Telemaco e il tuono vicino: incontro con Giovanni Peli

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Giovanni Peli, nel suo nuovo libro di poesia Incontro al tuono vicino, ci parla del rapporto padre-figlio.
Giovanni Peli è un autore estremamente poliedrico, in quanto è scrittore sia di poesia che di prosa, sia per adulti che per bambini, ed è compositore, cantautore, autore di libretti d’opera e tanto altro. Incontro al tuono vicino è una silloge poetica curatissima e commovente, che parla, tra l’altro, del rapporto tra le figure maschili di padre e figlio. Questo tema si lega perfettamente con la tematica dei legami, e dunque, andando a scavare alle origini della poesia occidentale, con il personaggio di Telemaco, figlio si Ulisse. L’Odissea infatti, nei suoi primi quattro libri, parla di Telemaco che va alla ricerca del padre.
Abbiamo incontrato Giovanni Peli nell’ambito della rassegna letteraria itinerante Libri in Movimento, in collaborazione con l’associazione Il folle Volo di Brescia.

Le domande che ti porrò saranno ispirate anche dal libro di Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco  Recalcati dà una lettura e, soprattutto, fa domande in cui sono risuonate le mie stesse domande quando ho iniziato a pensare a Telemaco e al legame padre-figlio-figlio del figlio. Nell’Odissea Ulisse se ne va non appena Telemaco nasce. Questo aspetto dell’assenza è fondamentale: il figlio non conosce il padre fino a quando non torna da suoi viaggi, dalle sue avventure. Quindi Telemaco cresce e matura nell’assenza di Ulisse. Un’assenza che però è una presenza perché, tramite la narrazione materna, apprende molte cose sul padre. Penelope gli racconta del padre, e tesse di giorno la tela che disfa di notte: una tela materiale, ma anche il tessuto narrativo. La narrazione di Penelope fa sì che Telemaco non viva l’assenza del padre come un disinteresse, un abbandono, ma comunque una presenza significata proprio dai racconti materni.
Dunque chi è che manca, a Telemaco? Gli manca Ulisse? Come fa a mancargli? Non sa neanche chi è, non l’ha mai visto. Gli manca la figura, del padre; non l’uomo, l’affetto, ma la figura, la legge: quella legge che porta ordine, perché la presenza di Ulisse è quella che avrebbe messo, e poi di fatto metterà, ordine a Itaca, dove regnava il disordine.
Che assenza è quella di Ulisse, per Telemaco? L’assenza del padre affettuoso? Quella del padre carnale, del padre vero? Quello che, quando torna, la prima cosa che fa con il figlio è una strage? Perché appena i due si riscoprono si uniscono in un’azione comune che è la guerra: ammazzano i Proci. L’unica narrata, peraltro, poiché la storia continua oltre l’Odissea: si sa che Ulisse scapperà, abbandonerà di nuovo, e morirà oltre le Colonne d’Ercole per cercare virtute e canoscenza, ma questo ce lo dice Dante nella Commedia. Quindi Ulisse continua ad essere padre in assenza? Torna e se ne riva? A Telemaco che cosa manca?
Sono domande che ritornano leggendo Incontro al tuono vicino, perché nella prima parte, Papà, il colore degli occhi, l’io narrante è un figlio che vorrebbe ancora restare tale per un tempo indeterminato, ma che a sua volta sta diventando padre. Che cos’è Incontro al tuono vicino?
È la mia ultima raccolta di poesie, scritte negli ultimi due anni. La prima parte è interamente dedicata a mio padre, alla trasformazione del suo corpo e della sua anima nell’insorgere di una malattia e a come ho vissuto questo evento. Contemporaneamente mi è nato un figlio, sono diventato padre.
