Il Poeta aveva tutto pronto: una valigetta leggera, il biglietto, un indirizzo. Adesso, seduto sulla panchina ad aspettare il treno, non gli rimaneva che consultare la cartina della città di arrivo e cercare il tragitto più breve dalla stazione alla destinazione. Lo aveva fatto mille volte in situazioni ben più allarmanti in cui non conosceva nemmeno una parola dell’idioma locale, ed era andato tutto bene. Era riuscito finalmente a districarsi dai vari impegni mondani dove tutti lo strattonavano per avere il suo vaticinio sulla corrente letteraria che lo aveva visto tra i protagonisti, non come forza d’assalto, ma come solida roccia che avrebbe permesso la diffusione e la sopravvivenza del movimento (mentre i colleghi più appariscenti si abbandonavano a bisbocce varie e a viaggi esotici ed erano, a poco a poco, morti tutti). Lui no: solida roccia, era riuscito a far sopravvivere la corrente e ben più di cinquanta anni più tardi, in gran parte del pianeta, le poesie venivano lette con il ritmo da loro siglato e forse un po’ rimaneggiato attraverso il rap.
Questo angolo di mondo però resisteva e preferiva che venissero recitate enfaticamente da belle attrici rigorosamente abbigliate in abito nero con bretellina stretta o da attori anche loro preferibilmente di bella presenza dalla voce suadente e con sottofondo musicale. Meno male però che ultimamente erano migliorati: non davano più alla televisione quegli spettacoli demenziali nei quali i poeti sillabavano la propria creatività mentre sullo sfondo pittori inseguivano con il pennello il ritmo della Parola e, ancora più lontano sullo sfondo, bande rock si dimenavano nel vano tentativo di dare allo spettacolo un’impronta di sofisticato postmodernismo. L’aveva visto per caso alla RAI International e i suoi colleghi si erano sganasciati dalle risate. Era toccato a lui spiegare che la spontaneità della parola veniva difficile ai poeti di quel Paese, ingabbiati com’erano tra premi e giurie. Ma quello che forse pesava di più era la zavorra delle origini: ben due poeti di levatura mondiale che settecento anni prima, pur non avendo la possibilità di prodursi in bagarre festivaliere o in contese nei siti delle case editrici come sarebbe successo oggi, avevano tramandato due tradizioni contrastanti – uno insisteva che i poeti dovessero avere un ruolo civile ed ergendosi a giudice inflessibile in terzine baciate mandava personaggi storici, mitici e contemporanei chi all’Inferno chi al Purgatorio chi al Paradiso, mentre l’altro se ne stava chiuso nelle sue segrete stanze a contemplare la beltà di una donna morta scrivendole 365 poesie e solo saltuariamente movendo passi tardi e lenti nel mondo. Certo, da questa profonda schizofrenia originaria cosa ci si poteva aspettare? L’immobilismo era il minimo. Urgeva comunque che i poeti si dessero una mossa, perché la situazione nel Paese stava rapidamente degenerando e oggi più che mai c’era bisogno del loro canto.
A proposito di canto, rifletteva il Poeta, in realtà per alcuni decenni, alla fine del secolo precedente, erano stati proprio i cantanti, nella fattispecie dei cantautori, che avevano assolto il compito dei poeti. Lui ne ricordava uno in particolare che si era esibito nella stessa serata organizzata dagli anarchici, i suoi sponsor preferiti al primo posto in assoluto, con al secondo posto i Festival dell’Unità e un lontano terzo agli ingessati dei festival di poesia. Straordinario questo ragazzo, una specie di incrocio tra Bob Dylan e i cantanti impegnati francesi, bottiglione di vino alla destra, sigaretta tra le dita, viso che poco si prestava a strumentalizzazioni estetiche: lui sì che ne sapeva di poesia. Parlava di una fontana scura dove finisce il rosmarino, della luna che perdeva la lana, di angeli alla catena, di cani che abbaiavano ed esortava a vestire di foglie il proprio dolore e coprirlo di piume. Era capace di stravolgere in direzione surrealista i luoghi comuni cattolici e della sinistra mentre prendeva le difese dell’emarginato. Si poteva dire che avessero un programma comune, anche se declinato diversamente a seconda delle condizioni storiche dei rispettivi Paesi: peccato che se ne fosse andato anche lui; ora non rimaneva che il chiacchiericcio insulso delle televisioni qui e dei talk show nel suo Paese.
