La poesia ti porta via, ti porta sempre da un’altra parte, non puoi sapere dove – Intervista a Ida Travi

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2037

Con Tasàr Animale sotto la neve Ida Travi ci consegna una saga che giunge a conclusione, cinque raccolte poetiche edite da Moretti&Vitali, un’epica dei «Tolki». Ciò che sorprende è la forza della voce della Travi, una voce talmente centrata che è in grado di risuonare ovunque. Ogni luogo, ogni personaggio, sia esso animale o umano, ogni preghiera, ogni gesto trovano collocazione autentica in ciascun lettore, suoni che si trasferiscono dalla pagina al corpo. Sembra compiersi lo stesso destino della musica, quello di possedere la grandezza d’un linguaggio universale. In assoluta controtendenza rispetto ad una mediatizzazione esasperata della poesia, la parola di Ida Travi spunta fuori dal silenzio, pare essere meditata e magica, parola che affascina e rende nuovamente vivi. Sì, perché è possibile partecipare alla vita di un popolo nuovo, ascoltarne il mondo apparentemente sospeso eppure tangibile, così reale nella sua semplicità.  La semplicità è la più difficile delle strade da perseguire, ed è con apparente semplicità che la Travi ci insegna a guardare sotto la neve, ci permette di sentire il suono dei fiocchi che cadono, è capace di ristabilire un senso autentico a termini usurati e banalizzati.

In Poetica del basso continuo scrive: «Così fa anche la poesia. Dice qualcosa che non finisce. La poesia non sta ferma». Cosa dice oggi la poesia, dove si muove?
C’è nella poesia qualcosa di immutabile, un punto fermo nei millenni, nel variare delle forme. Parlo del mio modo di intendere; certo non mi aspetto che valga in assoluto, però, in questo modo di intendere quel punto fermo ogni volta rintraccio un movimento, un nuovo inizio. Io non so cosa sia questo punto fermo, ma è come un perno mobile nell’infinità dei sensi, dei significati e anche delle interpretazioni. Questo perno mobile sta profondamente radicato nello spirito di chi scrive, e anche di chi legge. Mette in moto le parole e scavalca il suono, il senso e i significati. È un dato di fatto: della poesia puoi forse restituire separatamente il senso, il suono e il significato… ma puoi fare poesia solo con la poesia, in sé intatta; poesia è proprio ciò che non puoi dire diversamente, ed è un lampo. È per questo che fuori, attorno alla parola poetica, esiste il lavoro della critica. Impossibile mettersi di fronte alla poesia nell’immobilità: la poesia ti porta via, ti porta sempre da un’altra parte, non puoi sapere dove. Appena l’hai scritta, appena l’hai letta, subito ti sfugge, e tu vai via con lei. Nessuna analisi può fermarla, nessun accanimento critico può sottometterla oltre l’attimo. Quando arriva l’interpretazione, la stessa poesia sta già splendendo da un’altra parte, in un altro modo, in un altro libro, sotto altri occhi. O sta già entrando in un’altra voce. Non la fermi.

La sua poesia attiva l’orecchio. Cos’è necessario per essere in ascolto?
Nella dimensione orale della poesia, è come se l’intera persona fosse un orecchio. È come quando sei lì nel vento, senti il suono del vento, ma è l’intera persona che sente il vento, non l’orecchio, non da solo. Come un’apertura, come una trasparenza nel petto di una persona, qualcosa che dà un fremito mentre soffia una domanda: ma che domanda è, ma cosa dice, cosa dice… chi mi parla? Guardate che è proprio così, quando ‘si ascolta’ davvero. Anche le mani, le ginocchia, il viso… e il naso, che è sempre qualche centimetro più avanti. Certo, non solo le orecchie. Anche le spalle ascoltano, anche gli occhi, anche se sono chiusi. Ci vogliono tutte queste cose, ci vuole l’intera persona, per ascoltare non basta l’intelletto.