La suggestione che rimanda al titolo della prima parte della raccolta, ovvero Papà, il colore degli occhi, è dovuta al fatto che, quando ho visto per la prima volta gli occhi di mio figlio, ho visto che erano caratterizzati da quel colore-non colore indefinito che è tipico dei bambini appena nati: due occhi scurissimi tra il blu e il nero, simili a quelli di mio papà, che ha gli occhi castani molto scuri. Nelle mie poesie ritorna questo confronto di occhi, alternando quelli di mio papà e quelli di mio figlio. Gli occhi di mio figlio mi incuriosivano perché, nel loro mistero, non si sapeva che colore avrebbero assunto; quelli di mio papà, invece, per motivi opposti, perché non hanno quel mistero, quella lucentezza oscura di quando era prestante, fino a poco tempo fa.
Riguardo a Telemaco, nel primo canto dell’Odissea Telemaco dice: “Nessuno sa davvero la propria origine”. Siamo in un punto essenziale della letteratura, perché quasi tutti hanno una propria visione dei genitori, che ha bisogno di essere confermata, smentita, ritoccata e confrontata nell’arco della vita. Nonostante io, a differenza di Telemaco, abbia sempre avuto un padre molto presente, volontariamente mi autodistruggo e ricostruisco anche attraverso la poesia, per cercare la mia identità, capire chi sono, che cosa posso fare e quale sia il mio posto del mondo.
Nel sedicesimo canto dell’Odissea Ulisse torna a Itaca sotto forma di mendicante senza essere riconosciuto, a eccezione del suo cane, Argo. Nel momento in cui deve rivelare la sua identità, la dea Atena lo trasforma nell’Ulisse migliore che potesse essere, prestante, virile e pronto a combattere contro i Proci.
Ulisse subisce una doppia trasformazione, e questi cambiamenti vengono vissuti anche dal figlio che, come è successo a me con l’insorgere della malattia di mio papà, assiste alle trasformazioni del padre. Ancora una volta Telemaco non lo riconosce: non l’ha riconosciuto come mendicante, non lo riconosce quando si trasforma in una specie di divinità, anzi, gli incute timore.
Nel rileggere l’Odissea sono rimasto colpito dalla sua contemporaneità. Quando Telemaco finalmente rivede il padre per la prima volta da quando era in fasce, fatica nel riconoscerlo, ma quando finalmente Ulisse lo convince di essere proprio suo padre, i due scoppiano in lacrime per la commozione.
C’è una similitudine bellissima che racconta questa splendida scena: i due singhiozzano e le loro strilla sono talmente acute, più acute di quando tolgono i cuccioli agli uccelli marini. Trovo questi versi veramente commoventi, in grado di mostrare il lato più fragile e sensibile di due uomini ultravirili e super-performanti che stanno per combattere uno accanto all’altro.
C’è inoltre un altro verso, alla fine di questa scena, che recita: “se il porcaro non li avesse interrotti, avrebbero pianto fino al tramonto”. Anche nel mio libro c’è molta commozione e qualche lacrima esplicitata.
Nella prima parte del libro la figura di mio padre è legata alla trasformazione e, nel creare immagini poetiche, a mia volta trasformo le parole togliendo loro il significato comune. A volte mi invento anche dei paesaggi, anche un po’ mostruosi, su parti del corpo che si ingrandiscono e cambiano forma, occhi che diventano ossa e ossa che diventano candeline.
Il libro è breve ma attraverso le mie poesie parlo di tutti i miei legami più importanti: oltre a quello con mio padre, racconto anche della mia compagna e di mio figlio, che a due anni sta iniziando adesso a parlare. Inoltre affronto diversi temi, che parlano di intimità e vicinanza passando dal sesso all’amore per mio figlio e di quanto possa significare un suo semplice abbraccio.

Parli anche del tuo legame con il mare, tema ricorrente nell’Odissea.
Sì, in effetti mi sono chiesto se fossi io a scrivere cose di una banalità estrema oppure Omero a essere estremamente contemporaneo (ride, ndr). Probabilmente un buon cinquanta e cinquanta. È incredibile come l’Odissea riesca sempre a parlarci, a distanza di così tanto tempo.
Il mare lo sento molto mio: anche se mi è geograficamente lontano, ho un ricordo dolcissimo di mio papà, che non era un poeta: mi portava sempre a salutare il mare e a guardare le stelle.