Fortuna che adesso, andando in treno, avrebbe avuto occasione di esercitarsi ad ascoltare l’eloquio popolare e ci avrebbe capito qualcosa, perché questa volta, a differenza degli anni passati, si era ben preparato. In previsione di questa fuga da quei segugi di accompagnatori che gli stavano sempre alle costole e lo scarrozzavano di qua e di là con la scusa che non sapeva parlare e si sarebbe perso, il Poeta per sei mesi si era fatto dei corsi full-immersion di italiano. Avevano cominciato con delle cose banali, tipo l’insegnante che gli chiedeva «Lorenzo, che cosa hai in tasca?», e lui che enunciava chiaramente, sebbene con forte inflessione americana, «Io ho le chiavi, il fazzoletto, tre monete, sei dollari e la patente». Tappa dopo tappa erano arrivati a poter formulare frasi al congiuntivo. Non sempre gli riuscivano bene, e aveva una gran difficoltà a seguire quando la gente parlava a ritmo normale, ma finalmente, per la prima volta in vita sua, per il disegno che ormai covava da decenni non aveva ardentemente desiderato l’invisibilità. No, questa volta si sarebbe presentato con il fulgido corpo da ottantenne arzillo, bianca la chioma, ceruleo l’occhio, berretto blu in testa (nel suo paese questo era evidente segno di artista), abbigliamento casual bordering on cool che avrebbe forse soddisfatto le pretese sartoristiche della nazione ospitante. Poi li avrebbe sbaragliati chiedendo, con la giusta combinazione di congiuntivo e condizionale sulla quale l’insegnante si era accanita per tre mesi, di poter fotografare quella che era stata la casa dei suoi avi. Non avrebbero potuto negargli la richiesta, visti gli sforzi linguistici da lui compiuti e l’amabilità della sua persona, per non parlare del senso di ospitalità, dell’attaccamento alla storia e alla famiglia che da sempre contraddistingue gli italiani. Sarebbe stato una specie di ritorno del figliol prodigo, dopo varie generazioni e vicende storico-politico-letterarie. E questo passo andava fatto da solo. Il recupero delle radici implica un’emozione violenta e profonda che bisogna vivere intensamente, senza essere distolti da obblighi verso accompagnatori o assistenti. Di questo era fermamente convinto.
* * *
Arriva il treno. Non essendo esperto nelle regole della coda all’italiana, il Nostro finisce rigorosamente per salire per ultimo e fatica così a trovare posto. Metà dei sedili sembra occupata da borse e zaini (che, a insaputa del Nostro, altro non sono che un baluardo contro una potenziale vicinanza con il prossimo, che di questi tempi potrebbe anche essere extracomunitario), un quarto da ragazzi che ascoltano l’MP3 e un altro quarto da donne e uomini impegnati a leggere i giornali o a parlare al telefonino. L’unico posto che sembra libero è accanto a un giovane africano, ma potrebbe non essere la persona giusta per esercitarsi nella lingua locale.
Sospirando il Poeta si dà un’ultima occhiata intorno, poi decide di sedersi egualmente. Si sforza di ascoltare potenziali conversazioni, ma in verità non esistono interlocuzioni. Monologhi troppo prevedibili del tipo «Sto per arrivare, aspettami davanti alla stazione», alcuni un po’ più criptici, «Sono sul treno. Tra mezz’ora puoi buttare la pasta», chiamate di lavoro, «Sì, Signora Rossi, l’appuntamento è per le tre del pomeriggio. L’aspetto», comizi d’amore, «Sì, tesoro, lo sai che non potrei mai farti una cosa del genere. Non ascoltare le malelingue, la gente ce l’ha con noi perché ci amiamo». Un congiuntivo, nemmeno a pagarlo.
Il Poeta si rassegna: non sarà un viaggio particolarmente produttivo dal punto di vista linguistico; meglio tirare fuori un libro di poesia per prepararsi al prossimo festival che lo vedrà ancora una volta calcare le scene in veste dell’ultimo vate di quella generazione.
