L’asso nella manica

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Chuck Tatum, magistralmente interpretato da Kirk Douglas, è un cinico giornalista, ormai emarginato, alla ricerca di una storia che lo rilanci. Quando un uomo rimane intrappolato in una miniera in un piccolo villaggio del New Mexico, Tatum intuisce l’opportunità perfetta per creare una storia sensazionalistica che lo renda famoso. La sua capacità di manipolazione dei media, la sua inesauribile ricerca del sensazionale e la sua totale mancanza di scrupoli lo porteranno sull’orlo del successo, facendoci desiderare che si realizzi il proverbio “chi troppo vuole, nulla stringe”. Kirk Douglas è impeccabile nel rendere un personaggio complesso, sbruffone e moralmente ambiguo.

Billy Wilder fa un lavoro straordinario nel raffigurare la disperazione umana, la cupidigia dei media e l’opportunismo in un film ancora attualissimo nel mettere in evidenza come la tragedia di un uomo possa diventare uno spettacolo, un evento mediatico che il pubblico si appassiona e diverte a seguire, ignaro e allo stesso tempo complice nello sfruttamento dell’altrui sofferenza. Il che ricorda piuttosto da vicino la vicenda di Alfredino, che colpì l’Italia trent’anni dopo, incollando una nazione intera agli schermi televisivi per giorni, in una diretta ininterrotta[1].

La regia è di altissimo livello, e si sposa perfettamente con la fotografia (del veterano Charles Lang) nel congegnare scene che catturano l’atmosfera claustrofobica della miniera e la frenesia dei media. Nonostante sia stato girato più di settant’anni fa, L’asso nella manica continua a essere attuale nel modo in cui solleva questioni sulla moralità, sull’etica giornalistica e sull’ossessione della società per le notizie sensazionalistiche.

Wilder confeziona un lungometraggio straordinario che ci impone di riflettere sulla natura umana anche nelle sue sfaccettature più sgradevoli, costringendoci a fare i conti con noi stessi e con il nostro voyeurismo (anche noi ci appassioniamo alla vicenda dell’uomo intrappolato e speriamo che si salvi). Una narrazione acuta e spietata, che mette a nudo la ricerca di clamore e di audience dei media (non a caso il titolo originale è The Big Carnival, “Il grande carnevale”). Un film che merita di essere visto e discusso ancora oggi, in grado di porre domande scomode.


[1] Alfredino Rampi, il bambino di sei anni che morì in un pozzo a Vermicino nel 1981.
Il 10 giugno 1981, Alfredino scomparve durante una passeggiata nei campi con il padre e alcuni amici. Dopo alcune ore di ricerche, si scoprì che era caduto in un pozzo artesiano profondo ottanta metri, coperto da una lamiera, in un terreno in costruzione vicino alla sua casa di vacanza. Iniziarono i tentativi di salvataggio, che si rivelarono molto complicati a causa della galleria del pozzo, stretta e irregolare. Il primo tentativo, con una tavoletta di legno calata nel pozzo, fallì e ostruì il passaggio. Il secondo, con due speleologi del Soccorso Alpino che si calarono a turno nel pozzo, non riuscì a raggiungere Alfredino, bloccato a trentasei metri di profondità. Si decise allora di scavare dei tunnel laterali per accedere al pozzo da un’altra angolazione. Il primo, scavato da una squadra di minatori, si fermò a diciotto metri dal bambino a causa di una roccia troppo dura. Il secondo, scavato da una squadra di pompieri, arrivò a dieci metri dal bambino, ma non riuscì a proseguire a causa di una frana. Il 13 giugno, dopo quasi tre giorni di angoscia e speranza, si ebbe la tragica conferma della morte di Alfredino, che non diede più segni di vita. La sua salma fu recuperata il giorno dopo, con una delicata operazione di sollevamento. La vicenda ebbe un enorme impatto mediatico e sociale, in quanto fu seguita in diretta televisiva dalla Rai per diciotto ore, coinvolgendo milioni di spettatori in una cronaca dai toni morbosi e invasivi e condizionando il giornalismo e le armi di distrazione di massa del decennio successivo. La vicenda mise anche in evidenza la mancanza di organizzazione e coordinamento dei soccorsi, portando così alla nascita del Dipartimento della protezione civile. 
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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022, insieme a Viviana E. Gabrini). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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