Bruno Arpaia (nato nel 1957 a Ottaviano, in provincia di Napoli) è romanziere, giornalista, consulente editoriale e traduttore di letteratura spagnola e latinoamericana; ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi I forestieri, Il futuro in punta di piedi, Tempo perso (Premio Hammett Italia 1997), L’angelo della storia (Premio selezione Campiello 2001, Premio Alassio Centolibri – Un autore per l’Europa 2001), Il passato davanti a noi (Premio Napoli e Premio Letterario Giovanni Comisso 2006), L’energia del vuoto (finalista al Premio Strega 2011 e vincitore del Premio Merck Serono), Per una sinistra reazionaria, La cultura si mangia! con Pietro Greco e L’avventura di scrivere romanzi con Javier Cercas, molti di questi usciti per Guanda. Ha pubblicato inoltre, sempre con Guanda, Prima della battaglia. Un’indagine del commissario Malinconico (2014), Qualcosa, là fuori (2016) e Il fantasma dei fatti (2020).
Lo abbiamo incontrato a proposito del suo romanzo Qualcosa, là fuori nell’ambito della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento.
L’ultimo romanzo che hai scritto presenta, nella nota finale, non solo un elenco di libri che ti sono serviti per scriverlo, ma anche di saggi sul cambiamento climatico, che è una tematica fondamentale nella storia. Se volessimo riassumerlo in tre righe potremmo dire che Qualcosa, là fuori è una storia di migranti che si spostano per motivi climatici. Non è un libro comodo, è un libro che comunica il senso della possibile fine, dell’insensatezza che ci circonda, ma che proprio in questo modo contrasta la fine stessa del senso.
La prima questione che volevo sottoporti è il coraggio che bisogna avere, almeno in Italia, per scrivere romanzi di questo genere. Molti scrittori prendono il cambiamento climatico come tematica centrale delle loro storie e ne ricavano romanzi, senza aver paura di essere scambiati per scrittori di fantascienza, di serie B se volessimo ironizzare! Un esempio è La grande cecità, dove Amitav Ghosh afferma che chi parla di clima tende a scrivere saggi più che romanzi, come se ci fosse la paura di parlarne in termini narrativi, tanto che il cambiamento climatico sembra essere imparentato con extraterrestri. Paura che però tu dimostri con questo libro di non aver assolutamente avuto.
Io mi sento uno scrittore transgender; non mi interessa nulla del genere letterario che mi affibbiano: romanzi storici, di attualità, con giornalismo, mischiati con la filosofia. Il romanzo nasce già meticcio, bastardo, prende tutti i generi letterari della sua epoca, c’è dentro di tutto. Quindi che dicano quello che vogliono! Nel caso di questo libro, proprio per quello che diceva Ghosh, ho riscontrato diversi pareri che lo definivano ‘postapocalittico’ o ‘distopico’… no, purtroppo non lo è, mi dispiace per voi: gli scenari in cui i personaggi si muovono sono presi dalle fonti della BBC, dell’agenzia europea per l’ambiente, sono previsioni scientifiche sull’attuale situazione e su quello che succederà se non dovessimo fare niente a riguardo. Per cui mi sono messo a scrivere questo romanzo con urgenza: si scrive un romanzo quando si ha un’ossessione; si porta un’idea in testa per tanti anni, un’idea che rimane sempre lì; è lì quando giochi con tuo figlio, è lì quando parli con tua moglie, il cervello sta sempre lavorando. Si scrive solo quando un tema, un argomento, un personaggio, diventa davvero un’ossessione.
Avevo una visione di immagini che mi portavo dietro da quando avevo vent’anni: immagini di miriadi di persone che si spostavano in condizioni disperate, affamate, e non sapevo perché. Penso di essere uno dei pochi umanisti che si interessa di scienza, e quando mi sono interrogato sulla questione del cambiamento climatico mi sono accorto che la situazione era molto peggio rispetto a quello che ci veniva descritto, così ho cominciato a scrivere senza preoccuparmi, e sono andato avanti, perché questo era ciò che volevo raccontare. Volevo che i lettori vivessero la fame, la sete, l’umiliazione di essere migranti respinti, che toccassero con mano cosa vuol dire sentire il mare che ti sommerge, sono andato avanti piano piano, per la mia strada. Non mi piace che sia definito un romanzo distopico, perché alcuni effetti si stanno realizzando già adesso.
