Olivier Adam – Scogliera

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Da dove nasca un romanzo, se dalla realtà o dalla finzione, ai fini del romanzo stesso poco importa. Se il romanzo funziona, funziona: non è quello che accade, ma come è stato scritto.

Quello di Olivier Adam è un romanzo che si potrebbe giudicare per punti a favore e punti a sfavore, (perché, se da una parte delude, dall’altra invece coinvolge, come in precedenza i suoi racconti).

Inizio con i punti a sfavore.

La disperazione, la morte, la sofferenza sono troppo presenti. Bagnano ogni foglio, rendendolo pesante perfino da girare. In centocinquanta pagine si suicidano tre persone care al protagonista: la madre, il cui suicidio darà inizio a conseguenze disastrose della sua vita; Nicolas, uno dei migliori amici di suo fratello Antoine, e Lèa, una delle donne di cui si innamora. Tutti gli altri protagonisti annegano nell’alcool, vengono consumati da tumori nel silenzio e nella solitudine, rischiano di morire di anoressia. Solo per citarne alcuni. Ora, io non sono affatto per il lieto fine e l’allegria forzata, amo Carver e le sue short stories depressive, ma qui la concentrazione di fantasmi –ciò che realmente sono nel romanzo- è forse eccessiva e appare un filino forzata. È una lunga lista di lapidi. Molto lunga per un ragazzo di trentun anni. Anche la realtà –se di realtà si tratta- risulta troppo pesante se concentrata in centocinquanta pagine.

Alcuni personaggi secondari sono costruiti secondo cliché fin troppo evidenti, come Nicholas o Lorette. E la morte di Lèa è quello che Carver definirebbe un trucchetto da quattro soldi. Olivier Adam nomina la sua morte sin dai primi capitoli e ce la ripropone spesso, senza accennare ad altro se non al nome del defunto, cercando così di creare tensione per incollare il lettore alle pagine spingendolo a chiedersi: chi è Lèa? Come sarà morta? Solo negli ultimi capitoli ci dice chi è e che cosa è accaduto. Ma si gioca tutto in poche pagine, senza spiegarcene fino in fondo l’importanza, se ce ne è una. Il trucco del mago è svelato, si vede lo specchio e la magia… beh, non è più magia. Peccato.

Inoltre inserisce in quasi tutti i capitoli elenchi infiniti. In particolare, il capitolo su Lorette è quasi un album fotografico: uno scatto dietro l’altro. La cosa andrebbe centellinata, ma Olivier Adam se ne approfitta, spezzando la prosa fin troppe volte e rendendola una di quelle danze “robotiche” che andavano tanto di moda negli anni ottanta. Stona con la sua particolare voce malinconica, che avrebbe bisogno di più descrizioni, di una prosa maggiormente rilassata e di meno… elenchi.

Dall’altra parte dello specchio giocano invece alcuni punti a favore.

A tratti usa belle immagini e le descrizioni del mare, delle scogliere, della moglie e della figlia, che giacciono addormentate l’una accanto all’altra, sono dolci, calde e sincere. Ci sono frasi che colpiscono: “il sole che gli morde la guancia” mentre dorme in auto, o la figura della nonna che “affiora e si stende su tutto come un balsamo”. Solo per citarne alcune.

I sentimenti per Claire –la moglie- e per Chloè –la figlia- sono puri, onesti, espressi senza eccessivi sentimentalismi, e rende i due personaggi reali e vividi, sebbene stiano dietro il palco per tutto il tempo.

Quella di Olivier Adam è una voce  profonda e stanca, ma che sembra capace di raccontare ancora mille storie prima di dormire. Una voce che è un abbraccio. E una voce che vorresti abbracciare.

La trama in sé, l’idea di ripercorrere l’ infanzia e l’adolescenza attraverso i propri fantasmi, che talvolta si vedono davvero (come quello della madre), è molto buona. Ne esce un romanzo-ricordo, che si spalma sul presente e influenza il futuro. Ponendo domande che nascono dal profondo: come ho fatto a sopravvivere? Come ho fatto a rimarne sempre in equilibrio e non cadere tanto da uccidermi?

L’ultimo capitolo è molto appassionato e, grazie anche all’anafora, fa chiudere le pagine con un certo dispiacere. Ma resta in bocca un sensazione strana, indefinita. Come qualcosa di gustoso che è stato mal cucinato.