Giorgia Boragini – La regina della casa

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Racconto vincitore del concorso “Muri di storie”

 

L’anno scorso, nell’afa di fine luglio, al bar non si parlava che del destino di Palazzo Martinelli: le solite chiacchiere dei vecchi! Fra un calice di bianco e un “pirlo”, a noi abitanti storici del quartiere piace sempre spettegolare, e la storia di Augusto Martinelli era troppo succosa per non farne un romanzo: a sessant’anni suonati aveva deciso di vendere il palazzo avito per raggiungere il suo amore in Ucraina.

Non convinceva la destinazione, però: Bepi, il vecchio proprietario del bar ora gestito dall’intraprendente Chang, insisteva che sarebbe stato meglio il Brasile.

Comunque la faccenda era molto più interessante della campagna acquisti del Brescia. In seno alla famiglia Martinelli si era scatenato l’inferno: la madre e la zia dello scapolone non volevano saperne di vendere casa. Per colpa di una malafemmena, poi!

Quella sera i miei compagni di bevute evocarono ancora una volta Beatrice (sai, la sorella della vecchia), rea di aver scacciato Olga, prosperosa badante ucraina (guai a dire che era la badante, però: per loro si trattava della cameriera). Il motivo? Augusto era stato beccato dalla zia Beatrice con le mani nella marmellata, intento, cioè, a ravanare sotto la gonna della ragazza.

Era quasi l’ora di cena e si celebrava il rito dell’aperitivo. Sarà stato il ventisette di luglio o giù di lì. Ce ne stavamo, bicchiere alla mano, all’esterno del bar, precariamente appoggiati a uno di quei tavoli alti che paiono trespoli.

«Un uomo avrà pur diritto di fare i propri comodi!», aveva proclamato a un certo punto il libertario Sandrino, ex operaio dell’OM, ex attivista sindacale e comunista mai pentito, anche se deluso. «Si sarà detto: ora o mai più!».

Mi permisi a quel punto di intervenire in qualità di persona ben informata e di decano del gruppo: sono o non sono Piero Franceschini, ex farmacista del quartiere? «È impossibile fare i propri comodi con quelle due», dichiarai perentorio. «La Beatrice è rimasta vedova nel sessantacinque e, non avendo figli, da Napoli è venuta qui a Brescia dalla sorella maggiore, sposata con Amedeo. S’è chiusa in casa come una suora di clausura, e non credo che ne sia più uscita. Apriva di tanto così la porta quando portavo le medicine, e mai un grazie! Lei mica si scomodava a scendere in farmacia. Guai se le mandavo il commesso, però. Io in persona dovevo andare. Detto fra noi, quella, anche da giovane, non ci stava molto con la testa. Sua sorella Lucia l’ha sempre assecondata. Queste napoletane sono melodrammatiche, possessive, e soprattutto si danno tante di quelle arie! Ma Augusto, il figlio maggiore di donna Lucia, l’ho visto crescere: stava sempre in parte a suo padre, in bottega. Un bravo ragazzo, gran lavoratore, anche se troppo remissivo».

Donna Lucia, cioè la vecchia vedova di Amedeo Martinelli (pazienza che abbia solo un paio d’anni più di me che ne ho ottantatré), ha sempre detto che il palazzo è una dimora nobiliare, ma non ci crede nessuno. Grattata via l’apparenza pretenziosa, è la tipica casona bresciana, d’un brutto color ocra spento, piantata in un vicolo attiguo a Contrada Santa Chiara. Il nonno di Amedeo la comprò per due soldi nel 1870 da un industriale fallito, installandovi al piano terreno il proprio laboratorio di falegnameria di lusso. La ditta “Roma” – così chiamata in onore della nuova capitale del Regno – divenne a partire dal secondo dopoguerra una fiorente bottega d’antiquariato, portata al successo da Amedeo, che aveva il pallino per le cose antiche e un certo gusto per il mondo classico. Il laboratorio era stato mandato avanti poi, sempre più mestamente, dal di lui figlio maggiore, quell’Augusto pietra dello scandalo.