Quindi non un romanzo post-apocalittico, non un romanzo catastrofista. Alcuni programmi in televisione sono definiti ‘catastrofisti’, perché questo può dare un sottile gusto, un piacere. Catastrofismo è una strana cosa che sicuramente non è presente nel tuo romanzo. I film catastrofisti cominciano sempre con delle belle scene, e poi arriva la parte drammatica, oppure è già successo tutto e non sappiamo come. Tu fai un’altra cosa, alterni due piani temporali: il protagonista vive gli esiti della catastrofe, la mancanza di acqua, ma si racconta anche il prima, il come è cominciato. Il romanzo è ambientato nel 2080, ma racconta anche che cosa avveniva nel 2030. Ora, la mia domanda è: tu pensi davvero che sia troppo tardi? E ancora, un personaggio dice al protagonista Livio che, in fondo, il destino disastroso gli piace, che non si può vivere senza il pensiero di un’apocalisse all’orizzonte. Secondo te c’è una sorta di Livio dentro ognuno di noi?
Io mi sento scherzosamente non a mio agio, perché continuo a pensare che il mio libro sia ottimista e speranzoso! Però, obiettivamente, se dobbiamo guardare in faccia la realtà, ed è un lavoro che uno scrittore deve fare, la situazione è grave, anche se non ce ne accorgiamo. L’ultima notizia a riguardo della BBC ci dice che ci restano solo dodici anni per abbattere il 45% delle nostre emissioni di anidride carbonica, che invece dal 2017/2018 hanno ricominciato a crescere. Il riscaldamento globale va più in fretta di noi, e le classi dirigenti mondiali non si stanno muovendo.
Il libro è uscito ad aprile 2016, e quello che io scrivevo riguardo al 2080 gli scienziati lo prevedono per molto prima. I cambiamenti climatici ci sono sempre stati nella storia della Terra, ma avvenivano per cause esterne: eruzioni vulcaniche, meteoriti; inoltre duravano migliaia di anni, e questo dava il tempo alle specie di adattarsi e sopravvivere. Quello che noi invece non stiamo facendo: nel giro di centocinquant’anni, dalla seconda rivoluzione industriale in poi, abbiamo aumentato di un grado virgola due la temperatura della Terra, e siamo arrivati a raddoppiare le parti di anidride carbonica presenti nell’atmosfera; il calore non si disperde più. Questo sconvolge tutto.
Abbiamo un pregiudizio grave nei confronti del cambiamento climatico perché pensiamo che sia una cosa lenta, che avverrà pian piano, con inverni più miti e qualche grado in più d’estate, combattibile con l’aria condizionata. Tutti gli scienziati ci dicono che il clima è un sistema dove ad una piccola causa può seguire una conseguenza enorme. Oggi si stanno sciogliendo i ghiacciai dell’Artico, si sta alzando il livello del mare; pensiamo a quando si scioglieranno quelli della Groenlandia: nel giro di pochissimo tempo il livello del mare si alzerà di tre/quattro metri, e i due miliardi di persone che vivono sulle coste saranno completamente sommersi. È uno scenario non più così lontano! Poi c’è un’altra questione che raccontava la Nato, ovvero le gravi conseguenze sociali e politiche che questo cambiamento si porterà dietro, molte delle quali stanno già accadendo: alle prime origini della guerra in Siria c’è la più grande siccità mai registrata nel corso degli anni; nel 2011 non ci fu neppure una goccia d’acqua, un milione e seicentomila persone dovettero spostarsi da quelle zone, invadendone altre già caratterizzate da forti difficoltà e aumentando così i conflitti, a cui poi si sono aggiunti gli altri Paesi. Un altro esempio è il Lago Ciad, che nel corso di vent’anni si è ridotto a un ventesimo delle sue dimensioni, portandosi dietro lo spostamento di un milione di contadini e diventando una delle zone africane più potenti dominate dall’Isis.