I Tolki sono essenziali e duri come il loro linguaggio. Ce n’è uno che ama più degli altri?
I Tolki, i parlanti, li amo tutti, li capisco tutti, come se fossero i frammenti d’una stessa persona, come se fossero qualcuno che nei millenni è andato disintegrandosi e ora ogni frammento-persona fosse tornato qui a cercare la sua vita, la sua lingua, la sua unità. Il nome Tolki è un neologismo, una parola inventata a partire dallo slittamento sonoro del verbo inglese to talk. Sicuramente i Tolki sono esseri marchiati dal linguaggio, parlêtre, parlesseri, come direbbe Lacan, e vivono semplicemente, sprofondati nella loro identità. Nei Tolki, non c’è psicologia, non c’è filosofia, non c’è storia, forse in questi libri non c’è neppure letteratura, chi lo sa… La questione dell’identità è una questione immensa e concreta, va ben oltre i diritti. L’identità è come una pozza che devi attraversare, terra e fango. A volte neve… Chissà, forse non sono la sola ad amare i Tolki. A parte , il primo libro, Alessandra Pigliaru ha accompagnato pian piano la sequenza sui Tolki con le sue note in postfazione e con Tasàr è entrata in postfazione anche la nota di Daniele Barbieri: anche loro dunque conoscono bene i Tolki, forse anche loro hanno imparato ad amarli un po’.

La sua parola ritorna all’essenziale, alla semplicità, ha una grande forza d’attrazione, vibra sul foglio come un suono nell’aria. Che mistero contiene?
In Poetica del basso continuo parlo della lingua dei Tolki come d’un grumo d’evidenza e di mistero. E non so… se nella mia poesia accade qualcosa accade dentro alla povertà della parola. Accade nella sua spoliazione. Ma, accanto a questo, c’è anche il mio ostinato tentativo di sganciare il linguaggio dalle sue trappole, dalle sue incrostazioni millenarie, pesanti detriti concettuali. Molte parole vivono soffocate sotto grandi equivoci e codici che erodono il suo spazio di libertà. Un esempio? L’esempio più classico, più evidente. Ancora oggi, quando filosoficamente si dice l’uomo, si intende convenzionalmente il genere umano… ma certo, vien detto precisando, “l’uomo”, inteso filosoficamente, include anche la donna. È questo il punto. Perché questa inclusione che in realtà è un’esclusione? Di questo modo di intendere filosoficamente “l’uomo”, alla fine ne risentono sia l’uomo che la donna. C’è una brutta confusione, e dentro c’è una scomparsa. Il linguaggio è pieno di trappole così. «Il linguaggio non è mai neutro», ci ha insegnato Luce Irigaray, oltre mezzo secolo fa… e allora, come tenerlo presente in poesia? Deve stare attenta a come parla, a come scrive, è una bella fatica. Come deve fare una scrittrice che si trova a maneggiare una lingua che la esclude?… Che fare? O si adatta o s’inventa lì per lì qualche soluzione… Nel caso mio ci pensa la poesia a far saltare queste trappole … è difficile da dire, ma la poesia restituisce alla parola la sua trasparenza, toglie la parola dal piano del discorso. In poesia le parole cadono per terra, e da terra, fuori dall’usura del linguaggio, tornano a essere vicine a ciascuna cosa così com’è, oppure si distaccano e scattano in su, verso qualcosa di dicibile diversamente, qualcosa di mai visto… è faccenda strana e complicata, lo dico qui perché è una mia esperienza, non intendo farne una teoria. Per questo in Il mio nome è Inna, 2012, si legge: «Non voglio incantare nessuno / non voglio imbrogliare nessuno // Volevo solo imparare dalla rondine».

«Cosa farà di noi il tempo?»
Cosa farà? Non lo so, quel futuro forse è già passato. Il tempo su di noi fa il suo lavoro secolare, giornaliero. Ogni volta che viene sera vedi il lavoro del tempo… ma, si sa, alla fine si vive una sera per volta, non puoi farci niente. Certe volte, però, in poesia, ci sono strane contrazioni del tempo, strane dilatazioni…  il tempo dei verbi suggerisce, apre delle porte, il tempo delle azioni fa una specie di storia.

