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Una banda di ragazzi che girano su una fiammante Mercedes rapiscono un uomo all’uscita di un porno-shop e lo portano nei sotterranei di una vecchia fabbrica abbandonata, dove vive uno di loro, Luca. Inizia così una lunga notte fatta di sesso e violenza, dove le sevizie perpetrate alla vittima si sovrappongono a flash-back di ricordi dei protagonisti: scopriamo che ognuno dei ragazzi implicati ha una vita travagliata -chi vive con la nonna e lavora all’obitorio, chi ha un figlio piccolo che ha appena abbandonato sul ciglio di una strada con moglie e cognata, chi si fa mantenere da un amico del padre e litiga con la vicina di casa; ed infine c’è Luca, vero deus ex machina, che ha una storia fatta di violenza incontrollata in famiglia e tenerezza sentimentale trattenuta, ma che soprattutto, a differenza degli altri, ha una motivazione. E sarà questo suo terribile segreto a far precipitare gli eventi verso un finale tragico.

Con l’adattamento della sua omonima commedia teatrale, svolto con la collaborazione di Alessandra La Capria, Luciano Melchionna, apprezzato autore e attore teatrale romano, fa il suo esordio dietro la macchina da presa. Rimane poco della pièce teatrale da cui il film è tratto: i personaggi, certamente, l’ambiente, e qualche frase; ma quel che c’è in più cataloga questo film come una delle più interessanti opere della cinematografia italiana anni Novanta, anche se sciaguratamente ostracizzato dalla solita miope distribuzione.

Melchionna parte dalla genesi della violenza per riflettere su come alcuni giovani di estrazione sociale diversissima possano unirsi avendo come unico comun denominatore la distruzione. La sua analisi, come l’approccio kubrickiano da cui parte l’assunto (i citazionismi di “Arancia meccanica”, ancorché coerenti con il personaggio che ne fa uso, sono forse l’unica nota stonata di tutto il film) è lucida e spietata, e ha il pregio di non essere né moralista né consolatoria: se è vero, infatti, che le situazioni familiari, con le loro sottili ipocrisie e le loro celate falsità, stanno alla base del comportamento aggressivo (splendido, in questo senso, il “tranche de vie” familiare del capo-banda, figlio di un noto divo televisivo), è vero anche che vi è in esso una buona dose di decisione autonoma, che prescinde dal proprio personale passato, tendendo anzi a trovare in esso un’autogiustificazione. E in questo senso il personaggio di Luca, con la sua ricerca di un’altra verità, con il suo ostinato scontrarsi con una realtà che non accetta ma che vuole fare in qualche modo sua attraverso l’energia dei sentimenti, si erge come una figura emblematica che ha la forza di un ammonimento morale. Così, grazie a un incipit che ci porta immediatamente in medias res e ad un montaggio non lineare che ci fa scoprire man mano le vicende dei singoli personaggi, il film riesce ad evitare di essere una stolida rappresentazione di disagio suburbano giovanile, per diventare un commovente apologo sulla necessità e la possibilità di una scelta di vita normale.

Virtuosismi a parte (la macchina da presa ruota con eleganza intorno ai corpi degli attori, e mirabile è lo splendido movimento finale che abbraccia in una sola inquadratura tutti gli attori del film), nulla di tutto questo potrebbe peraltro essere vero, se non grazie all’ottimo contributo degli attori, che donano luce ai propri personaggi, difficili e tormentati, con naturalezza disarmante; e se questo poteva essere tutto sommato immaginabile dal gruppo di giovani attori teatrali scelti da Melchionna, meno sicurezza davano invece la scelta di Loretta Goggi (che offre invece una straordinaria interpretazione di una madre tragicamente in crisi) e della modella israeliana Moran Atias (più che convincente nel ruolo di una giovane sfruttata). Scommessa vinta, dunque. E visione non solo consigliata, ma oseremmo dire persino necessaria.