La poesia è fatta di visione: intervista a Isabella Leardini

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Isabella Leardini è nata a Rimini nel 1978, dove vive e lavora. Nel 2002 ha vinto la sezione inediti del Premio Montale. Ha pubblicato i libri La coinquilina scalza nella collana Niebo curata da Milo De Angelis (La Vita Felice, 2004, IV ed.) e Una stagione d’aria (Donzelli, 2017). Le sue poesie sono pubblicate in diverse antologie in Italia e all’estero, tra cui Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi 2012) a cura di Giovanna Rosadini, Les Poètes de la Méditerranée (Gallimard, 2010), in Spagna (Ediciones La Isala de Siltolà, 2017) e in Argentina (Esplendor en las sombras. Tres voces italianas contemporáneas – Huesos de Jibia, 2015). È direttore artistico del Festival della poesia giovane Parco Poesia e del premio ad esso legato. Si occupa di laboratori di scrittura poetica dedicati agli adolescenti ed è giornalista pubblicista. Dal 2007 al 2014 ha tenuto una rubrica di poesia per la rivista Glamour, sull’edizione cartacea e online. L’abbiamo incontrata nell’ambito della rassegna letteraria Libri in Movimento, e abbiamo parlato con lei principalmente del suo libro Domare il drago (Mondadori, 2018).

Parto da una citazione che ho trovato interessante: “C’è una specie di inchiostro nero che abbiamo in circolo, è fatto di tutte le cose da dire che non sono state dette. Qualche volta trova una strada per uscire, si attorciglia in un foglio, in una nota sul telefono, nel messaggio che stavamo scrivendo; ma più spesso resta aggrappato dentro e stringe un nodo, rimane nascosto in qualche organo vitale”. Ho cercato di inquadrarti come autrice, e la prima domanda che mi sono posto nel leggere Domare il drago è come tu ti sia avvicinata alla poesia.
Prima di tutto grazie per le bellissime cose che mi hai detto: questo libro è stato una scommessa, mia e soprattutto di Paola Violetti, una editor di Varia Mondadori, quindi di un settore che produce libri di grandissima diffusione commerciale. Ci sono personaggi molto noti della tv che lavorano con lei, e io sono una poetessa. Ho un mio piccolo pubblico anche al di fuori di chi legge solo poesia, anche di ragazze che hanno amato la mia poesia perché è una poesia d’amore, però era una grande scommessa portare nella Varia Mondadori un libro che si rivolgesse a tutte quelle persone che in Italia scrivono, ma che tengono questo dono di parole quasi come un segreto; infatti i poeti si lamentano spesso perché le persone scrivono ma non comprano i libri di poesia contemporanea. Io ho sempre creduto che, se questo accade, è anche un po’ colpa nostra, di noi poeti: c’è qualcosa che non va se queste persone, che amano scrivere, non hanno voglia di appassionarsi alla poesia, di comprarla. La tengono come una specie di piccola magia personale, qualcosa che entra nelle loro vite ma che non incontra non solo la poesia contemporanea, ma neppure la grande poesia di ogni tempo.
Non è scontato che qualcuno scriva e nel mentre legga Emily Dickinson; che faccia risuonare il suo piccolo segreto di parole, il quale cambia forma proprio come quell’inchiostro nero che esce all’improvviso e magari non esce in una poesia, ma esce in un messaggio che scriviamo prima di dormire, in una lettera che abbiamo scritto a qualcuno, in un taccuino dove annotiamo qualcosa. Queste parole che si trasformano fra le nostre mani e che non abbiamo neanche il coraggio di definire poesia. Ho scritto questo libro pensando a tutte queste persone, al modo in cui la poesia dimostra ancora oggi di essere un istinto innato: in questa epoca lo dimostra tantissimo.