Incalzato dalle domande degli amici, dovetti dare seguito alle mie considerazioni: «Economicamente Augusto non è indipendente. Credo che la bottega gli renda oramai ben poco. Non ha mai avuto il fiuto per gli affari del padre. Gli piace stare in laboratorio a restaurare i mobili, e non vende niente. Paolo, il fratello minore, se n’è andato appena ha potuto: un bell’impiego in banca, una mogliettina e la villetta a San Polo. Di domenica però va sempre a pranzo dalla mamma, con tutta la famiglia».

«Dì un po’», intervenne allora uno della combriccola, «all’Augusto non bastano i soldi dell’affitto degli appartamenti?».

La suddivisione in appartamenti dell’ala sinistra del palazzo, meno ampia della porzione nobile, era stata voluta dal patriarca Amedeo, quando, negli anni settanta, gli era morto senza lasciare eredi il fratello, che occupava da solo quella parte del palazzo.

«Macché», rispose Sandrino, «lo sanno tutti che i soldi se li intasca la vecchia».

«Però la casa è dei figli».

«Certo, ma è solo una gabola per risparmiare la tassa di successione! Quando è morto l’Amedeo, la vecchia ha giurato: “Mai più soldi allo Stato!”. Ben le sta che adesso Augusto voglia vendere», concluse l’operaio vibrante di soddisfazione proletaria.

«E che gente si è presa in casa! Dico, negli appartamenti. Che sappia io ci sono almeno due spacciatori e un magnaccia», commentò Bepi che, negli anni, da dietro il bancone dell’osteria, ne aveva visti di tipi loschi.

«Bianchi, però: questo è il punto. Perché la vecchia non ne ha mai voluto sapere di negri, né di cinesi, né di pakistani. Così si è presa russi, ucraini, rumeni… Brutta gente, ma pagano in contanti!», commentò ilare il solito Sandrino che mi voleva scippare il ruolo della primadonna. Lo bloccai appena in tempo toccandogli il braccio. Tutti tacquero all’istante: Lupus in fabula, Augusto in persona, girato l’angolo, si trascinava lungo la via negli sprazzi di sole ancora cocente dell’ora che volge il disio.

Alto e curvo, con i capelli radi e la pelata imperlata di sudore, gli occhialoni spessi e certe assurde braghe di velluto – sgualcite e macchiate di vernice e di colla – il Martinelli mostrava una faccia triste, con le guance un po’ cascanti. Alzò gli occhi e si diresse proprio verso il nostro gruppetto. Rapidamente tutti distolsero lo sguardo e si finsero immersi in un’animata discussione. Io invece mi sentii in obbligo di andargli incontro. «Oh, chi si vede, Augusto! Vieni a farci compagnia per l’aperitivo».

Si fermò di colpo e ci fissò deglutendo più volte come per mandar giù un rospo. «Piero», mi disse infine, «sei in compagnia. Non volevo mica disturbarti».

«Che cosa c’è?», gli chiesi accostandomi. «Mi volevi parlare? Entriamo un momento allora. Con permesso, ragazzi». Quelli salutarono con un vago mugugno.

Chang, tutto occhi a mandorla e discrezione, dal banco aveva visto e sentito ogni cosa; con un rapido gesto del mento ci indicò la saletta interna, dove stazionavano solo un paio di tetri adepti del video poker. Gente che si fa i fatti propri, notoriamente.

«Stasera devi venire a cena da me», esordì il mio interlocutore con la disperata sfrontatezza dei timidi.

Mi stupii non poco e, di riflesso, gettai un’occhiata preoccupata all’orologio. Mia moglie, ligia all’orario bresciano, alle sette suonate doveva aver già apparecchiato la tavola.

«Ho proprio bisogno del tuo aiuto», ansimò.

