E arriva un giorno in cui Elias Rukla si imbatte in qualcosa di troppo universale per essere paragonato ad un’intima madeleine proustiana, e troppo socialmente impegnato per essere definito un’epifania joyciana. Fatto sta che qualcosa in lui si rompe, e davanti alla classe di cui è professore di letteratura norvegese, mentre sta spiegando L’anitra selvatica di Ibsen, si rende conto del torpore disinteressato della sua classe, e specularmente della società, e scoppia.
L’esplosione del professor Rukla lo porta per la prima volta a ripercorrere la sua vita, svelandosi così al lettore.
Egli ricorda gli anni dell’università, dell’amicizia intensa con Johan Corneliussen e dell’amore nascosto, in primis a se stesso, per la moglie dell’amico, Eva Linde.
Stretto da un’amicizia come solo quelle dei vent’anni sanno essere, totalizzante, adorante, per Johan, Elias ricorda gli interminabili dibattiti sul mondo, la filosofia, Kant e Marx, ai quali partecipava silenziosa l’incredibilmente bella Eva. Poi improvvisamente Johan parte per gli Stati Uniti, simbolo di un capitalismo sfavillante, e lascia tacitamente Elias erede di un matrimonio e tutore della figlia Camilla.
Capiamo subito che è un romanzo sulla delusione, una delusione giocata su due livelli: uno strettamente individuale (la vita personale di Elias Rukla) e uno generazionale (il crollo degli ideali della società occidentale alla fine del Novecento).
L’esplosione interiore Elias avviene infatti per fattori individuali (un amore sopito per una vita e mai portato a un vero compimento, neanche con il matrimonio, l’incapacità di spiegarsi l’addio dell’amico, l’impossibilità di trovare un compagno, un complice, qualcuno a cui comunicare afflati ideali di gioventù mai scomparsi in una vita), eppure strettamente intrecciati a fattori sociali, ultima ribellione contro la “sensazione gradualmente crescente di essere stato messo socialmente fuori gioco”.
Ci chiediamo infatti se le aspettative esistenziali di Elias siano illuse dalla società o da se stesso, e oscilliamo tra i due poli, notando come la capacità di analisi della società, l’ideale, il pensiero razionale, possano essere associati ad una profonda incapacità di vivere: Elias chiuso nel suo appartamento rimugina sulla società bevendo acquavite mentre la moglie, che non lo ama, dorme nell’altra stanza. Quale immagine migliore di questa per descrivere una vita deludente?
La sofferenza di Elias rappresenta la sofferenza del mondo: i giovani della sua generazione si sono fatti abbagliare dalle luci del capitalismo, oppure, nel caso di Johan, che rappresenta qui il mito del pensiero marxista, hanno deciso di sfruttare il sistema per abbagliare gli altri.
A Elias, solo, rimangono i detriti di un mondo che non c’è più: egli cerca di conservarne le tracce, di apprezzare i minuscoli bagliori di un paradiso perduto che crede di individuare in sguardi, in mozziconi di frasi, cerca di svolgere con dignità la nobile professione dell’insegnamento, ma si arrende, o meglio, esplode in un gesto privo di effettiva denuncia, che non servirà a niente. Si dice che: “sentiva il cervello surriscaldato, come se avesse una meningite dello spirito che poteva scoppiare da un momento all’altro […] come se fosse in attesa di un attacco, come se avesse imminente davanti a sé un violento e liberatorio conato di vomito, nell’immediato futuro, ma che non venisse mai fuori”.
E’ interessante notare che il professore ha il suo rigurgito mentre parla del personaggio del dottor Relling, che nel dramma ibseniano ha il ruolo di smascherare le costrizioni e i falsi miraggi umani, come se in un certo senso Ibsen tramite il suo personaggio avesse tolto il velo davanti agli occhi di Elias, che, grazie a lui capisce la sua personale menzogna vitale, e lancia un ultimo, impotente, grido verso il vuoto di valori che vede davanti a sé.
Dag Solstad (nato a Sandefjord, nel sud della Norvegia nel 1941) riesce perfettamente a coniugare la critica alla socialdemocrazia, venandola di un’intima malinconia, non c’è più spazio per la lotta, non c’è più spazio per il dibattito, già visti, già vissuti. C’è solo un’ammissione di sconfitta, i giovani vogliono finire in fretta le ore di lezione perché si annoiano, le donne (chissà perché poi sempre loro) desiderano avidamente lussi che non possono permettersi, persino i marxisti servono il sistema: il socialismo ha fallito.
Dag Solstad ha scritto molte opere (tra romanzi, racconti e opere teatrali) tradotte in una ventina di lingue, ed è considerato uno dei massimi autori norvegesi contemporanei. E’ stato inoltre insignito di numerosi premi, tra cui il Premio della Critica norvegese per la Letteratura per ben tre volte, e il Premio per la Letteratura del Nordisk Råd, il Consiglio nordico.