Roma vince il Festival di Venezia con pieno merito e si propone come esempio universale di cinema d’autore, perché Cuarón fa praticamente tutto – soggetto, sceneggiatura, montaggio, fotografia e regia – realizzando il film della sua vita, ambientato nel quartiere borghese ColoniaRoma di Città del Messico, nel biennio 1970-1971, tra i mondiali di calcio e il capodanno, fino ai primi giorni estivi. In questo spazio temporale si consumano gli eventi – piccoli ma basilari – che coinvolgono due persone: due donne, cardini da sempre delle famiglie latinoamericane, nelle quali l’uomo spesso scompare. “Non importa quello che ti racconteranno, noi donne resteremo sempre sole”, dice Sofia a Cleo, dopo essere stata lasciata dal marito.
Roma racconta due abbandoni: il primo all’interno della famiglia borghese, che vede un marito lasciare moglie e figli, mentre il secondo riguarda la domestica Cleo, che aspetta un figlio da Fermin, ma il ragazzo non vuole assumersi nessuna responsabilità. In questo quadro di eventi Cuarón costruisce uno spaccato di società messicana anni Settanta suggestivo e credibile, tra violenze e scontri di piazza, scioperi e contestazioni. Non solo, risulta ben impaginata anche la piccola storia di vita quotidiana che lega la domestica alla famiglia borghese, il suo amore (ricambiato) per i figli dei padroni, la sua paura di crescere una figlia da sola e il timore (ingiustificato) di un licenziamento. Cuarón descrive molto bene anche il dramma borghese della separazione, i figli sconvolti dalla decisione del padre (“Ma allora non ci vuole più bene!”, dirà uno dei bambini), la madre coraggio latinoamericana che decide di rimettersi in gioco e di affrontare la nuova vita insieme ai figli, perché sarà una bella avventura.
Vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero (oltre che per la miglior regia e la miglior fotografia), Roma è cinema puro, girato in uno splendido bianco e nero che rende a dovere il periodo storico dell’ambientazione, con una fotografia livida e intensa, un montaggio compassato e una colonna sonora suadente a base di boleri latinoamericani. Tecnica di regia ai massimi livelli, uso del piano sequenza come strumento narrativo secondo la lezione dei più grandi, da Bergman ad Antonioni, senza strafare ma scegliendo sempre l’inquadratura più insolita e originale. Alcune scene vedono addirittura più spaccati di vita in un solo frammento: una parte dello schermo mostra un bambino che gioca con un cane, un’altra la nonna che spazza la sala, e via di questo passo.
La genialità del regista si nota sin dalle prime sequenze, quando l’incipit prende il via dall’acqua che scorre mentre la domestica sta pulendo il patio della casa, quindi la macchina da presa stacca verso l’alto per mostrare la vita della famiglia borghese. Molti altri tocchi di genio si apprezzano a ogni inquadratura, come la soggettiva dell’auto diretta verso il mare, tra spiagge e palme, dove Sofia comunicherà ai figli la decisione di vivere senza il padre.
Cuarón presta grande attenzione ai particolari, alla vita delle strade del quartiere, riprende i panni tesi ad asciugare, rende viva l’esistenza delle persone, narra gli scontri di piazza – il tutto con stringente realismo. La storia di due donne come simbolo della vita di molte donne latinoamericane, unite da identico destino, costrette ad affrontare la vita contando solo sulle proprie forze. Imperdibile.