William Shakespeare – Amleto

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Una tragedia intramontabile e universale

Scritto intorno al 1600, Amleto di William Shakespeare non è solo una delle opere teatrali più celebri e rappresentate al mondo, ma anche un capolavoro che ha profondamente influenzato la letteratura, la filosofia e la narrativa moderna. Attraverso l’ambientazione cupa e il protagonista tormentato, il Bardo indaga il senso della nostra esistenza terrena, la natura del potere e le dinamiche della vendetta, mettendo in scena uno specchio fedele delle nostre inquietudini umane.
La vicenda ruota attorno al principe di Danimarca, Amleto, la cui vita viene sconvolta dalla scoperta dell’assassinio del padre, compiuto dallo zio Claudio, che ne ha usurpato il trono e sposato la madre Gertrude. Il fantasma del re defunto ordina ad Amleto di vendicarlo, gettandolo in un vortice di dubbi, follia (apparente o reale) e riflessioni esistenziali che culminano, dopo una serie di disavventure, in una tragedia totale[1].

Il personaggio di Amleto è spesso considerato il primo grande esempio di antieroe della letteratura occidentale. Non incarna, infatti, l’eroe tradizionale: è indeciso, profondamente inquieto e consapevole dei propri limiti. La sua figura sfugge alle rigide dicotomie di bene e male, il che lo rende un personaggio complesso e profondamente umano.
Diversamente dagli eroi epici, mossi da una volontà ferrea e da valori certi, Amleto riflette sulla sua stessa incapacità di agire: «Essere o non essere, questo è il problema». Il celeberrimo monologo è una delle massime espressioni dell’ambiguità esistenziale: Amleto oscilla tra l’azione e la contemplazione, tra il desiderio di vendetta e il dubbio morale, incarnando il conflitto interiore che caratterizzerà molti antieroi successivi, da Raskol’nikov a Gatsby, da Lady Susan all’Ulisse di Joyce.

Sul piano narratologico, Amleto offre un chiaro esempio dello schema in tre tempi, che Shakespeare utilizza in modo magistrale (non si sa se consapevolmente) per costruire la tensione drammatica:
Esposizione e conflitto iniziale: Amleto scopre l’omicidio del padre e deve decidere se e come vendicarlo. Il conflitto principale non è solo esterno (Amleto contro Claudio), ma anche interno (Amleto contro se stesso).
Complicazione: la tensione cresce con la finta follia di Amleto, la morte accidentale di Polonio e la follia di Ofelia. Ogni tentativo di soluzione fallisce, e la situazione precipita verso una spirale di caos.
Risoluzione tragica: il duello finale, la morte di tutti i protagonisti principali e l’ascesa di Fortebraccio al trono rappresentano il momento culminante e la conclusione della vicenda.
Questa struttura ha influenzato profondamente la narrativa successiva. Si ritrova nel romanzo ottocentesco, nel cinema classico hollywoodiano e, più di recente, nelle moderne serie televisive, in cui il meccanismo del conflitto/complicazione/risoluzione è divenuto uno strumento narrativo imprescindibile.

Amleto affronta, come accennato, una serie di temi senza tempo: il senso della vita e della morte, la corruzione del potere, la follia, l’amore e il tradimento. Attraverso il suo protagonista, Shakespeare dà voce a una riflessione filosofica che anticipa il pensiero esistenzialista. La celebre domanda «Essere o non essere» diventa il simbolo di un dubbio che attraversa secoli di storia letteraria: vivere è un atto di coraggio o di follia?
Un altro tema centrale è la finzione, non solo come recita teatrale, ma come maschera sociale. Amleto finge di essere folle per perseguire i propri obiettivi, ma la finzione diventa così convincente da sembrare vera anche a lui stesso. Questo gioco di specchi tra realtà e apparenza trova espressione nel celebre dialogo con Polonio.

L’importanza di Amleto va dunque ben oltre i confini del teatro, e rimane una pietra miliare della letteratura mondiale, capace di affascinare e interrogare il pubblico di ogni epoca proprio perché non offre risposte definitive, ma invita alla riflessione e al dubbio. Ed è ben più di un dramma, collocandosi perfettamente nel genere della tragedia[2]. Come affermò Victor Hugo, Shakespeare ha inventato l’uomo moderno, e Amleto ne è l’emblema.


[1] Con l’espressione tragedia totale s’intende un’opera in cui il destino dei personaggi si compie in modo ineluttabile, conducendo a una catastrofe finale che coinvolge non solo il protagonista, ma anche il suo intero mondo. Ogni azione dei personaggi sembra spingerli verso un esito fatale, in un intreccio dominato dalla sofferenza, dalla colpa e dall’impossibilità di sfuggire a un ordine superiore, che sia il fato, una legge divina o un meccanismo di vendetta e punizione. In questo senso, Amleto è una tragedia totale, poiché la conclusione è segnata dalla morte di quasi tutti i protagonisti e dalla rovina dell’intera corte danese.
[2] La differenza tra tragedia e dramma risiede principalmente nella funzione e negli esiti dell’opera.
Nella tragedia, il protagonista affronta un conflitto insuperabile, spesso legato a forze superiori (il destino, il divino, l’ordine cosmico) e a una sua colpa tragica (dal (ἁμαρτία, hamartía, che significa “errore” o “mancanza”, termine che, nel contesto della tragedia greca e della teoria drammatica, è usato per indicare il difetto fatale o l’errore di giudizio di un personaggio, tipicamente l’eroe tragico, appunto), che lo conduce inevitabilmente alla rovina. Il finale tragico è necessario e non evitabile, e la sofferenza del protagonista ha una valenza universale. In Amleto, il principe è prigioniero di un meccanismo che non può controllare: il desiderio di vendetta, il tradimento familiare e le sue stesse riflessioni esistenziali. La sua incapacità di agire al momento giusto lo condanna, portando a una catastrofe inevitabile.
Il dramma, invece, rappresenta situazioni umane conflittuali che potrebbero risolversi in vari modi, non necessariamente tragici. L’esito, sebbene possa essere doloroso, non è obbligatoriamente segnato dal destino. Inoltre, nel dramma il conflitto è spesso più realistico e legato a problematiche sociali o psicologiche, senza l’intervento di forze superiori che determinano la sorte del protagonista. Un esempio di dramma potrebbe essere Casa di bambola di Ibsen, in cui il conflitto si sviluppa tutto all’interno della sfera familiare e sociale.
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Heiko H. Caimi, classe 1968, è scrittore, sceneggiatore, poeta e docente di scrittura narrativa. Ha collaborato come autore con gli editori Mondadori, Tranchida, Abrigliasciolta e altri. Ha insegnato presso la libreria Egea dell’Università Bocconi di Milano e diverse altre scuole, biblioteche e associazioni in Italia e in Svizzera. Dal 2013 è direttore editoriale della rivista di letterature Inkroci. È tra i fondatori e gli organizzatori della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento. ha collaborato con il notiziario "InPrimis" tenendo la rubrica "Pagine in un minuto" e con il blog della scrittrice Barbara Garlaschelli "Sdiario". Ha pubblicato il romanzo "I predestinati" (Prospero, 2019) e ha curato le antologie di racconti "Oltre il confine. Storie di migrazione" (Prospero, 2019), "Anch'io. Storie di donne al limite" (Prospero, 2021) e, insieme a Viviana E. Gabrini, "Ci sedemmo dalla parte del torto" (Prospero, 2022) e "Niente per cui uccidere" (Calibano, 2024). Svariati suoi racconti sono presenti in antologie, riviste e nel web.

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