Come ho fatto, mi hai chiesto, ad arrivare alla poesia… Io da bambina ero disgrafica: vuol dire che parlavo bene, anche con una proprietà di linguaggio più complessa rispetto ai miei coetanei, ma che la scrittura era per me una materia resistente, ostile; non riuscivo a seguire la traiettoria della mia mano, vedevo le lettere come geroglifici. Ho letto la prima parola alla fine della prima elementare, e mi ricordo la prima parola che ho letto, perché, con il senno di poi, è meraviglioso che sia stata proprio quella parola: ho letto la parola “grazia”, era il nome di una rivista di mia madre, era in stampatello bello grande, e io riuscivo a leggere in stampatello e non in corsivo. In stampatello nel mio libro di prima elementare leggevo sempre la stessa cosa: mentre gli altri cambiavano pagina io leggevo una poesia. Questo spazio bianco nella pagina era come uno spazio di respiro, e quella scrittura smetteva di farmi resistenza nel suo controcanto di vuoto; stranamente, in modo ironico, alla fine della prima elementare tutti si sono sorpresi, perché quando ho scritto sulla bandierina della scuola ho scritto una rima. Questo canto delle parole a me rispondeva. All’inizio della seconda elementare ho scritto la mia prima poesia e l’ho scritta un po’ per mio padre: mi ero presentata orgogliosa a lui con la poesia che avevo scelto di leggere per tutta la seconda elementare e, facendo finta di non accorgersi che fingevo di leggere dal libro di scuola, lui mi disse: “L’hai scritta tu?”
Avevo pensato che, in fondo, era una cosa che potevo fare e, il pomeriggio seguente, ho scritto una poesia come se fosse la mia lingua madre: l’unica cosa che in fondo mi veniva naturale. Poi non ho scritto per anni: avrò scritto quattro, forse cinque poesie durante le elementari, e assolutamente nessuna durante le medie, che erano già abbastanza difficili così. Poi ho ricominciato, come tanti ragazzi, quando mi sono innamorata. Qui abbiamo il tema dell’amore, e io credo che la scrittura sia una dinamica innamorata, perché credo che l’amore sia quell’enorme amplificatore che ci mette di fronte una caccia al segno che è ciò che fa la poesia. L’amore ci pone di fronte a un linguaggio di simboli, e ogni cosa diventa significante, ogni cosa diventa un’aggiunta alla nostra vita, una mappa da decifrare. L’altro diventa un inesauribile terreno di conoscenza che ci rivela continuamente qualcosa di noi: ci rivela continuamente un segno che richiama un altro segno. Ognuno di noi, quando si innamora, inizia a diventare un commentatore instancabile. È uno di quegli interpretatori che al segno aggiunge segno e che fa quello che fa la poesia: collega le cose, anche le cose lontanissime, per arrivare a una verità in cui anche gli spazi bianchi, anche i non detti significano profondamente.

Secondo me ognuno di noi, quando tenta di fare una qualsiasi attività artistica, ha fondamentalmente una molla interiore che lo spinge, e mi piace come l’hai descritta. Le tue motivazioni sono sicuramente importanti, nel senso dell’umanità. Come artista sei una persona nel nostro presente, e il tuo percorso ti ha portato a questo. Porta a scrivere, porta a dipingere, porta a suonare, porta a frequentare l’arte. Quindi è importante capire perché tu fossi interessata a scrivere poesia e soprattutto a far diventare la poesia uno strumento di crescita. Questo è ciò che ho visto in Domare il drago: la poesia come strumento importante di crescita. Inoltre, leggendo questo libro, ho trovato anche la risposta a una domanda implicita, cioè quale sia stata la molla che ti ha spinto a scriverlo, perché ritengo che sia molto particolare. È molto interessante come sperimentazione. Mondadori ha fatto una scelta non tanto di coraggio, ma di correttezza nel momento in cui in copertina scrive che Domare il drago è un laboratorio di poesia per dare forma alle emozioni nascoste: un invito a giocare fin da subito, senza nascondersi dietro ad un dito. Questo libro è la descrizione dei laboratori che tu hai condotto, e questo è simbolo di onestà. Quindi ti chiedo: qual è stata la molla che ti ha fatto mettere davanti al computer o a prendere in mano la penna? Perché hai fatto qualcosa che ti è inusuale: sei una poetessa e hai scritto un saggio.
Preciso una cosa: in realtà ho scritto poesia non perché mi sono interessata, ma come se non potessi fare altro; potendo scegliere, avrei scelto una di quelle arti in cui, se eccelli, guadagni molto bene, dal suonare il violino al fare molto bene le piastrelle, però la poesia è una di quelle arti in cui, anche se eccelli, non guadagni molto bene. Ma non potevo fare altro che questo e, forse proprio perché la mia è una condizione inevitabile, non ho paura di offrire questa cosa anche a chi può scegliere, anche a chi potrebbe non incontrarla mai.
