Jack London – Il sogno americano

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2005

I mulini di iuta non hanno mantenuto l’impegno di aumentare il mio stipendio di un dollaro e un quarto al giorno, e io, ragazzo americano nato libero i cui diretti antenati combatterono in tutte le guerre, dalle vecchie guerre indiane pre-rivoluzionarie in poi, ho esercitato il mio sovrano diritto di libertà di contratto lasciando il lavoro. Ero ancora deciso a sistemarmi, e mi sono guardato intorno.

Una cosa era chiara. Il lavoro non qualificato non pagava. Dovevo imparare un mestiere, e scelsi l’energia elettrica. La necessità di elettricisti cresceva continuamente. Ma come diventare elettricista? Non avevo i soldi per andare in una scuola tecnica o all’università, e poi non avevo una grande opinione delle scuole. Ero un uomo pratico in un mondo pratico. Inoltre, ho sempre creduto nei vecchi miti, patrimonio del ragazzo medio americano quando ero un ragazzo.

Un ragazzo dei canali avrebbe potuto diventare Presidente[1]. Qualunque ragazzo con un lavoro in qualunque impresa avrebbe potuto, con parsimonia, energia e sobrietà, imparare il mestiere e salire di posizione in posizione fino a diventare un junior partner. Dopo di che, il partenariato anziano era solo questione di tempo. Molto spesso – così diceva la leggenda – il ragazzo, per via della sua fermezza e applicazione, sposava la figlia del suo datore di lavoro.

A quel tempo ero stato talmente incoraggiato ad aver fiducia in me stesso in fatto di ragazze che ero quasi certo che avrei sposato la figlia del mio datore di lavoro. Non c’era dubbio su questo. Tutti i ragazzini delle leggende lo avevano fatto, non appena erano abbastanza grandi.

Così ho detto addio per sempre al sentiero dell’avventura, e sono andato verso la centrale elettrica di una delle nostre ferrovie di Oakland. Ho incontrato proprio il sovrintendente, in un ufficio privato così raffinato che quasi mi ha stordito.

Ma ho parlato con chiarezza. Gli ho detto che volevo diventare un tecnico elettricista, che non avevo paura di lavorare, che ero abituato al duro lavoro, e che tutto quello che doveva fare era guardarmi per vedere quanto ero in forma e forte. Gli ho detto che volevo iniziare dal fondo e imparare, che volevo dedicare la mia vita esattamente a questa occupazione e a questo impiego.

Il sovrintendente era raggiante mentre ascoltava. Mi ha detto che avevo la stoffa giusta per il successo, e che credeva nell’incoraggiamento dei giovani americani che volevano farsi strada. Insomma, i datori di lavoro erano sempre alla ricerca di giovanotti come me, e ahimè, li trovavano troppo raramente.

La mia ambizione era buona e degna, e lui avrebbe fatto in modo che avessi la mia occasione. (E mentre ascoltavo con il cuore gonfio, mi chiedevo se fosse sua figlia che avrei sposato).

«Prima che tu esca nel mondo e impari i più complessi e importanti dettagli della professione», disse, «naturalmente, dovrai lavorare in officina con gli uomini che installano e riparano i motori». (A questo punto ero sicuro che si trattava di sua figlia, e mi chiedevo lui che percentuale di ricavi avesse in azienda).

«Ma», disse, «come tu stesso puoi vedere chiaramente, non puoi aspettarti di iniziare come aiutante degli elettricisti in officina. Questo accadrà quando avrai imparato abbastanza. Incomincerai davvero dal basso. In officina il tuo primo impiego sarà spazzare, lavare le finestre, tenere le cose pulite. E dopo che ti sarai dimostrato abbastanza bravo in questo, allora potrai diventare un aiuto per gli elettricisti in officina».

Non vedevo come spazzare e lavare un’officina fosse la preparazione giusta per diventare elettricista, ma sapevo che nei libri tutti i ragazzi iniziavano con i lavori più umili e lavorando bene alla fine vincevano e diventavano proprietari di tutta la baracca.

«Quando devo venire a lavorare?», ho chiesto, desideroso di lanciarmi in questa abbagliante carriera.

«Tuttavia», ha detto il sovrintendente, «come tu e io abbiamo già concordato, devi cominciare dal basso. Non si può entrare subito a qualsiasi titolo in officina. Prima devi passare per la sala macchine come oliatore».

Il mio cuore ebbe un piccolo mancamento e per il momento vidi la strada tra sua figlia e me allungarsi, ma poi mi ripresi. Sarei stato un elettricista migliore, con la conoscenza delle macchine a vapore. In qualità di oliatore nella grande sala macchine ero sicuro che alcune cose relative al vapore non mi sarebbero sfuggite. Santo cielo! La mia carriera brillava più abbagliante che mai.

