Waysiders è un percorso. È contemporaneamente un’esperienza emotiva estremamente forte, una forma di conoscenza dell’Irlanda di fine ottocento, un’occasione per accedere a tematiche universali.
Il suo grande fascino sta forse nell’incarnare l’essenza di un paese che vive fra la miseria di una vita contadina sfibrante, un regime di proprietà della terra che deteriora i rapporti sociali e personali, la magia di tradizioni celtiche intrecciate a una religiosità che trasfigura il reale, al sogno di un’esistenza migliore.
Ci si sente parte di un quotidiano ingrato entro cui sorprendentemente guizzano sguardi di un’intelligenza accattivante, nascono sentimenti intensi e distruttivi, fa capolino una sottile ironia.
I temi trattati sono moltissimi: si connotano per un estremo realismo a cui si accompagna una forte sacralità, e in virtù della definizione con cui sono raccontati toccano corde che ci parlano di noi oggi: emigrazione, fiaba, morte, lavoro, musica, potere, follia, amore…
Si incontrano personaggi individuali maschili e femminili di età, cultura e passioni diverse, a volte contrapposti teatralmente a una massa diseredata, intimidita, a tratti violenta.
Il ritmo lento della narrazione spesso coincide con lo svolgersi di viaggi solitari su carri trainati da asini, percorrendo faticosamente sentieri fiancheggiati da muri coperti di edera, ruscelli, gole, strade in collina fra alberi di pioppo, campi di ginestroni, in paesaggi notturni di un gelo tagliente.
Ci si ritrova entro un mondo cogliendone nitide percezioni sensoriali: risvegli prima dell’alba, sapore di colazioni speciali, paura di essere aggrediti e derubati, oscurità di paesaggi che scorrono in attesa dei primi bagliori, fame repressa, sete, fatica dello spaccare la pietra, muscoli tesi per superare pendii con il carro carico di conci di calcare grigio.
Vediamo i colori, le luci, proviamo freddo, sentiamo gli odori del fumo di torba, assaporiamo il whisky artigianale, ci lasciamo rapire dalla musica del fideóg, dal canto folk del giovane venditore di torba, con la lunga gola palpitante come quella di un uccello, ci innamoriamo di giovani in preda a un’oscura depressione.
Un pastore e la sua bambina assistono con tormento alla sofferenza di una capra vittima di una violenza bruta. Impotenza, possibilità di porre fine a tale orrore, senso di responsabilità: in una notte di pioggia incessante siamo folgorati come il pastore dal mistero della vita e della maternità di cui sono simbolo i capezzoli della capra, della fine della vita, del libero arbitrio.
Partecipiamo al sogno di amori impossibili, alla frustrazione di ideali tarpati da un quotidiano di carestia e di fatica, sentiamo un legame carnale con la terra, siamo accecati da accanimenti maniacali nei confronti delle cose, dei mezzi di sussistenza, voliamo sulle ali della creatività e dell’arte.
Un viaggio in Irlanda diventa, come avviene con la migliore letteratura, un’intensa scoperta di sé; lascia una indecifrabile nostalgia.