Qual è stata la molla di questo libro? L’ho scritto in quattro mesi, quattro mesi ispiratissimi per i quali sto ancora male, perché mi manca la compagnia dello scriverlo: l’avrei voluto scrivere per tutta la vita, perché ogni gesto era guidato da una strana energia in cui tutto si riannodava e tutto quello che succedeva entrava in quello che stavo scrivendo; sento la nostalgia dei segni che mi arrivavano scrivendo questo libro. Però l’ho scritto in quattro mesi e in tutta una vita, perché questo libro inizia nel primo momento in cui io sento, a diciotto anni, quando mi innamoro: un vento, una dettatura, una parola che è mia e che non è mia, che mi mette nella condizione di non poter fare a meno di aprire il diario e scriverla. Scrivo quaranta poesie in un’estate. Considerando che ne ho scritte cento in quindici anni, quindi immaginate cosa sono state quaranta poesie, che poi non sono rimaste. Però è servita quella prima cancellatura, quella prima parola che ho scelto di lasciare cadere, perché era falsa, perché non era necessaria. È stato un percorso in cui, nella mia poesia, ho cercato un punto di non ritorno di verità e ho deciso di guardare il dolore, anche piccolo, che raccontavo nel mio primo libro: il dolore di un amore non corrisposto vissuto a vent’anni, ma guardato con spudorata fermezza senza maschere e senza mentire. Forse questo mi ha portato a poter toccare il dolore di questi ragazzi, mi ha portato a stare con mano ferma di fronte al fatto che loro me lo mettessero fra le mani, il loro segreto e il loro dolore.
Ho iniziato a fare laboratori di poesia dieci anni fa, quindi quando avevo ventinove anni e organizzavo già da molto tempo un festival della poesia giovane: sono abituata a confrontarmi con il talento, a cercare il talento, a conoscere l’ambiente letterario. Però quando mi hanno invitato in una scuola e ho parlato con i ragazzi, quasi sentendomi come una di loro, come una sorella maggiore, e gli ho chiesto di scrivermi, loro hanno iniziato a farlo, e io sono tornata in questa scuola; all’inizio non era un mio laboratorio: lo è diventato per un’evidenza, per un fatto, il fatto che parlando con me quei ragazzi avevano iniziato a scrivere. Quindi questo lavoro è nato come nascono, in alcuni casi, le vocazioni, semplicemente come qualcosa che si rivela: puoi farlo e sai farlo.
Ho fatto un laboratorio di poesia con ragazzi di tante scuole. Questo primo gruppo va avanti da tanti anni, e riunisce i ragazzi di tutte le scuole di Rimini. Fanno dal classico all’ITI. Nel mio corso ci sono ragazzi che fanno il primo anno del classico e ragazzi che fanno l’ultimo anno dell’ITI o di un professionale e tanti ragazzi dello scientifico. Si ritrovano ragazzi che vanno dal primo all’ultimo anno, che sono quasi adulti ormai, e condividono il segreto della poesia: davvero viene fuori il loro segreto, questa specie di zona franca del laboratorio.
Dopo tanti anni che facevo il laboratorio a scuola mi è capitato di farlo in un ospedale. Ero abituata a ragazzi che volevano scrivere, che sono lì perché già scrivono o racconti o poesie o hanno qualcosa da dire. Invece in quell’ospedale, che era il reparto dei disturbi alimentari anziché delle ragazze, come mi aspettavo, mi sono trovata davanti a bambine che avevano dai dieci ai dodici anni che non avevano nessuna intenzione di scrivere, ma a cui era stato proposto questo laboratorio. Mi sono accorta con loro, navigando a vista e dicendo le stesse cose che dicevo ai ragazzi della scuola, che avevano una sensibilità cento volte più forte e che iniziavo a trattare con maggiore responsabilità anche i ragazzi che avevo a scuola. Tutto quello che facevo improvvisamente diventava cento volte più forte: per la prima volta nella mia vita mi sembrava di andare nella direzione giusta, in una fatica che ti ricarica. Uscivo da quell’ospedale e, anziché essere provata, perché quelle ragazze mi mettevano fra le mani i loro mostri e iniziavano a dare loro dei nomi, era come se sentissi la strana felicità di accorgermi che quella cosa che era stata un mio dono poteva diventare un dono che agiva sulla vita degli altri, così profondamente da diventare per loro un bene per sempre.