«Quando devo venire a lavorare?», ho chiesto con gratitudine.

«Però», ha detto il sovrintendente, «non ti puoi aspettare di entrare immediatamente nella sala macchine. Bisogna essere preparati per questo. E passare per il locale caldaia, naturalmente. Su, sono certo che vedi chiaramente la questione. E vedrai che anche la semplice gestione del carbone è una materia scientifica da non sottovalutare. Lo sai che pesiamo ogni libbra di carbone da ardere?

Quindi, impariamo il valore del carbone che acquistiamo; conosciamo fino all’ultimo centesimo del costo di ogni articolo di produzione, e sappiamo chi sono i fuochisti più spreconi, e quelli che, per stupidità o disattenzione, non utilizzano il massimo dal carbone che usano».

Il sovrintendente s’illuminò di nuovo. «Comprendi quanto importante sia la piccola questione del carbone, e più imparerai di questa materia più sarai un operaio migliore – più prezioso per noi, più prezioso per te stesso. Ora, sei pronto a incominciare?».

«In qualunque momento», dissi gagliardo. «Prima è, meglio è».

«Molto bene», rispose. «Verrai domani mattina alle sette in punto».

Mi portarono fuori e mi mostrarono i miei compiti. Inoltre, mi spiegarono i termini del mio lavoro -dieci ore al giorno, tutti i giorni comprese le domeniche e le vacanze, con un giorno di riposo al mese, e uno stipendio di 30 dollari mensili.

Non era eccitante. Anni prima, al conservificio, avevo guadagnato un dollaro al giorno per dieci ore al giorno. Mi consolai pensando che la mia capacità di guadagno non era aumentata in proporzione con la mia età e con la mia forza, ed era così perché ero rimasto un manovale.

Ma adesso era diverso. Stavo cominciando a lavorare per conquistare competenze, per gli affari, per la carriera e la fortuna, e la figlia del sovrintendente.

E stavo cominciando nel modo giusto – giusto all’inizio. Era quello il punto. Passavo carbone per i fuochisti, che lo spalavano nei forni, dove la sua energia veniva trasformata in vapore, che, nella sala macchine, veniva trasformata nell’energia elettrica con la quale gli elettricisti lavoravano.

Questo passaggio del carbone era di certo l’inizio vero e proprio, a meno che il sovrintendente non si mettesse in testa di spedirmi a lavorare nelle miniere da cui il carbone veniva, così che raggiungessi una più completa comprensione della genesi dell’energia elettrica destinata alle ferrovie.

Lavoro! Io, che avevo lavorato con gli uomini, scoprivo di non conoscere i fondamenti del vero lavoro. Dieci ore al giorno! Ho dovuto passare carbone nei turni diurni notturni e, nonostante lavorassi anche nella pausa di colazione, non ho mai finito il mio compito prima delle otto di sera. Lavoravo da dodici a tredici ore al giorno, e non mi venivano pagati gli straordinari come nel conservificio.

Potrei anche svelare il segreto, adesso, proprio qui. Stavo facendo il lavoro di due uomini. Prima di me, un maturo operaio ben messo e abile aveva fatto il turno di giorno, e un altro operaio, altrettanto maturo e abile, aveva fatto il turno di notte.

Prendevano quaranta dollari al mese ciascuno. Il sovrintendente, impegnato a ridurre le spese, mi aveva persuaso a fare il lavoro di entrambi gli uomini per trenta dollari al mese. Avevo pensato che stesse facendo di me un elettricista. In verità, infatti, stava risparmiando cinquanta dollari al mese di spese di gestione per l’azienda.

Ma io non sapevo che stavo sostituendo due uomini. Nessuno me l’aveva detto. Al contrario, il sovrintendente avvertì tutti di non dirmelo. Quanto sono stato gagliardo nel mio lavoro quel primo giorno. Ho lavorato alla massima velocità, riempiendo la carriola di ferro con il carbone, guidandola sulla bilancia e pesandone il carico, poi spingendola in caldaia e lasciandola sulle piastre davanti al fuoco.

Lavoro! Facevo più io dei due uomini che avevo sostituito. Loro avevano semplicemente portato dentro il carbone e lo avevano gettato sulle piastre. Ma mentre facevo tutto questo per il carico diurno di carbone, per la notte dovevo accumulare il carbone contro la parete della fornace. Ora, la stanza della fornace era piccola.

Era stata progettata per un passatore di carbone notturno. Così dovetti impilare il carbone della notte sempre più in alto, fermando il cumulo con robuste tavole. Verso la parte superiore del mucchio dovevo sistemare il carbone una seconda volta, lanciandolo con una pala.

