Fabrizio De André – Storia di un impiegato

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Storia di un impiegato, sesto disco di Fabrizio De André registrato in studio, scritto con Giuseppe Bentivoglio e Nicola Piovani, appare nel 1973. Come in altri album di De André, le nove tracce che lo compongono sono legate da un filo narrativo, quasi come capitoli di un romanzo.

Il protagonista è un impiegato trentenne che ascolta, cinque anni dopo, una canzone del maggio francese (Canzone del maggio, molto liberamente tratta da Chacun de vous est concerné, dell’anarchiste parigina Dominique Grange). La canzone è una dura accusa al conformismo borghese di chi, mentre la lotta infuriava, se ne è rimasto chiuso in casa, nell’attesa che il temporale passasse. L’impiegato rimane profondamente scosso, e, in La bomba in testa, si domanda come sia possibile che dei ragazzi, poco più giovani di lui, abbiano scelto la rischiosa strada della rivolta. La sua accettazione, per quanto passiva, di ogni convenzione, gli impedisce però di aderire totalmente alla rivolta. A trent’anni, si ha già molto più da perdere che a venti: non c’è più spazio per il “coraggio insieme”, ma solo per quella paura istintiva che può spingere a tutto. La sua sarà quindi una vendetta individualista, un gesto che dovrà liberarlo da tutte le consuetudini che ingabbiano la sua esistenza. Poi,la sua presa di coscienza scivola nel sogno.

L’impiegato si autoinvita a un ballo mascherato, dove danzano insieme tutti i falsi miti della cultura borghese. Qui, la sua bomba è profondamente democratica, lacera tutto e tutti allo stesso modo: Cristo – non più quello schiettamente umano della Buona novella, ma quello ormai arruolato e addomesticato da secoli di gerarchia religiosa – associato a Nobel e ridotto a simbolo di pietismo ipocrita, la Madonna e Dante, la Pietà e la Statua della libertà, e poi il padre e la madre, simboli consacrati della famiglia borghese; la liberazione è totale, e deve farne le spese anche l’amico che gli ha insegnato la ribellione.

Davanti a un giudice, l’impiegato apprende di  essere stato sempre sorvegliato, e che quindi la sua onirica rivolta è stata possibile in quanto funzionale al potere: gli ha permesso di rinnovarsi e quindi di perpetuarsi. Il sogno si conclude con il rivoluzionario mancato che si identifica con suo padre, il più potente dei simboli che pensava di aver distrutto, ma che si dimostra insopprimibile, come i valori che incarna e le frustrazioni che, tramandandosi di generazione in generazione, il figlio erediterà dal padre. Rifiutando questa mimesi, l’impiegato porta la sua ribellione al di fuori del sogno e, rivolgendosi al giudice, lancia la sua sfida al potere: “Vostro onore, sei un figlio di troia, mi sveglio ancora e mi sveglio sudato, ora aspettami fuori dal sogno, ci vedremo davvero, io ricomincio da capo”.

L’impiegato è ormai diventato Il bombarolo, e ha scelto il proprio bersaglio: quale obiettivo migliore del Parlamento, per un attacco al potere? Con lucida ebbrezza scaglia la sua bomba, mentre inveisce contro il potere, i suoi scagnozzi e i suoi servi; ma la sua perizia di dinamitardo è reale solo in sogno, e l’ordigno conclude la sua goffa parabola facendo esplodere un’edicola. Il fallimento gli appare lampante quando, tra i detriti dell’esplosione, scorge quello che sarà: l’immagine costernata della sua ragazza sulle pagine dei giornali, unita nella notizia, ma lontana dal ridicolo di cui lui si è coperto.

Saranno la prigione, il vedere la sua donna abbandonarlo e barattare sé stessa in cambio di meschine certezze, e la vita da carcerato, che gli insegneranno di essere un uguale tra gli uguali, e lo porteranno alla maturazione. Adesso, finalmente, il noi si sostituisce all’io, come nel canto degli studenti parigini, e la lotta contro il potere, ora incarnato dai secondini, da individualistica e sterile – e quindi destinata, a prescindere, alla sconfitta – si fa collettiva.
La crescita interiore dell’impiegato costituisce un messaggio senza tempo: solo impegnandosi per il bene comune si può realmente sperare di giungere a un cambiamento. Una lezione che i trentenni di adesso dovrebbero apprendere dai “cuccioli del maggio” che, oggi come allora, stanno lottando “così come si gioca”.

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