Ad un certo punto mi ero accorta che queste bambine si trovavano ad avere a che fare con una belva: è stato lì che per la prima volta ho usato questa immagine, nel giorno in cui loro hanno toccato l’argomento intoccabile che c’era lì dentro. Potevamo parlare di tutto tranne che dell’anoressia, però loro ne hanno parlato da sole, e io ho fatto solo una domanda: “Avete mai provato a dargli un nome?”. Loro hanno cominciato a raccontarla con il bene della poesia, usando l’immagine, e con le immagini hanno detto l’indicibile. Hanno incominciato a dire che alcune la chiamavano “la voce”, un’altra ha detto che per lei era come una sirena cattiva che voleva portarla in fondo al mare: all’inizio era come un’amica che credi che sia buona, ma quando poi scopri che è cattiva, e lei stessa scopre la tua scoperta, diventa ancora più cattiva. Hanno incominciato a raccontare la malattia come una figura e come un archetipo: sentivano la sirena come la sirena omerica che porta fuori dai bordi, e non come la sirenetta Disney. Avevano una percezione del terrore e dell’oscuro a cui non sapevano dare un nome, e in quel momento io gli stavo dando uno strumento. Non dovevano spiegarmi come stavano, non dovevano rivelare il perché le aveva portate lì dentro, la causa di quelle reazioni simili a dieci cause diverse: potevano dargli un nome come in tutte le cosmogonie. Dio dà all’uomo, come primo dono, quello di nominare le cose e, illuminandole, farle esistere, e, facendole esistere, in un certo senso guardandole negli occhi, liberarsene. A un certo punto gli ho detto che in quel momento avevano di fronte una belva che non conoscevano, una belva-ombra che poteva trasformarsi in anoressia, depressione, ansia.
Parlo con dei ragazzi che si tagliano le braccia; all’inizio era una cosa incomprensibile: non riuscivo a capire perché avessero voglia di tagliarsi, è una cosa che non appartiene alla nostra generazione, noi non lo facevamo. Poi ho capito che il taglio è una forma che il dolore cerca di darsi per uscire da dentro di loro. Una ragazzina di quattordici anni che parlava con me per le poesie, ma che aveva finito per rivelarmi quello che la muoveva a scrivere e a tagliarsi, un giorno mi ha detto: “Mi sono accorta che se scrivo riesco a non farlo”, come se questo dare forma potesse evitare che quel dolore, che comunque una forma la deve trovare, ne prendesse una più terribile.
Durante queste esperienze mi sono accorta che la poesia, un dono dato ai poeti, che sono senza scelta, può essere una scelta per tante altre persone e diventare uno strumento che è anche un’arma, che ti porta non a essere dominato da una belva che non vedi mai, ma a essere di fronte a una belva che improvvisamente si lascia toccare; e questa specie di amuleto te lo puoi portare sempre.
Quelle ragazzine alla fine del laboratorio volevano fare un libro, lasciare in ospedale quello che avevano scritto perché così chi fosse passato di lì trovasse le loro parole. Questa tensione al far sì che la parola resti è innata all’arte, ma io sapevo che loro, a casa, avrebbero avuto ancora quell’arma e, quando sarebbe arrivata la cosa terribile, avrebbero potuto almeno provare a darle quest’altra forma: metterla in una gabbia di ritmo di parole, in cui scegliere ogni parola, sentire dove si ferma il tuo respiro, sentire come cantano le parole, come hanno una sillaba dopo l’altra, quasi un sostegno; diventata non una gabbia-prigione, ma una gabbia dove la belva si lasciava guardare, e forse diventava meno pericolosa per il solo fatto di essere guardata.
La poesia è fatta di visione e il dolore profondamente guardato, la paura finalmente guardata, anche se è difficile, anche se non è una passeggiata, li trasforma in bellezza. L’arte fa questo: prende la materia più oscura della nostra vita, quella che tutto il giorno cerchiamo di dimenticare e, quando non distoglie lo sguardo e fissamente la guarda, la trasforma. Per questo una delle cose che ci sono venute in mente insieme a questo “dare forma” è l’altro verbo fratello: trasformare, che è il verbo dell’alchimia. L’arte fa un’opera che trasforma in oro quello che prima era un inchiostro nero, imprendibile, intoccabile, quello che prima era generato da qualche parte di noi che spesso non conosciamo.