Nel libro primo dell’Odissea, alla domanda che fanno a Telemaco, “Ma tu sei davvero Telemaco, il figlio di ulisse?,  lui risponde: “Di lui mi dice mia madre, ma io non lo so”.
Sì, infatti poi continua dicendo: “Nessuno conosce veramente la propria origine”. In realtà nell’Odissea molti personaggi dicono a Telemaco che è una persona molto assennata, che assomiglia a suo padre per come parla; gli altri vedono in lui, prima di lui, la sua origine, ma Telemaco avverte comunque il bisogno di partire per cercare conferme.

Quindi che cosa cerca veramente Telemaco? Cerca suo padre o cerca se stesso? Perché parte?
Probabilmente cerca entrambi, ma di sicuro il suo bisogno di partire deriva proprio dal bisogno di cercare se stesso, la sua identità.

Papà mio, la seconda poesia che appartiene alla prima sezione, Papà, il colore degli occhi, si conclude con questo verso: tu non sei più tu e io vorrei essere quel tuo io. La poesia concede questi discorsi filosofici sull’identità: secondo te in quanto padre e io narrante, l’identità è qualcosa che si fonda sui legami che instauriamo con gli altri o è qualcosa che si genera dentro di noi? O tutte e due?
L’identità l’ho sempre vista come una forma di convenzione per cui bisogna essere in un certo modo perché si viene visti come tali; come si viene visti viene da fuori, fino a quando si elaborano dei dati, all’interno di noi stessi, che a loro volta generano continui cambiamenti. L’identià è più sfuggente di quanto ci imponiamo o ci raccontano gli altri. In quel verso io non trovo più mio padre per quello che era, perché si è trasformato; e io, per non perderlo, vorrei essere la stessa persona che era mio padre, anche se questo non è più possibile, ed è qui che avviene il paradosso, perché quella cosa è totalmente perduta. Rielaboro la situazione per sopportarla, e scrivo per sopperire a tutta una serie di mancanze, comunicative e anche di formazione dell’identità.

La questione dell’identità è molto evidente anche nel racconto Them or Us, contenuto nell’antologia Oltre il confine. Storie di migrazione: ci si definisce per contrapposizione,  “noi o loro”?
Anche in quel caso il titolo è ironico: ci fanno credere che siamo completamente diversi gli uni dagli altri, ma in realtà abbiamo più cose in comune di quanto pensiamo. Infatti il testo fa riferimento al tema attuale dell’immigrazione. C’è una totale somiglianza fra mondi soltanto apparentemente contrapposti.

Sei anche un inventore di parole e di suoni; vieni aiutato, stimolato, pungolato in questo, da tuo figlio?
Si, è molto divertente vedere e sentire mio figlio che si butta a parlare. A casa abbiamo anche un glossario della lingua di Sergio, alla quale è ispirata la poesia Paroline.
In fin dei conti, il grande tema della poesia, da oltre due secoli, è nominare le cose per attribuir loro un nome più autentico, e anche più vicino alla realtà psichica del poeta rispetto al linguaggio comunemente usato. Nella poesia nominare le cose con un nome nuovo è come per il bambino quando impara a parlare e si sforza di attribuire agli oggetti dei suoni.