Gocciolavo di sudore, ma non deviai mai dal mio passo, anche se sentivo la stanchezza salire. Alle dieci del mattino, avevo consumato tanta della mia energia fisica, che avevo fame e strappai una spessa doppia fetta di pane e burro dal mio cestino per la cena. La divorai, in piedi, sudicio della polvere di carbone, le ginocchia tremanti.

Alle undici, in questo modo avevo finito l’intero mio pranzo. Ma che importava? Sapevo che mi avrebbe permesso di continuare a lavorare per tutto il turno. E lavorai tutto il pomeriggio. Si faceva buio, e lavoravo sotto le luci elettriche. Il fuochista diurno se ne andava e quello notturno arrivava. Lavoravo incessantemente.

Alle otto e mezzo, affamato, barcollante, mi lavai, cambiai gli abiti, e trascinai il mio corpo stanco verso l’autobus. Era a tre miglia da dove abitavo, e avevo ricevuto un permesso scritto con la clausola di potermi sedere fino a quando non vi erano passeggeri paganti che avessero bisogno di un posto.

Come sprofondai in un angolino all’esterno, pregai che nessun passeggero richiedesse il mio posto. Ma la vettura si riempì, e a metà strada una donna salì a bordo, e non c’era posto per lei. Provai ad alzarmi, e con stupore scoprii di non riuscirci. Con il vento freddo che soffiava su di me, il mio corpo sfinito si era irrigidito nel suo posto.

Ci misi il resto del viaggio a sbloccare le articolazioni che si lamentavano e a convincere i muscoli a mettersi in una posizione eretta sul gradino inferiore. E quando la vettura si fermò al mio angolo, per poco scendendo non caddi a terra.

Barcollai per due isolati verso casa e zoppicai entrando in cucina. Mentre mia madre iniziava a cucinare, mi tuffai nel pane e burro, ma prima che il mio appetito fosse placato, o la bistecca fosse cotta, ero profondamente addormentato. Invano mia madre cercò di scuotermi per svegliarmi abbastanza da mangiare la carne.

Avendo fallito in questo, con l’aiuto di mio padre riuscì a portarmi nella mia camera, dove crollai addormentato come una pietra sul letto. Mi spogliarono e mi misero addosso una coperta. La mattina dopo provai l’agonia del risveglio.

Ero terribilmente dolente, e, peggio di tutto, i miei polsi erano rigonfi. Ma in compensazione della cena persa, mangiai un’abbondante colazione, e andai zoppicando a prendere l’autobus portando un pranzo due volte più grande di quello del giorno prima.

Lavoro! Lasciate che ogni giovane appena compiuti diciotto anni provi a sostituire due spalatori di carbone adulti. Lavoro! Molto prima di mezzogiorno avevo mangiato l’ultimo pezzo del mio enorme pranzo.

Ma ero deciso a mostrare loro ciò che avrebbe potuto fare un giovanotto determinato a farsi strada. Il peggio era che i miei polsi erano gonfi e facevano molto male. Pochi non conoscono il dolore di camminare su una distorsione alla caviglia. Quindi immaginate il dolore di spalare carbone e spingere una carriola carica con due polsi slogati.

Lavoro! Più di una volta mi lasciai cadere sul carbone dove nessuno poteva vedermi, e piangevo di rabbia, e di mortificazione, e stanchezza, e disperazione.

Il mio secondo giorno fu il più difficile, e quello che mi permise di sopravvivere e arrivare alla fine del turno di notte dopo tredici ore fu il fuochista di giorno, che mi legò entrambi i polsi con larghe cinghie di cuoio.

Erano così strettamente legate che parevano gesso leggermente flessibile. Si prendevano le sollecitazioni e le pressioni che fino ad allora erano state sostenute dai miei polsi, ed erano così strette che non c’era spazio perché l’infiammazione risalisse nelle distorsioni.

E in questo modo continuavo a imparare il mestiere di elettricista. Notte dopo notte zoppicando a casa, mi addormentavo prima di poter mangiare la mia cena, e mi portavano a letto e mi spogliavano. Mattina dopo mattina, con pranzi sempre più abbondanti nel cestino della cena, mi trascinavo fuori di casa per andare al lavoro.

Non leggevo più i libri della biblioteca. Non uscivo più con le ragazze. Ero una bestia da lavoro vera e propria. Lavoravo e mangiavo e dormivo, mentre la mia mente dormiva tutto il tempo. Il tutto era un incubo. Lavoravo ogni giorno, anche la domenica, e mi sembrava lontanissimo il giorno di riposo alla fine del mese, quando sarei rimasto a letto tutto il tempo solo a dormire e a riposarmi.