È chiaro che i laboratori di poesia cui fai riferimento nel tuo libro sono concentrati essenzialmente su persone molto giovani, o della scuola superiore, o degli ospedali, quindi avrai avuto una platea più che variegata. Ognuno di noi ha delle caratteristiche, ha dei vissuti, e tu a piè pari entri in alcune dinamiche, sempre con molta dolcezza, e poni subito delle questioni. Com’è possibile far uscire la parte poetica di ciascuno di noi? Perché immagino che in ciascuno di noi ci sia.
In realtà è quasi un istinto della parola, l’essere poetica. Dentro ogni parola c’è una piccola metafora, una piccola similitudine. Spesso ricordarsi di questa meraviglia del linguaggio che c’è nelle parole che usiamo quotidianamente, o nelle metafore che usiamo quotidianamente, ci fa capire quanto sono diventate inoffensive, perché le abbiamo come neutralizzate, non ne vediamo più la meraviglia; già questo ci fa scoprire che la natura del nostro linguaggio è poetica. Però a me piace una metafora, quella dell’ostrica, vale a dire che la poesia è quasi una reazione all’altro, a quell’alterità che entra nella nostra vita. Nell’ostrica si genera la perla quando un granello di sabbia entra nel guscio: quella perla è una reazione, quasi come le lacrime che escono quando un granello di sabbia entra in un occhio, ma che diventano la forma fisica di qualcosa che è immateriale, di un’emozione immateriale: trova una forma fisica. Nello stesso modo, quando qualcosa è troppo forte, la nostra reazione linguistica è o non riuscire a dirlo, l’ineffabile, quello di Dante che, nel trentatreesimo canto del Paradiso, chiede di poter dire e la parola quasi manca; oppure, proprio perché questa parola manca, cercare una parola che sia più nostra, che non ci esponga al fraintendimento, che riesca a dire la potenza di quello che stiamo provando. Per questo si inizia a scrivere quando ci si innamora.
Una delle domande migliori che fanno a noi poeti è: “Ma perché le poesie sono sempre tristi?” Perché l’urto del dolore, della paura, la dialettica di pieno e vuoto, di mancanza e desiderio, sono gli elementi in cui reagisce la poesia, sono il guscio di questa ostrica, il momento in cui questo entra nella nostra vita. È quell’alterità che ci muove a dire una parola che sia nostra. Nel caso di un ragazzo giovane, per far uscire una sua istanza in parole poetiche solitamente gli dico non che deve crescere, ma semplicemente che la vita non è una cosa che arriva dopo, un’eterna attesa con l’ansia da prestazione di non sbagliare niente per arrivare alla vita che viene dopo: quello che vivono oggi, l’amore che vivono oggi, quello che li fa soffrire oggi, ha la massima dignità di essere detto e di essere detto nel modo più perfetto, come da sempre i poeti hanno fatto. Quello che sono adesso, che anima la loro vita adesso, è ciò che merita di essere guardato, conosciuto e scritto, perché è già quello che fa la loro vita e il loro destino. In questa serietà, iniziano a credere che sia davvero un bene quello che mette al centro ciò che nella loro vita è effettivamente al centro. Gli dico che, se uno non vi ha salutato e vi ha rovinato la mattinata, evidentemente è abbastanza importante da farvi stare male tutto il giorno, quindi merita di essere scritto e detto con le parole più perfette, con le parole che vi assomigliano di più, quelle che sono le uniche con cui lo riuscite a dire. Altrimenti sarete continuamente fraintesi: il vostro innamorarvi, il vostro non riuscire a dire bene o il vostro sentire la mancanza di qualcuno vi espone continuamente al malinteso.