Come hai scelto il titolo del libro? È stata una scelta dell’editore?
Il titolo era tra i primi cinque che volevo utilizzare. Alla fine, nell’indecisione, l’ha scelto la mia compagna. All’inizio avevo preso in considerazione il titolo che alla fine ho attribuito alla prima parte, dedicata a mio padre, perché è da lì che è partita l’idea di scrivere il libro; ma poi si è evoluto attraversando tante altre trasformazioni, non solo quella di mio padre, ma anche quella di mio figlio, quella del rapporto con la mia compagna e con me stesso, con la mia identità. C’è una parte che si chiama Il vizio, che è il vizio dell’odio, dell’invidia, della meschinità, quindi parla di me stesso.
Nel finale, che fa pendant con il mare, c’è una situazione estiva dove assumo un linguaggio più leggero, in cui descrivo una situazione più serena, distaccata e ironica e dove metto in stand by tutti i timori e le situazioni più difficili di cui ho parlato prima.
Nella parte centrale metaletteraria, Gli ultimi giorni del racconto, metto in gioco me stesso come autore: ci sono dei fantasmi che ruotano intorno a me e mi pungolano chiedomi qual è il significato della scrittura. Il filo conduttore è dato dalle parole, che ritornano sempre, indifferentemente dalla situazione che descrivo, da ciò di cui parlo.
Anche la paura è un elemento forte. Tutta la raccolta è attraversata dal perturbante: anche nelle situazioni più dolci la paura del tuono persiste. Incontro al tuono vicino, addosso al nostro destino, è un invito alla vitalità la stessa che cerco di infondere a mio figlio, perché l’importante è vivere e affrontare i nostri timori. È proprio questo il messaggio che voglio lasciare con questa raccolta.

C’è qualcosa di davvero più importante della poesia?
La poesia, essendo un’arte povera per la quale bastano anche solo la mente, la matita e la carta, probabilmente no: secondo me la vita e la poesia coesistono continuamente. Non mi piace quando si scrive poesia per un editore, un critico o per vendere: in quel caso si fa letteratura. Io voglio scrivere per la passione e il bisogno di farlo; scrivo per me stesso, e a volte, se non scrivi per nessuno, in realtà scrivi per tutti.
Le sovrastrutture che si sono imparate non si perdono mai: c’è sempre una ricerca formale. Nelle mie poesie, per esempio, non metto la punteggiatura, le maiuscole, neanche il punto alla fine, perché mi piace l’idea di non dare una fine: trovo suggestiva l’idea che la poesia non finisca mai. Le maiuscole, per esempio, le ho tolte tutte, anche nei nomi propri: le uso solo all’inizio,delle poesie e in alcuni versi soltanto, perché le utilizzo in senso musicale: le lettere maiuscole guidano la lettura e la gravità delle parole. La lettera maiuscola è come un fortissimo orchestrale: l’attacco deve dare il suggerimento, anche a chi legge le poesie da solo, che la lettera maiuscola lo sia. Sono accorgimenti che, mentre leggi, ti accompagnano nell’emozione, enlal riflessione, nella rabbia eccetera che la poesia dovrebbe suscitare, suggerire. La poesia deve appunto suggerire, altrimenti si sfocia nel saggio o nel racconto. Ovviamente non è una cosa immediata: ogni parola ha un suono e cerco sempre il modo migliore di metterle una accanto all’altra.
Sicuramente lo poesia si costruisce con la tecnica, quindi mi danno fastidio espressioni come “questo film è molto poetico”, “i tuoi occhi sono molto poetici”. La poesia per me ha a che fare con la letteratura, ma la vita deve venire prima della letteratura. Molti poeti che ho letto nel corso del tempo mi hanno fatto capire che una certa poesia un po’ troppo letteraria lascia un po’ il tempo che trova. Non è vero che la poesia dev’essere per forza quella dell’accademia, che il poeta è quello che scrive anche saggi di letteratura: è possibile un’infinità di modi di vivere, e quindi anche di fare poesia. Hanno coniato il termine antipoesia, ma non so se mi convince: è questione di capirci quando parliamo, e per comunicare bisogna usare un certo linguaggio: nello scrivere penso che debba venir fuori di più. A me, come lettore, piacciono le poesie che mi fanno sentire la vita, l’intensità della passione prima che una costruzione o un’analisi a monte le neutralizzino. Noto che spesso, soprattutto nella poesia contemporanea, si bada molto alla forma, ma poi la passione, la capacità di sviscerare le situazioni vengono un po’ meno a vantaggio del manierismo. Altrimenti si rischia di sprofondare nel formalismo. Questo ovviamente non deve avallare la trascuratezza, lo scrivere un po’ come viene.