Ho sempre pensato che siamo la voce che conteniamo. Che importanza ha la voce per lei?
Dirò una cosa. Quando ero ancora molto piccola, all’inizio degli anni Cinquanta, trascorrevo gli inverni in cascina, presso una famiglia di contadini nella campagna lombarda. I miei genitori lavoravano a Milano e quando venivano a trovarmi ero felice di vederli, ma stavo benissimo lì dov’ero. Non ho mai sofferto di abbandono. Ero convinta che tutti mi amassero. Dormivo in un letto apribile addossato al muro nell’unica stanza al piano terra. A sera, dopo cena, io venivo messa a letto e le donne sparivano, entravano gli uomini. Il camino crepitava. La lampada era accesa. I pastrani umidi penzolavano dal chiodo al muro. Gli uomini sedevano al tavolo e giocavano a carte. On, do, tri, quater… fonna! Pestavano i pugni sul tavolo, cadenzavano i toni, parlavano una lingua archetipica. Piena di mistero. Io non li guardavo, stavo nel mio dormiveglia. Li ascoltavo a occhi chiusi e la stanza si riempiva delle loro esistenze, e anche della mia. Sentivo che c’era il tempo nella voce. C’era la notte. C’era quel sonno, il tempo presente, e insieme un tempo lontano. Anche oggi è così. A volte, anche quando la persona che parla è lì davanti a me, mi resta l’impressione che la sua voce arrivi da lontano, non conta la lingua, sta parlando… Credo che la voce sia la cosa umana più vicina all’inconscio. Sì, la voce in sé è incosciente, va sempre oltre, sopra o sotto i significati che trasporta, va anche oltre l’intenzione, quando non si tratta di una recita. La voce va oltre le lingue, supera i codici, eppure è già tutta lì nel grido iniziale, il grido di nascita. La voce certe volte ci avvicina agli animali, certe volte ci avvicina agli angeli. È la cosa umana più simile alla musica, al vento… ma è anche la cosa umana più vicina al tic tac dell’orologio, al martello che batte, o al rumore che fa la sedia quando la sposti. 

Più volte nei suoi libri fa riferimento ai bambini: «Il bambino porterà la conoscenza», «il bambino è immortale, lo sai»… Che ruolo ha il bambino in quest’«epica» dei Tolki e nella sua poetica?
Nella mia poetica c’è sempre stato ‘il bambino’. Molto molto prima dei Tolki, sin dall’inizio, già agli inizi degli anni Novanta, o in La corsa dei fuochi, o in Neo-Alcesti, prima e dopo «c’è un bambino / c’è una sedia sul punto di cadere in polvere». Oppure, «Il bambino dorme nella culla / Il bambino ha una ferita nella mano». Oppure «Il bambino non ha ancora sorriso / perché gli hai dato un nome?» Oppure «era un’antica casa greca / il bambino tirava il carretto con un filo». E in cento versi ancora. Insomma, è una presenza continua, incalzante: «il bambino è immortale, lo sai». Il bambino, nella mia poesia, non è una persona, è un’esperienza, una condizione. Il bambino non porta con sé il genere maschile, non porta con sé il genere femminile. Il bambino, come noi, è un essere intrappolato nel linguaggio, forse un verso lo libererà? Il bambino deve sempre sottostare a qualcuno, a un gruppo, a un sistema, a un’idea, un’analisi logica. Il bambino è un essere che sa tutto ed è venuto al mondo per dimenticare. Sì, il bambino è il legame tra esistenza e conoscenza. Questo è ciò che sento quando sono di fronte a un bambino. A questo si aggiungono altri cortocircuiti, illuminanti. Un esempio? L’anno scorso, mentre stavo correggendo le bozze di Tasàr, animale sotto la neve mi sono trovata per caso a sfogliare velocemente La carte postale di Jacques Derrida e mi sono imbattuta in questa frase: «Finché non saprai cos’è un bambino, non saprai cos’è un fantasma, né perciò un sapere».  Così, al volo, ho aggiunto questa frase in esergo al libro.

I Tolki sembrano essere del passato, del presente e del futuro, d’un tempo reale e su-reale. Sono di ogni tempo e di ogni luogo?
I Tolki sono nel linguaggio, sono linguaggio, sono marchiati dal linguaggio. E dunque sembrano abitare dappertutto, ogni tempo si adatta a loro. Il loro lavoro è vivere. I loro nomi, come i nostri nomi, a che tempo appartengono?… Da che secolo arriva il nome Dora? E Kraus, e Olin, e Katarina? E Fedòr? Vengono da oriente o da occidente? A volte sembrano arrivare da una mente-vuota, forse da oriente, a volte sembrano arrivare dalla forza del desiderio, forse come un luccichìo d’occidente. Certo i Tolki erano già con me quando passavo le sere con i patriarchi cinesi, quando leggevo Platone e Julia Kristeva, Meister Eckhart e Teresa d’Avila, li leggevo in cucina mordicchiandomi le unghie. I Tolki erano già lì con me, con me quando leggevo avidamente, ed erano ancora lì con me quando cercavo di dimenticare tutto. Erano con me quando prendevo il tram, e quando gettavo legna nel camino. Erano con me quand’ero a scuola, quand’ero a casa. Erano con me sin dall’inizio, in cascina, quando lanciavo il rocchetto e gattonavo a quattro zampe, all’altezza del gatto, all’altezza del pulcino, o dell’inquietante coniglio bianco, dell’inquietante coniglio nero. Ma non so… tutta questa vita… e poi… quel che resta in poesia è veramente un nulla.