Un corso di poesia serve a scrivere bene un SMS o un messaggio di WhatsApp, e questo è molto più importante che pubblicare un libro di poesia, a volte, perché è quello che fa la differenza fra conquistare o no qualcuno, fargli capire che ti dispiace; e a volte scegliere le parole giuste è vitale. Saper usare questa energia, rendendo la potenza di ciò che abbiamo da dire, è fondamentale, soprattutto in un tempo come il nostro in cui le cose le diciamo scrivendo: oggi scrivono per dire l’emotività, le cose importanti. A voce si dicono le cose pratiche: parlano una lingua mimetica, in cui tutti usano le stesse forme ripetute. In questo siamo un po’ la società dell’eco. Il mito di Eco è quello della ninfa che, chiacchierando troppo, viene punita dovendo ripetere sempre l’ultima parola ascoltata. Quando si è innamorata, Narciso, sentendo che lei gli ripeteva sempre l’ultima parola che diceva lui, come i bambini dell’asilo, si è sentito preso in giro e l’ha cacciata. Noi siamo un po’ in preda a questo malinteso: condividiamo sempre la parola di un altro e, se non ci riappropriamo della nostra parola, rischiamo di non rendere la potenza di quello che siamo. I ragazzi, quando hanno qualcosa da dire e si trovano a doverlo dire scrivendo, cercano una lingua che sia loro. Il modo in cui scrivono i ragazzi nati intorno agli anni Duemila, me ne sto accorgendo in dieci anni di laboratori, ti mostra come cambia il modo di usare la poesia: è un grande flusso, mentre prima c’era una ricerca dell’immagine e del simbolo. È un grande bisogno della nostra epoca, un segnale di ricerca di simboli, e il simbolo ci chiama, ci chiede di essere una parte della nostra vita. La poesia ci consegna simboli senza pensare, senza che la nostra mente cerchi di assomigliare a qualcosa di poetico, ma consegnandoci addosso una serie di istintive metafore che sono simboli e che spesso diventano rivelatori. Quella metafora, che hai scritto senza pensare, si lega a qualcosa che fa parte del tuo passato, della tua memoria, come una visione. Quando io dico “come”, questa parola magica, dorata, si lega improvvisamente a qualcosa di presente e a qualcosa di lontano, a qualcosa che avete visto stamattina, a qualcosa che sta sul fondo, che riemerge. Quindi chiedo questo: faccio fare dei semplici esercizi, ma spesso non c’è neanche bisogno, perché le stesse metafore che io metto in campo parlando, come sto facendo con voi, sollevano altre metafore, come qualcosa che è talmente vicino e a portata di mano nella nostra vita, che ha talmente bisogno di arrivare in superficie, che basta chiamarlo e i simboli e le metafore, le parole diverse nella poesia, arrivano.

Ci hai spiegato, in buona sostanza, com’è possibile che le emozioni diventino reali, scritte, qualcosa che dall’inchiostro nero diventi una traccia. Il punto fondamentale secondo me è che alla fine, a dispetto del talento che è necessario per uno scrittore, ci vogliono necessariamente abilità e comprensione di ciò che si fa: bisogna utilizzare le parole sapendo di utilizzarle in senso metaforico, e sapendo quale sia il suo fine.
Rispetto al talento, mi sembra che tu sia abbastanza tranchant: nel tuo libro dici che o hai il talento oppure ti manca. Cito una frase che mi sono segnato e che trovo significativa: la questione del talento è importante in qualsiasi campo artistico, ed è una buona cosa che ci si confronti con queste caratteristiche, che sono peculiari di ciascuno di noi. Dici che il talento è fondamentale e che ha a che fare con un equilibrio che non sta in un’asse perfetto: il talento è squilibrato anche perché non è democratico, non è come la pioggia che cade su tutto, ma è come il polline portato dal vento: da qualche parte ne cade di più, da altre parti di meno. Il talento non è un diritto ma, per chi lo possiede, è un dovere.
Io questa cosa la dico subito, sia nei laboratori che faccio con i ragazzi delle superiori che in quelli con gli adulti. Il talento per la poesia è una cosa che può esserci tanto o poco, e spesso è messa in equilibrio da una volontà. Ci possono essere persone che hanno un grande talento e proprio il talento, nella sua origine etimologica, è un peso: spesso è qualcosa che porta fuori asse. I grandi talenti spesso sono come l’albatros di Baudelaire: quando vola è il gigante dei cieli, e quando deve camminare è goffo e impacciato. Spesso vediamo nei grandi talenti questa cifra di squilibrio. Però non significa che la poesia possa essere solo per chi ha talento, ma che chi ha talento in qualche modo starà di fronte a quel peso.
La parabola dei talenti racconta dei tre servi che avevano avuto rispettivamente uno, tre e cinque talenti ciascuno. Il padrone parte per un lungo viaggio, e il servo che ne aveva avuti cinque e quello che ne aveva avuti tre li mettono in opera; quando lui torna glieli restituiscono raddoppiati. Il servo che, per paura di perdere l’unico talento che gli era stato affidato, ma anche per pigrizia, lo aveva sepolto, gli restituisce quest’unico talento e il padrone. brutalmente. glilo toglie e lo dà a chi ne aveva di più. È quello che succede nella vita: possiamo avere un talento e lasciato sepolto, ma prima o poi ne paghiamo il prezzo. Se lo investiamo, se mettiamo all’opera il nostro dono, se lo facciamo agire, in qualche modo aumenterà. Questa è una cosa che va detta per correttezza, perché il fine di un laboratorio non è illudere qualcuno di scoprire il proprio talento: che il talento ci sia o meno è qualcosa con cui ad un certo punto devi fare i conti. Una persona può non portarlo, questo peso.
