Lavoro vivo

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Proporsi di raccontare il mondo del lavoro, quello reale, vivo, vissuto giorno dopo giorno da chi lo fa o lo subisce, attraverso dieci racconti di autori diversi, è un’impresa coraggiosa e quasi disperata.

Eppure questo libro, nato da un’idea del compianto Stefano Tassinari insieme alla FIOM di Bologna, ci riesce pienamente. Il che dimostra come autori diversissimi tra loro possano avere un terreno comune e lavorarci, ognuno nel chiuso della propria stanza, con una perfetta sintonia.

Ne esce un mosaico che, pur raccontando storie differenti, e collocate in epoche diverse, compone un romanzo sul lavoro di impagabile valore.
“Giungla d’appalto”, di Gianfranco Bettin, è un racconto amarissimo sui malaffari condotti da ditte specchiate e autorevoli al porto di Marghera, scritto da un autore ben documentato (ha pubblicato tra l’altro “Petrolkimiko. Le voci e le storie si un crimine di pace”) e nato proprio a Porto Marghera. Un pugno nello stomaco, ma ancora dolce rispetto alle storie che seguono.
Drammatica e senza scampo, la scrittura finissima di Giuseppe Ciarallo scava, in “Eqquessaè”, in un passato non così lontano come gli anni Sessanta per ricomporre la lunga scia dello sfruttamento in fabbrica, “dove si moriva, ci si ammalava, ci si infortunava, e dalla quale si veniva sbattuti fuori appena non servivi più”. L’autore abbandona la graffiante ironia che lo contraddistingue per immergersi completamente nell’atmosfera cupa delle illusioni spezzate.
New York, 1911: un incendio devasta la fabbrica della Triangle. Maria Rosa Cutrufelli, in “Fuoco a Manhattan”, racconta i fatti drammatici che portarono all’istituzione dell’8 marzo, e lo fa attraverso le vive voci di tre testimoni. Una scrittura lucida e asciutta per una narrazione drammatica ed equilibrata. Con il merito di ricordarci che l’8 marzo non è una festa dei fiori.
“Manovia” è la concitata narrazione di un operaio che fabbrica scarpe, orgoglioso del proprio lavoro. Angelo Ferracuti parte dallo sfruttamento e dalle condizioni sul lavoro per arrivare alla famosa livella di Antonio De Curtis.
“Senza buccia”, di Marcello Fois, racconta la resa al lavoro”in nero, senza garanzie, senza contratto, senza assicurazione” e la voglia, anzi la necessità, di riscatto, anche di fronte a quella maggioranza che china la testa senza ribellarsi mai e ostacolando chi lo vuole fare.
Carlo Lucarelli, in “Devo dirti una cosa”, rappresenta un classico caso di morte nei cantieri edili, una di quelle morti che ci voleva un niente ad evitare. Ma la sicurezza sul lavoro è solo una regola scritta, non praticata. E la connivenza di chi non vuole perdere il lavoro e per questo è disposto a rinunciare a qualsiasi garanzia ne rende impossibile l’applicazione.

“No Cap”, di Milena Magnani, è una storia di braccianti africani in Salento, sfruttati e ricattati dai caporali di turno; ma è soprattuto la storia di una riscossa, di come l’unione faccia la forza e di come non ci sia una sola ragione valida di abbassare la testa: si ha solo da perdere. Un racconto efficace nonostante qualche momento eccessivamente retorico.
In “Ma scrivere è un lavoro?” Giampiero Rigosi non sa rispondere alla domanda, e ci mette quindici pagine a farcelo capire. Non sa cosa scrivere, e ci spiega perché; si sente in colpa verso chi fa un lavoro manuale, e ci spiega perché; ma non arriva mai a rispondere, né sa rappresentare efficacemente la fatica, la dedizione e il sudore che richiedono lo scrivere. Viene un dubbio angoscioso: perché sprecare tante pagine per questo racconto insulso, invece di lasciare spazio ad un altro autore, che avesse qualcosa da dire?

Stefano Tassinari sa come nessun altro mettere il dito nella piaga con un racconto struggente, doloroso e mai retorico, scritto col cuore. “Il ricordo amaro di un’assenza” sa andare a fondo, con lucida amarezza, al crimine delle cosiddette morti bianche: omicidi per profitto e per negligenza. Perché è in atto una guerra, “da una parte gli aggressori e dall’altra chi è costretto soltanto a difendersi, ma a mani nude”.

Chiude la raccolta “Pezzi di ricambio”, di Massimo Viaggi, una commovente testimonianza di un operaio costretto a lavorare per anni in mezzo all’amianto. “Pensi che al centro dell’Officina c’era un posto dove lavoravano gli operai di una ditta in appalto, che dentro a una camera formata con i teloni di cellophane spruzzavano le fiancate delle carrozze di amianto in fiocchi. Sono morti tutti”.
Interessanti anche le note finali di Bruno Papignani, che narra la nascita di questa antologia e commenta ogni singolo racconto mettendoci la propria esperienza.

Un libro che, anche quando inventa, è testimonianza, che non perde quasi mai di mordente e che dovrebbe figurare in tutte le librerie di chi ha una coscienza. Ma che dovrebbe essere letto, soprattutto, da chi una coscienza non ce l’ha.

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