Con Tasàr animale sotto la neve si conclude la saga dei Tolki, è un mondo chiuso in maniera definitiva?
Con Tasàr ho pensato fosse ora di chiudere. Tasàr è importante perché è il libro del distacco. In realtà pensavo che sarebbe stato più facile concludere con questi cinque libri, con tutto questo mondo… Pensavo fosse facile, ma poi, quando sei lì che stai per porre fine a ciò che hai inventato… ti dispiace, sì, ti dispiace… Come lasciare i Tolki? Come lasciare ora l’asino Tasàr, un essere così misterioso, così mite… Tasàr tra i Tolki è arrivato alla fine, e compare poco, compare solo a tratti… perché cancellarlo così? E chi è Tasàr, chi è? Tasàr è entrato nel libro come un alter ego di Balthazar, l’asino messo in scena da Bresson nel film Au hazard Balthazar. Ma con nome alterato, contratto. Quando negli anni Sessanta Bresson ha girato Au hazard Balthazar si è ispirato a Dostoevskij: in L’idiota era stato l’improvviso raglio di un asino a risvegliare il principe Myskin una sera a Basilea, al mercato cittadino… ma in fondo ovunque, dentro e fuori dalla letteratura, l’ostinazione e la testa bassa dell’asino rimandano al grigio splendore spirituale del povero ‘cristo’. Erano gli anni Sessanta, appunto, erano gli anni in cui, oltre a leggere Dostoevskij, io scoprivo il cinema. E Au hazard Balthazar ha segnato in modo indelebile la mia giovinezza, fino a oggi, fino a qui… Fino al punto di resuscitare in me ‘un Tasàr’, e di metterlo a vivere tra i Tolki. Qui, tra i Tolki, gli esseri umani e l’animale vivono insieme in una specie di recinto, in una parentela spirituale misteriosa, risvegliata… Gli esseri umani e l’animale vivono in un campo tra la neve, come appena usciti da un automatismo, come se quel povero campo fosse per tutti un piano più alto.

Una poesia imprescindibile, quale?
In realtà sarebbero troppe le poesie imprescindibili; non riesco a sceglierne una…  dunque userò le parole del cinema. Ero solo una ragazzina che andava al cinema, e là, nel buio della sala, con gli occhi fissi sullo schermo vedevo l’asino Balthazar che trasportava sulla groppa la cesta del pane. E vedevo Marie, che aveva la mia età, che aveva un grembiulino come il mio… Marie parlava a Jacques seduta su una panca: «Le tue parole non mi fanno più effetto, Jacques. La dichiarazione d’amore e la promessa che ci siamo fatti… erano d’un mondo immaginario. Non era la realtà». La realtà è un’altra cosa. «La realtà?» pensavo io… «Non sono anch’io la realtà?». Guardavo uno schermo nel buio e Marie parlava a Jacques, parlava piano senza mai alzare gli occhi su di lui.

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Alcuni “assaggi” dei Tolki:

(la luce)
da Tà – poesia dello spiraglio e della neve, Moretti&Vitali 2011

(parli al vento)
da Il mio nome è Inna, Moretti&Vitali 2012

(la casa è tornata)
da Katrin Saluti dalla casa di nessuno, Moretti&Vitali 2013

(date retta)
da Dora Pal, la terra, Moretti&Vitali 2017

(tu lo sai)
da Tasàr. Animale sotto la neve, Moretti & Vitali, 2018

Ida Travi | nota biografica

La sua poesia si inscrive nel rapporto tra oralità e scrittura, tematica che nel 2000 affronta con il saggio L’aspetto orale della poesia (terza edizione Moretti&Vitali, 2007), e nel 2015 in Poetica del basso continuo. In poesia per Moretti&Vitali pubblica La corsa dei fuochi, 2006; Neo/Alcesti poesie per la musica, 2009, e la sequenza poetica sui Tolki, i parlanti, in cinque libri: TA’ poesia dello spiraglio e della neve (2011); Il mio nome è Inna (2012); Katrin. Saluti dalla casa di nessuno (2015); Dora Pal, la terra (2017); e Tasàr, animale sotto la neve, 2018. Per il teatro l’atto tragico Diotima e la suonatrice di flauto edito da Baldini Castoldi Dalai nel 2004, che diventa nel 2010 opera musicale, Tesi di Laurea in Composizione del M° Andrea Battistoni. Sui suoi radiodrammi e sue poesie alcuni compositori contemporanei hanno composto musiche originali.

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