quindi accetta quella che lui stesso definisce una pagliacciata finale.
La decima vittima resta una vibrante satira del capitalismo dilagante e della società contemporanea, un film caratterizzato da un tono scanzonato, sempre in bilico tra thriller e dramma, anche se la commedia umana conserva un posto in primo piano. Moderno come pochi, invecchiato benissimo, resiste senza problemi al passare del tempo. Da rivedere senza pregiudizi.