Detenuto in attesa di giudizio è una pellicola che non possiamo definire commedia all’italiana, perché i risvolti tragici sono molto accentuati, direi quasi preponderanti nell’economia della sceneggiatura. Alberto Sordi interpreta uno dei suoi personaggi più sofferti e macerati, distrutto psicologicamente da una macchina burocratica che rasenta l’assurdo.
Giuseppe Di Noi è un geometra che per lavoro si è trasferito in Svezia, manda avanti una ditta edile composta da connazionali, si è sposato con una ragazza del posto e ha due figli. Un giorno decide di fare una vacanza in Italia, ma l’entusiasmo di rivedere la vecchia patria si stempera, dopo una citazione petrarchesca (Bella Italia / amate sponde / pur vi torno a riveder…). Metaforico il tunnel che si chiude alle spalle di Sordi, perché rappresenta il baratro in cui sprofonda il protagonista. Appena arrivato alla frontiera, infatti, viene fermato per accertamenti dalla polizia. Nessuno gli comunica il motivo dell’arresto, ma il geometra viene schedato e internato prima a San Vittore, poi a Regina Coeli e infine a Sagunto.
Nanni Loy realizza un on the road carcerario, credibile e realistico, tra detenuti tradotti in treno, esposti al pubblico ludibrio, internati in condizioni di assoluta carenza di igiene e di diritti umani. Vediamo Giuseppe dormire nudo, con la luce accesa, mangiare schifezze elargite con arroganza e usare un bugliolo per defecare.
L’accusa finalmente si concretizza: omicidio colposo e preterintenzionale, ai danni di una persona che il geometra non conosce; solo nel finale comprenderà che tutto è dovuto a un ponte da lui progettato, crollato quand’era residente in Svezia.
La carcerazione preventiva del geometra è interminabile: deve assistere al suicidio di un compagno di sventura, persino a una rivolta carceraria, e rischia di essere sodomizzato da feroci carcerati. Sordi è bravissimo a interpretare un disgraziato che impazzisce giorno dopo giorno, perché “niente è semplice quando hai a che fare con la giustizia”, come ammonisce un carcerato.
La macchina da presa si muove nervosa e frenetica; Loy, con piglio da documentarista, cattura immagini rapide, mosse, ispirate a un crudo realismo. Un crescendo di orrore, sottolineato da una musica gelida, porta il regista a calcare la mano sul grottesco, ma la denuncia risulta efficace senza far perdere spettacolarità al film.
Le motivazioni dell’arresto del geometra sono un po’ superficiali, la parte in cui si spiegano i motivi della carcerazione preventiva non è giustificata benissimo, ma il tono di fondo – pur sempre da commedia – porta a giustificare le scelte di sceneggiatura. Alla fine quel che resta impresso è il volto di un uomo distrutto, in preda a una crisi di nervi, incapace persino di firmare e di accendersi una sigaretta.
Fotografia a colori di Sergio D’Offizi, molto scura, che si accende solo per riprendere i colori del sud e durante le immagini iniziali di Stoccolma. Struggente colonna sonora di Carlo Rustichelli, che accompagna con tono cupo e drammatico la discesa negli inferi del protagonista.
Lino Banfi è un direttore del carcere da macchietta, Michele Gammino interpreta un anonimo prete e Tano Cimarosa un secondino intransigente. Mario Brega si intravede per un istante nella cella degli ergastolani che vorrebbero approfittare del neo-recluso. La moglie del protagonista è l’attrice tedesca Elga Andersen (alias Elga Hymen, nota anche come cantante, produttrice e modella, ed è attiva soprattutto nel cinema francese), molto bella ma ininfluente nell’economia di un film basato su uno straordinario Alberto Sordi. Mario Pisu è il medico dell’ospedale psichiatrico dove il protagonista viene internato per curare la nevrosi provocata dal terribile malinteso.
Il film è un atto di accusa politico a un istituto barbaro come la carcerazione preventiva, girato con taglio documentaristico e stile realistico e grottesco, per denunciare i trattamenti contrari al senso di umanità nei confronti dei detenuti. La vita nelle patrie galere è stigmatizzata a dovere: totale assenza di privacy, condizioni igieniche precarie, proibizioni assurde (non rispondere al prete durante la messa), ora d’aria trascorsa in angusti angoli di cortile. Sordi realizza una maschera disperata e dolente di uomo ridotto in frantumi da un meccanismo che lo travolge.
Film di denuncia con il punto di forza costituito dall’intensa interpretazione tragica di Sordi, che in un finale grottesco sogna di scappare dalle mani della polizia italiana ma viene falciato a colpi di mitra. Per fortuna è soltanto un incubo: il geometra Giuseppe Di Noi può tornare in Svezia e probabilmente non metterà più piede in Italia.
Detenuto in attesa di giudizio è un film utile ai fini della riforma carceraria e serve a incentivare una legge sui limiti della carcerazione preventiva. Procura fastidi e polemiche al regista, accusato di eccessivo disfattismo e di caduta nel grottesco.
Uno dei lavori memorabili interpretati da Alberto Sordi. Il cognome del protagonista, Di Noi, è un riferimento voluto al fatto che una vicenda simile – con la legge italiana – potrebbe capitare a ciascuno di noi.
Le scene ambientate nel carcere immaginario di Sagunto (località spagnola, in Italia non esiste) sono girate nel vero carcere di Procida e il personaggio di Lino Banfi è ispirato alle fattezze e alle movenze del vero direttore del penitenziario. Alcune scene sono state girate in Toscana, per la precisione a Porto Santo Stefano, sul Monte Argentario e all’Isola del Giglio, quando assistiamo a un trasferimento di detenuti con successivo imbarco.
Primo ruolo interamente drammatico per Sordi, che vince l’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 1972. Tra l’altro pare che lo stesso Sordi – insieme al fido sceneggiatore Sonego – abbia avuto l’idea per il film, quando lesse Operazione Montecristo, un soggetto inedito scritto in carcere da Lelio Luttazzi, vittima di un errore giudiziario. Emilio Sanna nello stesso periodo realizza l’inchiesta televisiva Verso il carcere, che sta alla base della pellicola.
Rassegna critica. Paolo Mereghetti (tre stelle): “Il film denuncia l’inferno delle carceri e i soprusi del sistema giudiziario. La maschera di Sordi, vittima innocente e vanamente fiduciosa, si piega a un umorismo disperato (Fava) che riesce a suscitare pathos e indignazione. La regia è efficace nel disegnare i personaggi e non ha paura di sgradevolezze. Da confrontare con il coevo L’istruttoria è chiusa: dimentichi (di Damiano Damiani, nda)”. Morando Morandini (tre stelle di critica e pubblico): “Passano gli anni ma questo grottesco carcerato mantiene intatta tutta la sua forza di denuncia polemica, nonostante il bozzettismo di fondo. Sordi in gran forma. Amarissimo”. Pino Farinotti conferma le tre stelle, ma non fornisce alcuna motivazione.