Mi sentii mancare la terra da sotto i piedi: cosa avrei potuto mai fare in quella situazione? Protestai: chissà che cosa avrebbe pensato sua madre, che oltretutto non vedevo da anni, se fossi comparso a cena senza essere stato invitato!

«Ti ho invitato io, non basta?», gridò allora esasperato. Poi, pentitosi per aver urlato come uno straccivendolo, sibilò, livido di collera: «Lei ha chiamato il prete “per farmi ragionare”. La sai la storia della vendita del palazzo, no? Mia madre, mia zia e il prete: non posso affrontarli da solo! Mio fratello è al mare. Ho pensato che tu…».

Ne ebbi compassione, e, non lo nascondo, a quel punto ero roso dalla curiosità. Bisogna portare pazienza con noi vecchi: siamo tutti delle comari. Telefonai allora a mia moglie e le sentii su di buon grado. Amen!

Augusto, dal canto suo, non smetteva di ringraziare, in un berciare continuo. «Perché guarda che io non le butterei mica in mezzo alla strada. L’impresario che vuole comprare il palazzo – sai, Paolo con la banca ha tanti contatti, gente che ristruttura per poi rivendere – lascerebbe l’appartamento in uso a mia madre e a mia zia; solo una parte poi, perché, diciamolo, per due vecchie è enorme. L’impresario sarebbe disposto perfino a mettere a disposizione un altro alloggio, nuovo e funzionale. Mio fratello è d’accordo con me. Ma loro due, niente! Non ne vogliono sapere: la casa non si vende!».

«Quando uno è anziano», azzardai, «fa fatica ad accettare dei cambiamenti così radicali. A noi ottantenni non resta più molto da vivere. Devi proprio farla adesso questa cosa?».

«Devo andarmene. Non ne posso più. Punto. Anche senza la Olga. Fra l’altro non so più dov’è, e non mi risponde al telefono. Ma non importa: via me ne devo andare! O non avrò più rispetto per me stesso. E poi c’è questa impresa…».

Ah, beata innocenza, è come un ragazzino, pensai mentre m’incamminavo titubante per Contrada Santa Chiara accompagnando il figliol prodigo alla resa dei conti.

Strada nobile, la Contrada: si snoda stretta e austera sotto lo sguardo vigile del Castello. Ci si potrebbe illudere che il Carmine disti chilometri; invece è lì, a un tiro di schioppo. Io lo so bene che cosa voleva dire un tempo fare il farmacista al Carmine. E m’immagino che cosa voglia dire farlo adesso. Va sempre peggio questo nostro mondo!

Giunti quasi all’altezza dello slargo dove svetta la chiesa di San Giorgio, piegammo per il vicolo, e davanti a noi si parò la mole del palazzotto, con le lugubri vetrine della bottega d’antiquariato. Il portone si aprì su un cortile quadrato, chiuso in fondo da un muro coperto d’edera; a destra, la scala di rappresentanza che conduceva all’ampia residenza della famiglia; a sinistra, quella che portava agli appartamenti – quattro angusti bilocali, due per piano – dati in affitto, come diceva il Bepi, a pigionanti dalle origini e professioni via via negli anni sempre più varie e incerte.

Augusto salì lo scalone con passo svelto e dischiuse la porta. Prepotente, l’odore del passato m’investì: cera per pavimenti, umidità e mobili vecchi tirati a lucido, come in sagrestia; il tutto accompagnato da un intenso sottofondo di ragù. Dai più profondi recessi della casa giungeva una voce briosa: donna Lucia, a sentirla soltanto, non dimostrava più di quarant’anni. «Eh, deve scusarlo, reverendo: Augusto è in ritardo. Sempre sbadato è in questi giorni!».

Intanto il mio anfitrione indugiava sulla soglia, molto meno spavaldo, con una mano bloccata a un palmo dall’interruttore e con l’altra a tenere la porta di casa socchiusa, finché non si affacciò, appena visibile nell’ampio e buio corridoio, la grassona nerovestita che evidentemente aveva preso il posto dell’avvenente ucraina.