Il ragazzo che gli sta di fronte, leggendo il titolo del libro, Howl, considerata l’età del signore e indovinando la sua provenienza, non sa contenere la curiosità e gli chiede: «Have you ever heard a Beat generation poetry reading? In my country we do freestyle, but I know that The Last Poets and the early rappers learned a lot from the Beats».
Il Nostro, avendo trovato un’insperata affinità elettiva, si scatena in un torrente di informazioni e di domande che gli fanno passare in fretta le tre ore di viaggio. Ormai, anche se lì accanto ci fosse stata la più affascinante conversazione in italiano, traboccante di congiuntivi e condizionali, non avrebbe certo rinunciato a questa perla di opportunità offertagli dal freestyler nigeriano.
Fortuna che il ragazzo scende anche lui a Brescia. Prende su una grande borsa-telone posata lì accanto e s’avvia. Per coincidenza sa benissimo dov’è quell’indirizzo: proprio in centro; ogni due settimane è a due passi da lì che stende il telo e vende le borse. I due scambiano qualche battuta su queste borse prodotte in Cina con scampoli provenienti dai designer italiani e vendute da un ragazzo di Lagos a una signora di Brescia. «It’s globalization, all right».
Il ragazzo stende il telo, sistema le borse e chiede al vicino di sorvegliare la sua merce mentre lui va ad accompagnare il signore. Arrivati a destinazione, gli indica il numero civico e lo abbraccia (il Nostro non gli ha rivelato la propria identità, ma il ragazzo è perspicace e ormai l’immagine del vate suo malgrado ha fatto il giro del mondo).
A questo punto al Nostro non resta che suonare il campanello. Preso da grande commozione, non se la sente di farlo subito: prima vuole dare una sbirciatina ai vari portoni, cercare di ricreare nell’immaginazione il vicinato dei suoi avi, il fornaio dove compravano il pane, il fruttivendolo, la farmacia, il macellaio, inalterati da almeno tre generazioni. Ora si diletta a scattar foto che un giorno forse gli serviranno per scrivere o dipingere qualcosa, per ritrovare una sua anima sepolta sotto le sedimentazioni di tempi e continenti. Gli vengono le lacrime agli occhi a pensare che la sua prima lingua sia stata il francese, che di questa bella lingua piena di vocali e di consonanti arrotondate e nette, accompagnata da gesti ora frenetici ora armoniosi, non gli sia rimasto uno straccio di imprinting: non può fare che un goffo tentativo per costringere la sua lingua ormai anchilosata a riprodurre suoni che nella sua bocca sono alieni. Lo prende una grande tristezza e, a questo punto, decide di suonare il campanello per poter scattare foto degli interni.
Il caso vuole che la signora Ferrari Maria se ne stesse lì al balcone da almeno un’oretta ad annaffiare le piante e avesse visto i vari spostamenti di questo bizzarro vecchio (non si capisce bene da lassù se si tratta di un clochard: l’ha visto abbracciare il nero che vende le borse, potrebbe trattarsi di compari), e ora qualcuno suona il campanello. Scende, la signora Maria, e se lo trova di fronte, con gli occhi rossi, chiaramente da avvinazzato, che balbetta frasi sconnesse tipo «Buon giorno signora, questo appartamento, casa Sua, voglio dire mia casa, era casa dei nonni. Qualora non le spiacesse farmi entrare, gradirei fare delle foto».
Stupita dalle buone maniere, e sospettosa della lingua un po’ inceppata e degli occhi rossi, memore dell’abbraccio al nero, Maria oppone resistenza: «Vada via, o chiamo la polizia!»
«Signora, io solo vedere casa mia, sono venuto qui da America».
Sì, e che, sono fessa? Tale e quale un americano, il signore. Che gente circola questi giorni, poi ci sono gli slavi che rubano nelle ville. Ha gli occhi azzurri, potrebbe forse essere o un albanese o un rumeno. E gli sbatte la porta in faccia.
Il Nostro rimane di sasso: tutto si aspettava, fuorché che al Figliol Prodigo sbattessero la porta in faccia.
Dopo qualche minuto si riprende e ricomincia a suonare. La signora si affaccia al balcone e gli urla: «Non ti apro, vattene, smettila di disturbare!»
