L’album che segna il termine della carriera dei Toto (ma ai tempi della pubblicazione Steve Lukather non aveva ancora deciso di sciogliere il gruppo, che venne poi rifondato pochi anni dopo) colpisce per la straordinaria freschezza e per l’originalità compositiva del nuovo ensemble (che vede l’innesto di Greg Phillinganes alle tastiere e il ritorno di Steve Porcaro). Molte composizioni suonano progressive, non solo negli arrangiamenti, e il gruppo sembra finalmente sganciato da logiche commerciali, concedendosi una libertà di cui non godeva da almeno un paio di decenni: le canzoni intitolate a nomi femminili e l’eccesso di lenti vengono sostituiti da un suono solido, da una fertilità compositiva straordinaria e da un’alternanza di più cantanti (oltre ai soliti Bobby Kimball e Steve Lukather, il già citato Greg Phillinganes, il ritorno di David Paich e l’ospitata di Joseph Williams). Un cambio di direzione che porta tutti i membri del gruppo a comporre insieme questa nuova fatica, che suona bene dall’inizio alla fine, è equilibrata nelle sue parti e ha bisogno di un ripetuto ascolto per coglierne tutte le sfumature. La band crea intrecci musicali più sofisticati e suggestivi del solito, con melodie efficaci e ben distillate e cori magistralmente ideati, evitando accuratamente di restare incasellati in una dubbia etichetta di genere ed esprimendo con scioltezza e senza compromessi la propria personalità musicale. Persino i testi sono meno prevedibili del solito, dimostrando una scrittura fluida tra testo e melodia.
“Bottom of Your Soul”, il singolo, è come di consueto un lento ma, per una volta, non un brano banale, con sonorità vagamente world sottolineate dalle percussioni di Lenny Castro e Simon Phillips e dalla presenza di Shankar (collaboratore di vecchia data di Peter Gabriel). L’unico altro lento, quel “Simple Life” che di primo acchito fa temere la classica ripetitività delle composizioni di Lukather, finisce prima che ci si possa annoiare. “Let it go” unisce le sonorità funky a quelle del rock progressivo, e si avvale di uno splendido assolo di Lukather; “Spiritual man”, uno dei più sofisticati e coinvolgenti gospel che mi sia capitato di ascoltare, si avvale del sax tenore di Tom Scott, e “The Reeferman” una piccola gemma jazz che avrebbe meritato di essere sviluppato su una maggiore estensione, chiude l’album in bellezza.
Ma i veri pezzi forti dell’album sono le lunghe canzoni progressive, caratterizzate da continue variazioni di tempo, ben amministrate dal geniale batterista Simon Phillips, da cori ben congegnati e da assoli di chitarra memorabili, a partire dalla title-track, passando per “Dying on My Feet” e “King of the World” e trovando il suo apice in “Hooked”, brano caratterizzato dall’inconfondibile flauto di Ian Anderson (leader dei Jethro Tull), ospite più che mai adatto a questo genere di opera. “Taint Your World” ricorda le sonorità dure tipiche dell’album “Mindfields” (1999) e “No End in Sight” sposa l’easy-listening degli album orientati all’AOR (AOR-oriented) ad un sound più maturo e ad un arrangiamento estremamente sofisticato.
Probabilmente il passaggio da una major come la Columbia/Sony all’etichetta indipendente Frontiers ha molto giovato ai componenti del gruppo losangelino, permettendo loro quella felicità espressiva che solo la mancanza di imposizioni dall’alto può consentire. Ma la grandezza del gruppo è sicuramente dovuta anche allo smisurato talento di ognuno dei suoi componenti, tutti session-men di provata esperienza. “Falling In Between” non è soltanto un album tecnicamente ineccepibile e una pietra miliare nella discografia dei Toto, ma anche uno dei migliori album rock del nuovo millennio.