Qui fornisco un metodo che può servire allo stesso modo a chi ha talento e a chi non lo ha. Ad ognuno potrà servire per il proprio livello. Chiunque, anche chi non ha mai pensato di scrivere, può provare a usare la poesia per conoscere qualcosa di sé che non metteva a fuoco, a dire una verità in modo obliquo, come dice Emily Dickinson. Significa che quella verità che sta sul fondo abbiamo la possibilità di dirla non svelandoci, ma rivelandola con un’obliquità che ci permette di mantenerla in parte ancora un po’ segreta; anzi, quella piccola parte di oscurità diventa il punto da cui quella verità continua a scaturire.
Il libro è anche un manuale: ci sono sette sì da dire alla poesia. Il primo sì che io chiedo di dire è al silenzio: il punto in cui la scrittura non inizia ancora, il silenzio che dobbiamo riuscire a fare per far arrivare la parola, per crearle uno spazio diverso. Il secondo sì è alla parola: alla parola che arriva come quel messaggio che cambia forma fra le mani, come un balbettio: una parola sola che ci viene in mente. Nessuno scrive di getto un sonetto: probabilmente all’inizio sarà un pensiero, una piccola frase, però quello è già una dettatura. Si prende nota di un qualcosa che ci  arriva dal profondo, di un’alterità, come se dovessimo scrivere qualcosa che è già perfetto, come un traduttore o una stenografa devono andare significando: dare significato a una parola nostra ma che non è del tutto nostra, come un fiato che ti viene spirato dentro, Dio che ti dà la vita.
L’ispirazione è democratica: attraversa almeno una volta le nostre vite e ci fa sentire questo potere della creazione, l’intuizione in cui noi possiamo essere creatori. Quindi il secondo sì è alla parola: non avere paura e non distrarsi.
Il terzo sì è trovare il proprio destinatario: la poesia spesso dice “tu” a qualcuno, a volte a qualcuno che ci sposta, che ci lascia in sospeso, come quel granello nell’ostrica, ed è generativo proprio per l’urto della sua alterità, che rompe gli equilibri. Spesso non è immediato riconoscerlo: magari si camuffa bene, magari è quel “tu” con cui non vorremmo parlare.
Il quarto sì è il lavoro, la cui conseguenza è scrivere bene. Ma è solo la conseguenza: il motore, la ragione vera, è arrivare a una verità cambiando una parola, cercando un’immagine che dice meglio quello che abbiamo da dire. Nel rileggere il testo scritto, nell’affrontarlo, si innesca il lavoro di trasformazione, quello che fa sì che la prima parola scritta di getto possa diventare una poesia: non perché l’abbiamo abbellita, ma perché l’abbiamo riconquistata cercando la sua forma autentica.
Il quinto sì è toccare il nodo: ognuno di noi ha un nodo che si crea, come se stringesse da qualche parte in fondo a noi stessi, come se ci fosse un non detto che è rimasto lì, come un sassolino in tasca. Questo toccare i punti segreti della nostra vita con la lingua della poesia ci permette non sempre di scioglierli, ma quantomeno di conoscerli, anche rispettandoli in quanto nodi; e di farlo con una parte indicibile, che è il dono della poesia: mantenere produttivo il nostro segreto per diventare arte.
Il sesto sì è un altro modo di lavorare sul testo: dirlo a voce alta. Quando una cosa la pronunciamo, quella cosa prende corpo, e nella voce c’è la nostra cetra interna: qualcosa che vibra, qualcosa che esiste e si libera in modo diverso. Ciò che prima era coperto diventa vivente.
