Com’è, Frank O’Hara, che sto pensando a te,
nella New York anni ’50, mentre sono a 10.668 metri sull’Europa
e il mio orologio segna le 9.05, ma non siamo più in Inghilterra?
Gli ammassi di nubi sembrano benigni. Un altro jet sta sospeso fisso
contro il cielo pallido. Fuori dai paginoni centrali,
foto dei bagni nello spurgo di Budapest.
C’è da dirlo? Non c’è notizia dei poeti in Ghana.
Non sono stato via a lungo, ma l’uomo accanto a me
sembra un cliente abituale del negozio sotto casa
che chiuse l’attività il giorno in cui noi facemmo le valigie.
O il buttafuori del bar dove andavamo a Natale,
con fumatori affacciati al davanzale del foyer
per aggirare il divieto di fumo.
Fuori da questo oblò, c’è solo il clima,
e quello, al momento, non ci appartiene.
Se fossimo sul mare, con le scie delle navi serrate
a striare il blu di bianco, forse capirei
Non può essere diverso per gli altri…
Per quanto riesca anche sentirti quando dici:
“Mostre d’arte sui voli lunghi sarebbero un’idea.
Oppure, invece di giubbotti di salvataggio, raccolte
di poesie a portata di mano sotto il sedile”.
Diretti a est, non a ovest, non saranno
le torri di Manhattan a emergere, dritte, dall’Hudson,
come fecero quarant’anni fa quando mio padre giurò che
non l’avevano mai derubato per via del suo impermeabile.
Non che essere uno qualunque sia diverso in questo senso,
mentre ancora s’apprende a vivere per archi temporali illimitati.
A questa quota, i miei timpani rifiutano d’adattarsi alla pressione.
Ma ciò che non è molto diverso dagli avvisi sulle cinture di sicurezza
è mio padre che ignora i loro moniti insistenti
per mostrarmi le distese delle Badlands sotto di noi.
Ché cose così capitavano – come quando
lui disse di voler tornare in forma di gabbiano
sicché può darsi che sia già tornato due volte –
una volta in forma di gabbiano, la seguente
in qualunque forma un gabbiano aspiri a prendere.
Traduzione di Angela D’Ambra
Testo originale
Tom Phillips – Up in the air with Frank
Why is it, Frank O’Hara, I’m thinking of you
in 1950s New York at 35,000 feet over Europe
and my watch says it’s 9.05, but we’re no longer in England?
Piled clouds look benign. Another jet hangs still
against the paling sky. Out of centrespreads,
pictures of the baths in Budapest spill.
No news on the poets in Ghana, needless to say.
I’ve not been long away, but the man beside me
sounds like a regular from the corner shop
that closed down when we were packing that day.
Or the bouncer of the bar we went to at Christmas
when smokers got round a foyer window ledge
so they could get round the smoking ban.
Outside this window there’s only weather,
and that isn’t ours right now.
If we were over the sea, furling ships’ wakes
streaking white across blue would be something.
It can’t be different for others …
Although I can also hear you saying:
‘Art shows on long flights might be an idea.
Or not lifejackets but poetry collections
to be reached for under your seat.’
Heading east, not west, the towers of Manhattan
aren’t going to emerge, bristling, from the Hudson,
as they did four decades ago when my father swore
he was never mugged because of the raincoat he wore.
Not that being anyone has changed in that sense
while still learning to live in durations unmeasured.
At this altitude, my ears refuse to adapt to the pressure.
But what’s not such a far cry from seatbelt signs
is my father ignoring their insistent warnings
to show me the Badlands unfurling below.
Because such things did occur – as did
him saying he wanted to come back as a seagull
so it’s likely he’s come back twice now –
once as a seagull and then aspires to be.