Lara Gregori – Mutilazione

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1785

Il pioppo doveva essere capitozzato. In realtà avrebbe dovuto essere abbattuto perché il fungo del pioppolo lo stava consumando da due anni e nemmeno quell’estate le foglie erano fiorite lucide. Soltanto le formiche brulicavano sulla pianta scintillanti di vita, anch’esse segno del suo decadimento. Ma Rino, per ostinazione, aveva deciso che avrebbe tagliato il tronco a un metro da terra. Un ceppo è sempre utile, pensava.
«Perché, papà? È inutile. È morto ormai» gli aveva detto Ilde, un mese prima. Era settembre.

«Un ceppo è sempre utile» le aveva risposto il padre.
«Che te ne fai di un tronco lì in mezzo? Rovina il giardino. Con i roseti e i cespugli tutti intorno sarà come vedere una testa stempiata!»
Chinato sul lavello, Rino aveva continuato a mondare i piselli, riponendoli accuratamente nei sacchetti di plastica azzurra. Poi li avrebbe messi nel congelatore, per l’inverno.
Ilde aveva sospirato.

«Come vuoi, papà. Chiamerò Gino per potare il pioppo. Gli dirò di passare da te e vi accorderete per quando.»
Gino era il giardiniere del comune, un ragazzotto robusto, con moglie e quattro figli. Pagava l’affitto della casa con un secondo lavoro, rigorosamente in nero. Come l’affitto.
«Mai» rispose Rino. Aveva smesso di mondare i piselli e si era voltato con occhi di fuoco.
Ilde aveva perso la pazienza.

«Sei impazzito?» urlò. «Mai e poi mai tu poterai il pioppo! Ti rendi conto che hai quasi ottant’anni?»
Rino sbraitò più di lei. Quello spreco di improperi terminò con la minaccia di Ilde, poco prima di andarsene sbattendo la porta.
«Sei più testardo di un mulo. Non cambierai mai! Se ti farai del male, giuro, questa volta non muoverò un dito. Finirai dritto in casa di riposo.»
Rino sapeva che era vero. Ilde, certo, non l’avrebbe mai fatto, come non l’aveva fatto un anno prima quando si era rotto la caviglia cadendo dalla bicicletta. Gli avevano detto che non poteva più usarla, la pressione alta gli dava problemi di equilibrio. Rino aveva continuato.

Quando era uscito dall’ospedale, la bicicletta era scomparsa. Ilde non l’aveva lasciato da solo un giorno: gli puliva la casa, gli preparava da mangiare, lo aiutava a lavarsi e i primi tempi si era persino fermata a dormire. Ma aveva un marito, due figli e un lavoro. Era stata dura per lei. In quei due mesi aveva perso dieci chili e vent’anni di matrimonio. Lui sapeva che, mentre sua figlia gli sorrideva chiedendogli come stava, Ilde non poteva fare a meno di pensare a quanto stava male lei. E la casa di riposo era come la mela del paradiso terrestre. Lei non la mordeva soltanto per non avere due peccati originali.

Rino beveva il caffè e guardava il pioppo dalla finestra della cucina. Erano rimasti soltanto due rami maestri e il tronco. Sembrava una croce depredata dal Cristo. L’ultima volta che l’aveva potato era stato due settimane prima. Poi aveva cominciato a piovere. Ma quella mattina non pioveva, poteva finalmente capitozzare. Prima però sarebbe passato nell’orto: la pianta gli avrebbe portato via gran parte della giornata.

Indossò le brache di tela blu, la camicia di flanella, chiuse le bretelle e infilò gli stivali di gomma. Dal capanno dietro la casa prese un secchio, il foraterra e la roncola. Poi entrò nell’orto. Vide la signora Teresa, la sua dirimpettaia, sbattere i tappeti dalla finestra. Con un cenno della mano le diede il buongiorno.
«Salve, Rino» rispose lei. «Già di buon’ora nell’orto?»

Come capitava di adocchiare spesso nei mattini d’ottobre, il cielo bigio rischiarava di strie rosate. Il resto della via era in silenzio. Ci voleva ancora mezz’ora prima che i dintorni brulicassero di vita. Lasignora Teresa era un’eccezione, neanche troppo strana: aveva soltanto dieci anni meno di lui.
«Sì. Oggi devo tagliare il pioppo.»
«Come? Da solo?»