Il settimo sì è il dar forma, il trovare anche una piccola forma per ciò che si è scritto. Spesso le persone si lamentano perché alcuni autori scelgono l’autopubblicazione, e la condannano come una forma di vanità; infatti si chiama vanity press. A me dà fastidio questa specie di snobbismo, perché in quel desiderio di far rimanere ciò che si è scritto, e di farlo vivere oltre noi, non vedo solo la vanità; vedo la stessa scintilla che faceva dire alle ragazze con disturbi alimentari “facciamo il libro”. La poesia, quando agisce nella nostra vita, ad un certo punto chiede di restare, e può farlo in molti modi. Può farlo nel modo sprovveduto di chi magari incappa in un editore furbo che gli chiede dei soldi per pubblicare il suo libro; nel modo di chi quelle poesie le mette insieme, le rilega e le dà a qualcuno; nel modo che funziona oggi attraverso i social e su internet. È un piccolo desiderio di durare che l’arte ha da sempre. Quello che noi possiamo fare è scegliere di trovare questa forma fissa ed eterna, capace di fermarsi a quello che abbiamo scritto in un modo che sia un gesto liberatorio vero e di cui non ci pentiremo. La richiesta che la poesia ci fa di rimanere, ce la fa perché vuole essere consegnata, e noi la consegniamo per il potere di alchimia che ha sulla nostra vita. Spesso è meglio farla come un atto privato e in poche copie: dare quello che nella nostra vita è diventato così importante solo a chi lo merita.

Ho trovato il titolo del libro particolarmente evocativo: il drago è la poesia. La poesia dev’essere domata? È solo lo sforzo di irreggimentare le metafore che ci vengono?
In questo senso io la chiamo una poesia-belva. È un animale ingombrante e feroce, e questo domare ha un’accezione positiva: non deve essere addomesticata, deve diventare una belva alleata. Credo che la poesia libera rischi di sparire nel bosco in cui ci addentriamo, di scappare come un animale selvatico. Invece questo animale selvatico, che ci diventa amico e alleato, è una belva domata in senso buono: in parte noi domiamo lei e viceversa, sta domando tutte le nostre altre belve.
L’idea del drago l’ho presa dalle antiche simbologie: il drago ha un potere di invisibilità ma, anche quando appare, non appare mai intero, c’è una parte del suo corpo che non si vede mai. Così è la poesia, che mantiene questa piccola quota di oscurità, che ci permette di addentrarci nel sommerso, nel sotterraneo, che difende una perla nata dall’alterità.

Tu scrivi: “Il drago esiste da millenni, in forme diverse della stessa specie ha attraversato continenti e civiltà che mai avrebbero potuto incontrarsi, alcune lo hanno visto nemico e altre amico. La sua razza unisce tutti gli elementi: il sommerso dell’acqua e della terra in cui dorme, il fuoco interno di cui respira, l’elettricità dell’aria che attraversa, umido-ardente-freddo e lucente come stella. […] Nessuno può permettersi di strapparvi la vostra parte invisibile di drago, la vostra quota di oscurità è un bene, è la vena che deve restare aperta.”. L’ultima domanda è legata alla tua esperienza di laboratorio in ospedale: le ragazze con cui hai lavorato hanno voluto lasciare una traccia, dunque, evidentemente, hanno trovato positiva la tua operazione. Che cosa ti è rimasto di questa esperienza?
La prima cosa che mi viene da dire è: i loro volti. Vedo le loro facce, ed è come se tutti questi volti fossero presenti nel libro. Ci sono storie di più di trenta ragazzi, a partire dagli undici anni fino ad arrivare agli adolescenti. Ci sono storie anche appena accennate che non hanno nessun limite da superare: spesso quello che contava non erano le loro storie in sé, ma sono i versi prodotti che contano. Sono stati le mie piccole-grandi guide.
C’è questa idea che i ragazzi appaiano con una poesia, magari li vediamo per un attimo, magari li seguiamo per un po’ con una loro storia che ci commuove, che ci accompagna, che ci mostra come loro hanno affrontato i loro nodi e le loro belve. Quello che rimane a me sono loro: rimangono nella mia vita. I miei allievi continuo a sentirli: non solo rimangono, ma accadono continuamente. Ogni settimana sono messa di fronte al loro segreto, sono dentro questo movimento, questa scoperta. All’inizio sono un mistero che piano piano recede, sono come delle belve domate in senso buono, nel senso che si avvicinano e decidono di farsi accarezzare proprio da me. Mi sorprendono e mi guidano con la poesia. Stando con loro non posso che fare sul serio, e questo mi tiene al cuore di quello che faccio, nel rispetto e nella serietà massima anche del mio dono.

Trascrizione ed editing a cura di Riccardo Crippa

 

 

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