Nel mondo ci sono sessanta milioni di rifugiati politici, ma ci sono più di duecento milioni di persone, praticamente impossibili da contare, che sono state costrette a spostarsi dalla loro terra a causa del cambiamento climatico. Noi non le vediamo ancora, perché si spostano all’interno del loro Paese, ma queste persone esistono, e mi fa ridere quando in Italia si parla di invasione: non c’è una classa dirigente mondiale che abbia la lungimiranza di vedere cosa succederà fra centocinquant’anni. Le democrazie sono in una crisi profonda, hanno bisogno di classi dirigenti mediocri, dove il consenso viene dato al momento, in tempo presente e reale, per cui il massimo orizzonte politico sono le prossime elezioni comunali. Con queste premesse devo guardare il male in faccia e dire sì, è molto possibile.
Ascoltando tutto questo, non vi viene in mente la domanda ‘e io cosa ci posso fare?’. Bisogna rifletterci, non è il negazionismo che ci interessa, non è chi nega l’esistenza del cambiamento climatico, ma piuttosto lo stato di negazione in cui viviamo: di fronte alla crisi climatica inevitabilmente sappiamo, ma ci comportiamo come se non sapessimo. Nel libro ci sono tanti possibili risposte: il timore di apparire negativo, catastrofista, esagerato, di essere quello che a cena parla della morte. È un atteggiamento culturale maturato lentamente, dove quello che conta è ciò che avviene nella vita dell’individuo in quanto essere soggettivo, dove i grandi cambiamenti sono solo quelli che avvengono dentro sé stessi, e il resto non è considerabile un fatto vero, non ci riguarda.
In realtà ogni buona letteratura parte sempre da un ‘noi’, perché se io vi raccontassi dei problemi che ho con mio figlio, cosa ve ne importerebbe? È un grave equivoco, perché diamo per scontate alcune nozioni che in realtà non lo sono, tra cui quella dell’individuo. L’individuo è nato con l’Illuminismo, prima non esisteva il singolo, prima esistevano la comunità, l’appartenenza. Oggi si parla di una finta crisi di migranti per non parlare del cambiamento climatico.
Negli anni Sessanta l’Italia ha scelto un modello di sviluppo senza innovazione, ha tagliato ricerca, cultura, scienza, università. Quando compriamo un cellulare a costare non è l’oggetto, ma tutta la fisica quantistica che c’è dietro! Abbiamo scelto di occuparci di mobili, di moda, di grano, non abbiamo più fatto ricerca. Abbiamo il 19% di laureati contro il 65% della Corea del Sud, il 55% di Canada e Francia. Ovviamente noi abbiamo un pregiudizio individuale: ci sembra che questi avvenimenti del cambio climatico avvengano lontano da noi, ma in realtà non è così. Per la prima volta abbiamo visto un ciclone tropicale sfiorare la Galizia e l’Inghilterra, non so se ci rendiamo conto. Nel 2017 si è staccato dall’Antartide un iceberg largo mezza Italia, ma nessuno lo sa, tutti però si ricordano perfettamente la tragedia dell’11 settembre. Sono segni fondamentali se li mettete insieme, giorno dopo giorno, come ho fatto io scrivendo il libro. Se devo mangiare meno carne, spostarmi meno in macchina, non mi conviene, no? Io da solo ‘che posso fare’? Se ne occuperanno i politici! Questo è il modo di ragionare, ma ogni cosa in realtà ci riguarda, e ci riguarda da vicino. Dobbiamo riprendere coscienza in termini collettivi. La letteratura deve raccontare storie.