La signora Teresa si adagiò al davanzale. Rino annuì.
«Ma non si fanno queste cose alla nostra età, Rino. È pericoloso.»
«Vuole della verdura, Teresa? Ne è cresciuta tanta quest’anno.»
La signora Teresa lasciò i tappeti alla finestra e lo raggiunse alla rete che divideva le due proprietà.

Avevano resistito soltanto quelle due case con una maglia di filo di ferro a limitare i confini. Il resto della strada era un alveare di villette a schiera color mattone, blindate tra muri armati di cemento e cancelli elettrici come cinte di contenzione.
Da quando la città aveva allargato i confini, Castegnato si era trasformato in un’appendice dove si poteva ancora acquistare una casa con un mutuo trentennale. Di agricolo erano rimasti soltanto gli orti.
«Sono contento che la vuole, Teresa» le disse Rino passandole il secchio zeppo di insalata, un cavolo verza, dei finocchi e una buona quantità di baccelli di fagioli. «Mi dispiace lasciar marcire tutta questa verdura. Da solo non posso mangiarla tutta.»
«Beh, c’è anche Ilde. Lei ha una famiglia grande» rispose Teresa, afferrando il secchio.
«Non la prende volentieri. Finge sempre di dimenticarsi. Preferisce i sacchetti pronti del supermercato. Io lo so.»

«Gliela pulisca lei, Rino» rise Teresa.
Un tempo lo faceva. Prima dell’incidente. Poi aveva smesso, per un ingiusto senso di rancore. Più invecchi, più non ti importa di aumentare l’originalità dei tuoi peccati, pensava.
«Su, Rino. Non si lamenti di Ilde, che è una gran brava donna. Con tutto quello che ha da fare non le fa mai mancare niente. Lei è fortunato. I giovani non sono più quelli di una volta.»
«Già. Nemmeno i vecchi.»

Quelle parole gli erano uscite così, ma non era sicuro di aver capito bene che cosa intendeva. Sapeva soltanto che, mentre credeva di costruire il suo regno, aveva perso il mondo per strada.
«Bene, Rino. Torno alle mie faccende» si congedò Teresa, «ma prima mi prometta che non taglierà il pioppo. È troppo pericoloso alla sua età. Si faccia aiutare da Gino. Me lo promette?» Sicuramente Ilde le aveva raccontato dell’episodio. «Guardi che anche sua moglie non l’avrebbe permesso. Lo faccia per la povera Clelia.»
L’ammonimento della signora Teresa lo sferzò come un colpo di frusta. Da quando sua moglie era morta, due anni prima, non poteva più sentire il suo nome senza che un chiodo gli trafiggesse l’anima.

Non era più uscito di casa se non per sbrigare le necessità che non poteva derogare a Ilde. Non frequentava più il bar per il bianchino e la partitella a carte, né andava al campetto a vedere i ragazzi giocare a calcio. Aveva allontanato anche i pochi amici che erano ancora in vita. Si era rinchiuso tra i confini di rete della sua abitazione.
Non era per i ricordi. Non viveva di ricordi. Piuttosto tentava di annullarli. Tutto ciò che lo legava a sua moglie lo aveva portato via Ilde, durante una delle loro liti furiose. Lei non capiva perché non volesse più niente intorno a sé.

«Non è facendo finta che la mamma non sia mai esistita che supererai il dolore, papà» gli aveva detto, guardando i sacchi neri preparati in soggiorno.
«Li prendi tu o li porto in soffitta?»
Come un disco rotto Rino aveva ripetuto quella frase a ogni considerazione di sua figlia. Anche allora se n’era andata sbattendo la porta.
Le fotografie, invece, le aveva raccolte in un cassetto. Poi aveva chiuso a chiave la stanza e buttato la chiave in una delle innumerabili scatole accatastate in cantina.

Un pezzo alla volta, un punto alla volta Clelia si era spenta lentamente. Il chirurgo e il tumore se l’erano contesa come una pallina da ping pong. Prima un seno, poi l’altro, poi le ascelle, poi il fegato. Poi il polmone. A partita finita gliel’avevano restituita. Rino aveva guardato quel corpo disfatto svuotarsi per due terribili mesi. Le avevano strappato anche il nome.
Quando era andato all’anagrafe per le pratiche della morte, un impiegato foresto, sprofondato dietro a un vetro con un pertugio come le cassette postali, compilava un modulo al computer.

