John Cheever – Falconer

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Farragut viene condannato a scontare una condanna per fratricidio nella prigione di Falconer: la vita carceraria, dove tutto sembra andare in modo diverso al punto da far dimenticare ai detenuti i loro contatti con l’esterno, lo trasforma pian piano, in maniera inesorabile, in un altro uomo.

John Cheever racconta la vita carceraria non con l’intento, comune ad altre storie analoghe, di descrivere un percorso di pentimento o di presa di coscienza sociale; piuttosto con la volontà di analizzare i meccanismi implacabili che lentamente trasformano la psiche umana fino a modificarne la percezione del tempo e dello spazio, nel momento in cui si trova confinata senza alcuna possibilità d’uscita. L’autore non si sofferma a indagare la colpevolezza o l’innocenza del protagonista, che ai fini della narrazione è ininfluente: non vi viene fatto altro che qualche accenno; analogamente vengono sommariamente raccontate le vicissitudini degli altri detenuti, che ci appaiono come tutti ugualmente tagliati fuori dalla vita reale e condannati a vivere in un limbo nel quale ogni cosa, dai ritmi biologici ai sentimenti, è sovvertita e appare irrimediabilmente lontana, incoerente come la sequenza di un sogno.
Nella sua accurata descrizione della vita carceraria, Cheever analizza il concetto di prigione al di là del suo significato giuridico presentandolo, invece, come una condizione umana alienante e disperata, e lo fa senza ricorrere al consueto elenco di luoghi comuni che caratterizza solitamente questo tipo di racconti, fatta eccezione per una discussa scena che fece scalpore nell’America degli anni Settanta.
Lo stile è preciso, sorvegliato e privo di pietismi o scene melodrammatiche; scelta che conferisce al racconto una notevole potenza letteraria, articolandosi in una lunga e affascinate galleria di ritratti umani, attraverso i quali l’autore riesce sapientemente a far emergere il proprio messaggio.

Una lettura per far discutere sotto molteplici punti di vista, da scoprire o riscoprire.

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