Subito Augusto le si rivolse per chiedere di aggiungere un coperto a tavola. La donna lo squadrò dubbiosa alla luce fioca che filtrava dalle persiane, come per valutare se fosse il caso di prendere ordini da lui, poi, senza una parola, si strinse nelle spalle e fece dietro front in cucina.

Avevo già visto abbastanza e avrei voluto filarmela all’inglese. «Senti, Augusto, io non so proprio…».

In quell’istante la luce si accese nel corridoio, e comparve donna Lucia: piccola, rugosa come un guscio di noce, e ingioiellata. «Ah, sei qui. Al buio stai, figlio mio? Il dottore ti sei portato appresso? Che sorpresa, che bellezza!», esclamò con voce forzata. Non la vedevo da almeno vent’anni, ma, dal suo contegno, si sarebbe detto che ci fossimo incontrati la settimana prima.

«Donna Lucia», iniziai con un falsetto da undicenne che m’indispettì, «lei è sempre uguale!». Non potei reprimere un leggero inchino del capo porgendole il vassoio di pastarelle che mi ero sentito in dovere di comprare per via. «Non saranno come quelle di Napoli…». Un patetico vecchio damerino, ecco che cosa sono! Ma che volete, è lo stile dei miei tempi.

«Non vi dovevate disturbare, caro dottore. Ma accomodatevi, senza cerimonie che siamo in famiglia». Prese a fare strada per le stanze fittamente ammobiliate. Cordiale, civettuola, piena di tatto mondano: sapevo bene però che era tutta scena. «Dovete perdonare mia sorella. Donna Beatrice ha il mal di testa e cenerà in camera sua. Bisogna essere indulgenti con noi vecchi!». Camminava impettita, appoggiata al bastone, sui tacchi altissimi, i capelli, tinti di biondo, freschi di parrucchiere.

La seguimmo. Augusto chiudeva la fila a capo chino.

«Conoscete don Cosimo?», domandò retoricamente la padrona di casa, varcata la soglia del salotto.

Il prete si alzò dal divano e ci venne incontro. Sorrideva in modo disgustoso. «Pace e bene, figliuoli. Sono felice di condividere questo momento di gioia. È sempre una benedizione quando la famiglia si riunisce e …».

«Eh, reverendo, non si fa così! Voi mi rovinate la festa. Augusto caro, mamma tua a chi deve pensare se non a te?».

Finalmente il mio amico alzò lo sguardo dal pavimento di marmo consunto per fissarlo, interrogativo, ora sul volto della madre, ora su quello del sacerdote, che andava assentendo col capo, come davanti a un bambino ritardato.

Fu in quell’istante che avvertii un leggero fruscio alle mie spalle accompagnato da un profumo dolciastro.

«Sorpresa!». Donna Lucia, sapiente regista della commedia, batté le mani; il figlio si girò e rimase impietrito. Sulla soglia del salotto era comparsa una ragazzona bionda con le fossette sulle guance. «Olga!», rantolò lui.

«L’abbiamo trovata, Augusto mio! Era da certi parenti a Milano. Grazie all’aiuto del reverendo ci siamo finalmente capite. Beh, mi sono detta, in questa casa c’è posto per tutti. Lei ti vuole bene, ed è questo che conta».

Diavolo d’una vecchia! Sta’ a vedere che ha trovato il modo di avere anche la badante gratis.

«Una nuova famiglia cristiana! Auguri, figli miei!».

Augusto sbiancò e si girò verso di me. «Non me ne vado più, Piero. Mi hanno fregato ancora una volta!».

Un anno è passato. A palazzo Martinelli c’è una donna in più a fare la regina. Non in grande stile come la vecchia, si capisce. Ma sapete che vi dico? Ha il tempo dalla sua parte.