«Ma signora, solo fotografie, voglio vedere casa dei nonni!» e, da bravo hippie, si siede sul gradino ad aspettare.
Maria chiama il 113: dice che un extracomunitario sta cercando di entrarle in casa.
* * *
E arrivarono quattro gendarmi con i pennacchi e con le armi… Solo che questi, in ottemperanza alle disposizioni della Bossi-Fini, pretendono la carta d’identità. Il Nostro, non ancora ripresosi dallo choc del rifiuto, se li vede avvicinare e si sente apostrofare con tono brusco: «Documenti!»
Non capendo che è tenuto a esibirli immediatamente perché non si trova a San Francisco, ma in un Paese dove vige ancora lo Statuto Albertino, si accanisce a spiegare (ma la competenza linguistica a questo punto è in netta diminuzione): «Io solo voglio fotografare casa mio nonno. Non altro. Io sono americano. Mi chiamo Lawrence Ferlinghetti. Sono un poeta, potete chiedere. Solo io voglio visitare casa di mio nonno. Non ho passaporto».
«Eh sì, mo’ tutti vogliono fare l’americano, l’americano. Ma son nati in Romanì. Ora anche i vecchi mandano in giro a delinquere, non solo i ragazzi. Dai, carichiamolo e portiamolo in questura».
Ma per fortuna, come diceva un altro grande vecchio, il questore in questura a quest’ora non c’era, e tutto procedeva a rilento. Invece di fotografare, il Nostro viene fotografato, ma non ce la fanno ad arrivare alle impronte digitali perché scatta il tempestivo intervento dell’efficientissima macchina dell’intellinghenzia del Nord-Est.
È andata così: lo sguardo attento del freestyler nigeriano ha osservato la scena, ma essendo, per ovvi motivi, incapacitato a intervenire personalmente, si è rivolto alla commessa della Feltrinelli, pallida studentessa di filosofia, appassionata di poesia che ogni tanto gli sorride e non fa un sacco di storie per il telo steso là, davanti alla libreria. «Hanno arrestato il Poeta! Per favore, mi fai vedere l’antologia dei Beat, che c’è forse una foto?»
La ragazza porta il volume e lui conferma: «È lui. Hanno preso il Poeta. E ora che facciamo?»
«Ma non doveva essere a Venezia domani? Ho il numero dell’organizzatore del festival, forse riesce ad aiutarlo lui”.
Così si ebbe una rapida conclusione della vicenda. È pur vero che le radici familiari di un certo Lawrence Ferlinghetti, rinomato poeta nonché organizzatore culturale, salvato da un promotore di festival, uno di quelli che stanno al terzo posto nella graduatoria delle persone che gli sono simpatiche qui in Italia, hanno ricevuto un forte colpo di zappa, forse origine del famoso detto darsi la zappa sui piedi. Bisogna anche riconoscere però che l’incidente dà lo spunto per il riaccendersi e riallacciarsi di affinità e coalizioni elettive e, di conseguenza, ravviva la possibilità che in futuro tutti i diretti interessati siano più propensi a definire le radici più per estensione che per profondità.
Nota – Il racconto rievoca con arguzia un fatto storico, realmente occorso a Lawrence Ferlinghetti esattamente vent’anni fa (della vicenda è stata data notizia, in particolare, nell’articolo Brescia, arrestato Ferlinghetti. Macché poeta, è un clandestino di Tiziano Zubani, pubblicato su Repubblica del 13 ottobre 2005).
Il racconto è presente nell’antologia “Oltre il confine. storie di migrazione” (Prospero Editore), in cui 28 scrittori, italiani e stranieri, hanno aderito all’iniziativa di esplorare il tema delle migrazioni da punti di vista e approcci differenti. Ne sono scaturiti 28 racconti che affrontano l’argomento permettendoci di viaggiare oltre il confine del tempo e dello spazio, muovendoci tra Storia, attualità e futuro prossimo, tra narrazioni realistiche ed estrapolazioni fantastiche. Un’antologia preziosa che fa della parola il centro di un’opera di resistenza civile e culturale contro l’indifferenza e indaga l’argomento considerandolo per intero, non soltanto pensando al qui e ora. 28 storie appassionanti che ci faranno vivere l’esperienza in prima persona.