L’impressione è che questioni così vaste, pervasive, terribili, siano iper-oggetti, ovvero: per istinto di conservazione e di equilibrio, il nostro cervello ci induce ad evitarle. Perché non abbiamo fiducia nella tecnologia climatica? Nel libro qualcuno propone di spruzzare acido solforico a una certa altezza, e altri dicono che non può funzionare. Ma c’è il solito Victor, amico ottimista, l’avvocato del diavolo diciamo, che dice: ‘voi della sinistra radicale reagite con orrore alla tecnologia climatica solo per partito preso’.
Penso che, per come si stanno mettendo le cose, avremo bisogno di questa tecnologia. Alcuni stanno trovando modi economici per vaporizzare l’acqua del mare, ad esempio; ci sono tante tecniche. Però c’è un problema: nessuno scienziato della Terra ha un modello efficiente del sistema climatico, perché è un sistema così complesso e variabile che nessuno riesce a studiarlo perfettamente. Noi non sappiamo tantissime cose. Io credo nella scienza, ma la scienza è democratica, non esiste una verità con la V maiuscola: quella appartiene alla religione, ma la scienza seria ha un’ipotesi che viene considerata più vicina alla verità. Per fare questi interventi tecnologici è necessario investire moltissimo in ricerca, e soprattutto c’è bisogno di una guida politica. Questi sono i veri problemi. Noi ci preoccupiamo di quarantasette clandestini che non facciamo sbarcare, quando i problemi del mondo sono altri. Spero che l’unione di varie forze che spingono verso un’azione seria contro il cambiamento climatico possa darci l’idea che qualcosa stiamo facendo. Non esiste un problema più planetario del sistema climatico, perciò la risposta deve essere altrettanto generale e planetaria.
Però, come hai detto tu, questo è un libro di speranza. Nella storia c’è questo rapporto particolare tra padre e figlio che lascia la speranza: il padre, stanco e poco motivato a vivere, sente in realtà di dover vivere per quel bambino. La grande tragedia è sicuramente il cambiamento climatico, ma l’altra tragedia da non sottovalutare è la morte del prossimo, la fine della solidarietà. In questo libro invece si arriva ad avere uno spiraglio di luce.
La storia è quella di un signore che fa il neuroscienziato, e si occupa del perché tutto ciò che noi vediamo della realtà sia un racconto che il nostro cervello fa a noi stessi. Questa capacità di raccontare storie è l’essenza dell’essere umano. Il romanzo è ambientato qualche anno più in là rispetto a oggi: lo scienziato incontra una fisica, figlia di due rifugiati siriani giunti qualche anno prima in Italia, e nel 2036 entrambi vincono una borsa di studio e partono per Stanford, dove assisteranno a un vero e proprio declino, non solo climatico, bensì anche politico, sociale e, non per ultimo, culturale. L’America nel 2050 elegge un presidente razzista, omofobo, xenofobo, e quindi i due protagonisti sono costretti a tornare in Italia, dove trovano un clima in preda a una lotta costante, una lotta del ‘tutti contro tutti’: la gente non ha più da mangiare, non ha più da bere, ci sono numerosi scontri, molta violenza. Il protagonista perde sia la figlia che la moglie, famiglia che si era creato in America, e vive i successivi sedici anni come un ‘individuo’, solo, con una vita totalmente insensata e vuota. Fino a quando scopre una multinazionale che fornisce a pochissimo prezzo scorte armate, medicinali, beni, per scortare carovane colme di migranti per l’Europa e farle arrivare fino ai confini con la Scandinavia. Decide allora che è meglio morire in quest’impresa, piuttosto che farlo per niente. Io credo che la speranza si veda già nel coraggio di queste persone nell’affrontare un viaggio così lungo, difficile, disperato, per cercare una vita migliore: loro non accettano la violenza. In questa speranza collettiva ritrova la solidarietà: stanco e vecchio, percorre questa marcia estenuante e spesso ha la tentazione di lasciarsi andare, di smetterla, di farla finita, ma non lo fa, non può: ha dei doveri verso la vita. Io penso che questo sia un messaggio di grande speranza.
Trascrizione ed editing a cura di Giulia Bertini