The Cure – Disintegration

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1937

L’anno è il 1989. Quando il decennio dell’edonismo e del riflusso sta per concludersi, i sogni di libertà sembrano in procinto di realizzarsi con la caduta del Muro e gli alfieri della new wave stanno mettendo pancia. I Cure, dopo le incertezze iniziali, sono finalmente riusciti a ottenere un successo planetario, ma a Robert Smith, leader carismatico del gruppo nonché autore di testi e musica, questo non basta: vuole scolpire sulle colonne del tempio della musica il proprio capolavoro.

Estromette dalla band il batterista Lol Tolhurst, ormai alle soglie dell’alcolismo più sfrenato, e con la restante formazione dà alle stampe Disintegration. Dopo la dance di Japanese whispers, la psichedelia di The top, il pop di The head on the door e le schitarrate di Kiss me kiss me kiss me, ascoltare Plainsong, brano con cui inizia la loro nuova fatica, è come ritornare nella culla dove si è sguazzati da piccoli: una tastiera eterea, fantasie sonore in minore, una voce che viene da una caverna colma di cupa malinconia; insomma, l’essenza stessa del movimento dark di cui i Cure furono alfieri. “Credo sia buio, e sembra che piova, e il vento soffia come se fosse la fine del mondo”, canta placida e morbosa la voce di Smith, riportandoci in un mondo dove non vi è riconciliazione e anticipando le lacerazioni degli anni a venire.

Subito dopo appare la seconda anima del suono Cure, Pictures of you, perfetta canzone pop dove l’amore fa rima con dolore. Potrebbe perfino bastare, ma naturalmente non è così. Si prosegue con la cavalcata immaginifica di Disintegration, dove il basso di Simon Gallup troneggia gigantesco, con l’alchimia compiuta di Lovesong, inno all’amore nonostante tutto (“Anche se sarò distante, ti amerò sempre, qualsiasi cosa io dica, ti amerò per sempre”), quintessenza dell’anima lacerata fra sogno e realtà, e con la tetra ninna-nanna di Lullaby, inno dark nel testo e nel cuore grazie a una chitarra deliziosamente horror.

Disintegration è un Robert Smith pieno di incertezze, diventato suo malgrado un’icona per milioni di giovani, che si guarda indietro e vede il meraviglioso deserto da cui proviene; che si guarda avanti e vede solo le bottiglie rotte di una festa insensata; che si guarda dentro e vede il nulla. E che decide di urlarlo, questo niente che possiede, per far arrivare all’universo intero, almeno, l’orrore esistenzialista di una vita senza presente. Una pietra tombale sull’ultimo decennio in cui i giovani hanno provato a gridare al mondo la propria inquietudine inventando suoni nuovi, ma reali, che la registrassero. Dopo ciò, il diluvio.

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