La vita è anche l’afflato per la vita poetica, non si possono separare. Non si escludono, si compensano, interagiscono, hanno legami…
Secondo me il formalismo, la mancanza di vita, sono conseguenze di quando si scrive perché un poeta ti legga, perché un critico ti legga; in questa circostanza ti dici “sto facendo letteratura”, “voglio fare letteratura”. Questa è una cosa che non mi piace. Preferisco scrivere sapendo di essere “una persona che scrive”, preferisco che mi leggano delle persone, prima di persone che fanno il critico o il poeta. È un percorso che mi sono accorto di aver fatto e che, dal libro precedente a questo, Onore ai vivi, è emerso. Onore ai vivi parlava della gravidanza e del bambino che doveva venire, e lì mi sono accorto di poter tralasciare alcune questioni che influenzavano il mio modo di scrivere: la coscienza di stare facendo letteratura, di stare scrivendo una poesia. Proprio con questo pensiero si rischia di rovinare la poesia. Sembra semplice, ma è complicato: ovviamente, come detto, non si perdono più le sovrastrutture che abbiamo imparato. Quelle buone, che ti fanno scrivere qualcosa che sta in piedi ed è anche bello, le tieni; le altre le lasci perdere.

E invece che rapporto hai con le rime? Hai mai pensato di fartene imbrigliare, o sedurre?
Non ne uso tante; ogni tanto cado in tentazione per ricercare la musicalità in quanto cantautore, ma ogni singola lettera, ogni suono, contribuisce al suono generale di una poesia. A volte è una sorta di gioco ironico o, comunque, antifrastico: le uso quando ce n’è bisogno e, usandone molto poche, diventano importanti. Ho inserito anche dei metri nascosti, accenti forti nella settima posizione: servono per far stare in piedi la poesia, perché abbia un suo suono. Sicuramente tutti gli anni trascorsi suonando sono diventati essenziali per come costruisco le poesie: cerco sempre la musicalità, nel ritmo soprattutto. Mi faccio sedurre da tutto, visto che ci sono moltissimi trucchi, tecniche e accorgimenti che si possono usare. Ogni singola letterà è materiale per costruire la lingua.
Nelle mie poesie, come ho detto, inserisco tanti accorgimenti che accompagnano il lettore nell’emozione, nella riflessione che la poesia gli suggerisce. Sarà una banalità, ma la grande importanza della poesia è proprio questa: suggerire qualcosa.

Trascrizione ed editing a cura di Ilaria Paglicci.

 


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Irene Panighetti, classe 1976, nata a Brescia ma con la Palestina e Napoli nel cuore; ha una doppia, o forse tripla, formazione, per non parlare della personalità quanto meno... poliedrica! Studi universitari di carattere linguistico-letterario la portano alla laurea e al dottorato, rigorosamente in atenei pubblici e di... vecchio ordinamento. Passioni e strade della vita la conducono poi sia al giornalismo, che per lei significa in primis conoscenza e condivisione, oltre che agire politico (tra i suoi principali maestri vi è l'impareggiabile reporter Ryszard Kapuściński), sia agli studi di cooperazione internazionale; entrambi percorsi che non le procurano lavori remunerativi ma esperienze uniche e insostituibili. Lettrice appassionata e mai paga, ama la narrativa, in particolare italiana e francese, ma è aperta e curiosa verso ogni tentativo letterario: per questo sostiene chiunque si lanci nell'avventura dello scrivere, senza però venir meno ad un giudizio rigoroso e spesso stroncante, quando le pare che manchino le basi e il talento necessari per l'impegno e la fatica che comportano la messa al mondo di un'opera letteraria. Ma è severa più con se stessa che con gli altri, ed è in realtà meno dura di... come la disegnano.

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