*     *     *

Avevo spesso notato il fuochista del turno di giorno che mi fissava in un modo curioso. Alla fine, un giorno parlò. Cominciò facendomi giurare di mantenere il segreto. Era stato avvertito dal soprintendente di non dirmelo, e dicendomelo stava rischiando il suo lavoro. Mi disse del passatore di carbone diurno e del passatore notturno, e dei salari che ricevevano. Stavo facendo per 30 dollari al mese quanto loro facevano per 80 dollari.

Me l’avrebbe detto prima, disse il fuochista, se non fosse stato così sicuro che sarei crollato sotto il lavoro e avrei mollato. Così come stava andando, mi stavo uccidendo, e tutto senza uno scopo utile. Stavo semplicemente abbassando il valore del costo del lavoro, sosteneva, e tenevo due uomini senza lavoro.

Poiché ero un ragazzo americano, un orgoglioso ragazzo americano, non lasciai subito il lavoro. Era sciocco da parte mia, lo so, ma decisi di continuare abbastanza a lungo da dimostrare al sovrintendente che avrei potuto farlo senza spezzarmi. Poi avrei lasciato, e lui avrebbe capito che genere di buon partito aveva perso.

Feci tutto questo con fiducia e leggerezza. Ho lavorato fino a quando giunse il momento di fare l’ultimo turno di notte, fino alle sei. Quindi smisi di voler imparare il lavoro di elettricista facendo il lavoro di due uomini in cambio del salario di un ragazzo, andai a casa, e mi misi a dormire tutto il giorno.

Per fortuna, non ero rimasto a fare quel lavoro abbastanza a lungo per farmi del male – anche se sono stato costretto a indossare le cinghie sui polsi per tutto l’anno successivo. Ma l’effetto di questa orgia di lavoro a cui avevo ceduto era stato di finire per essere nauseato dal lavoro stesso. Non avrei lavorato.

Il pensiero del lavoro era ripugnante. Non mi importava se non mi sarei sistemato. L’idea di imparare un mestiere poteva andare a quel paese. Era un bel po’ meglio vivere con leggerezza e giocosamente nel mondo come avevo sempre fatto in precedenza. Così mi diressi nuovamente sul sentiero dell’avventura, iniziando a vagabondare verso Est battendo la mia strada lungo le ferrovie.

Nel corso del mio vagabondare per gli Stati Uniti ho fatto un nuovo ragionamento. Come vagabondo, io ero dietro le quinte della società -sì, e in basso, in cantina. Ho potuto vedere il funzionamento dei meccanismi. Ho visto le ruote della macchina sociale girare, e ho imparato che la dignità del lavoro manuale non era quello che mi era stato detto da insegnanti, predicatori, e politici.

Gli uomini senza mestiere erano bestiame inerme. Se uno imparava un lavoro, era costretto a far parte di un sindacato per poter fare il suo mestiere. E il suo sindacato era costretto a forzare e premere i sindacati dei datori di lavoro per sostenere i salari o diminuire le ore di lavoro. Allo stesso modo i sindacati dei datori di lavoro forzavano e premevano.

Non riuscivo a vedere alcuna dignità. E quando un operaio diventava vecchio, o aveva un incidente, veniva gettato nel mucchio dei rottami come qualsiasi macchina logorata. Ho visto troppi uomini così cercare di finire dignitosamente la loro vita.

Quindi il mio nuovo pensiero era che al lavoro manuale era stata tolta la dignità, e che non pagava. Non ero fatto per gli affari, questa era la mia decisione, e niente figlie del sovrintendente. E niente criminalità, avevo anche deciso. Sarebbe stato disastroso quasi come essere un operaio. I cervelli pagavano, non i muscoli, e decisi di non offrire mai più i miei muscoli in vendita al mercato dei muscoli. Il cervello, e solo il cervello, avrei venduto.

(Tratto da John Barleycorn, 1913)

Traduzione di Silvia Accorrà

 


[1] Probabile allusione dell’autore a James Abram Gardfield (1831-1881), di umili origini, che dopo aver esercitato in gioventù il mestiere di barcaiolo, divenne il ventesimo presidente degli Stati Uniti

 

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Jack London, al secolo John Griffith Chaney London (San Francisco, 12 gennaio 1876 – Glen Ellen, 22 novembre 1916) è stato uno scrittore statunitense. Dopo una gioventù avventurosa, trascorsa tra i lavori più duri, dal pescatore clandestino al pugile, dal cercatore d’oro al corrispondente di guerra, si afferma dopo i trent’anni, ed è noto soprattutto per opere letterarie che trattano temi sociali. Autore prolificissimo, pubblicò in vita ben una cinquantina di volumi tra romanzi, raccolte di racconti e saggi.

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