«Lei è il signor Raimondo Girelli?»
Rino impiegò un po’ di tempo a capire che stava parlando con lui. Aveva sentito quel nome forse tre volte nel corso della vita, e ognuna di quelle occasioni era avvenuta nell’infanzia, quando aveva preso i sacramenti. A scuola mai. Aveva frequentato fino alla terza elementare e la maestra chiamava tutti con il proprio nome. Quello vero.

«Sì. Rino Girelli.»
«Rino oppure Raimondo? Qual è il suo nome anagrafico?»
«Raimondo Girelli» disse senza convinzione.
«È il marito della defunta?»
Rino annuì.
«Il nome della defunta?»
«Clelia Girelli.»
L’impiegato lo guardò torvo.
«Signor Raimondo, ho bisogno di sapere il nome e il cognome anagrafico di sua moglie.»
«Clelia Rizzi in Girelli» compitò Rino, con uno sforzo di memoria.
«È sicuro?» L’impiegato non era convinto. «Il computer non mi convalida nessuna Clelia.»

Rino era confuso. Il nome di sua moglie era Clelia. Era stato sposato con lei cinquant’anni, fidanzato per dieci e il suo nome era Clelia.
«Raimondo Girelli, coniugato ad Antonia Rizzi» affermò l’impiegato guardando fiero il computer. «Quindi Antonia Rizzi è la defunta.Lei conferma?»
L’impiegato aveva bisogno solo di un sì. Nient’altro.
Anche il marmista non aveva sentito ragioni. «Rino, se vuoi sotto il nome possiamo incidere detta Clelia, tra parentesi» gli diceva.

«Ma il suo nome è Clelia» protestava.
«Non si può, te l’ho già spiegato. È il regolamento comunale. Facciamo così: togliamo le parentesi, che risalta di più. E lo scriviamo in neretto. Va bene?»
Rino se n’era andato senza salutare.
“Vivrà per sempre nel ricordo dei suoi cari”, recitava la lapide. Lui, di Antonia, non ricordava niente. Pensò alla propria morte, pensò alla propria iscrizione. Raimondo Girelli. Chi era?

Rino depositò il foraterra e la roncola nel capanno. Prese la scala a pioli, quella alta. Era più solida. L’appoggiò al pioppo, imbracciò la sega e salì. Si sedette nella piega del tronco, a cavallo tra i due rami maestri. Cominciò a segare il primo ramo. Quando il taglio fu fondo, appoggiò la sega alla scala e si sporse per l’ultima spinta con le braccia.Il ramo cadde, secco, a terra.

Forse fu quel tonfo sordo, forse quel sudore che gli colava madido dalla fronte al collo fin dentro la camicia. Sentiva la testa mulinare come un frullatore impazzito.
È la pressione alta, pensava.
Rino si abbandonò con la schiena all’unico ramo rimasto. Dall’alto del vortice in cui ronzava il suo sangue, scorgeva il cimitero di cemento che Castegnato era divenuto. Il tempo in cui le case e gli uomini erano come alberi in mezzo ai campi di frumento pareva non essere mai esistito.

L’aveva creduto anche lui, al principio, quando l’industria prometteva il riscatto da un mondo di fatica e di stenti e la città fioriva, generosa, come un formicaio operoso e instancabile. L’aveva creduto. Poi era accaduto qualcosa: era come se il ritmo delle cose avesse stuprato lo scandire del giorno e della notte e la riscossa sperata era diventata soltanto un miraggio, che si perpetuava all’infinito. Nell’abbaglio del tempo non si era accorto che gli stavano derubando la vita.

Gli alveari della via avevano acceso le luci. La strada si era animata dalle automobili, in fila, in corsa verso il lavoro. Rino si sentiva pizzicare la groppa e il viso. Le formiche del pioppo gli marciavano addosso e si erano infilate anche dentro la camicia.
Le scrollò dal viso con un colpo di mano. Poi si avvicinò alla scala, e cominciò a scendere.
Dal basso del giardino guardò i rimasugli del pioppo perduto. Un tronco e un ramo maestro. Un riso impudente gli disegnò le labbra.
«La prossima primavera risorgerai mutilato» sghignazzò ad alta voce.

 

FINE

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