Silvia Accorrà – Mongolia

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«Perché quando diciamo troppe a, e, oppure o nella stessa frase stiamo chiaramente parlando di una femmina. Oppure, se combiniamo le o con le e e i diversi gradi di u, insomma… in quel caso è chiaramente un maschio».

La fisso senza capire bene che cosa mi voglia dire. La domanda che mi sorge spontanea è: «Avete anche neutri?».

«Certo. Le i».

Era una domanda legittima, anche se in natura il neutro non sempre si dà. Quindi anche lei, forse, avrebbe potuto rispondermi con meno naturalezza e maggior sorpresa. Per cambiare argomento, tuttavia, le offro qualcosa da mangiare. Frugo nella borsa che ho portato apposta per lei e ne traggo una manciata di grilli e locuste disseccati. Si avvicina senza diffidenza, raccoglie il suo spuntino.

«Grazie», dice fra una beccata e l’altra.

«Prego».

Ci guardiamo intorno – spazio a perdita d’occhio. Steppa e sassi, e un sole implacabile che fa poco per scaldare. Il vento è forte. Le chiedo se sia spesso sola.

«Per lo più sì – risponde – tranne per l’accoppiamento, in primavera. Abbiamo un richiamo, sai. Una danza molto articolata».

Assento con un cenno. Guardo le sue lunghe, forti zampe color cenere. Il piumaggio mimetico, quasi anonimo. Mi fa pensare che corra molto, quando si trova in queste regioni. Prima di migrare.

«Ti muovi molto a terra?».

«Sì. Ad esempio dobbiamo scavare il nido, perché qui non ci sono alberi. Ma nemmeno più a sud troviamo molta vegetazione».

E ancora torna presente, fortissimo, il paesaggio lunare, tranne che per i colori, che sono violenti.

«Dimmi ancora qualcosa della vostra lingua».

Mi guarda di lato – come tutte le grandi ubare fanno – con il suo occhio chiaro, come se di nuovo avessi espresso qualcosa di molto strano. Mi interessa la sua lingua, quello strano intrecciarsi di consonanti che non sembra aver spazio per le vocali, proprio come questa terra sembra non aver spazio per la vita; e invece.

«Non abbiamo le parti piccole delle parole come alcuni di voi umani. Abbiamo le parole intere, lunghe, e queste cambiano a seconda del luogo, del tempo, dello scopo. Una sola, lunga parola potrebbe descrivere bene questo paesaggio, per esempio».

Alza il capo come se cercasse qualcosa nell’aria, ma è un gesto di indicazione. La guardo aspettando che prosegua, ma non lo fa.

«È agglutinante, vuoi dire?».

«?».

Faccio cenno di lasciar perdere. Lei guarda l’orizzonte e il cielo profondo. Volerà via prima che l’inverno scenda cattivo. Mi alzo e scuoto via la polvere dai pantaloni. Le a e le e sono femminili, quindi mi pare proprio di aver capito definitivamente che lei sia femmina.

«Fai attenzione al deserto» mi dice.

«Anche tu».

Lei dispiega le ali e le scuote, in segno di saluto.

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Silvia Accorrà è poeta, narratrice, fotografa. Ha pubblicato tre sillogi di poesia, "Mezzoforte" (Cultura Duemila, 1991), "Pesce di terra" (Lietocolle, 1995), "Città non nostre" (Libreria Croce, 2007) e due raccolte di racconti, "Rosso nucleare" (Atì 2008) ed "Entropie" (Calibano, 2023). Ha pubblicato una trilogia di romanzi di ambientazione giapponese, "Tokyo Love" (Damiani, 2014), "Hikari" (Prospero, 2017) e "Pareti sottili" (Prospero, 2019). Ha inoltre partecipato ad alcune antologie poetiche e narrative. Ha avuto una personale di fotografia nel 2006, una nel 2010 e una nel 2018. Lavora principalmente come traduttrice, ma anche come insegnante di lingua. Vive a Milano dalla nascita (1969), ma il suo cuore è altrove.