Anna Ettore – La notte degli zingari

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Ci andavo per la prima volta. Era la fine di febbraio, l’accampamento degli zingari era stato segnalato nei campi dietro all’abbazia di Chiaravalle. Sul camper dell’associazione che porta assistenza medica sedevamo in tre: oltre a me, la dottoressa, che era anche autista, e Mariana, la mediatrice culturale. L’ultima ragazza del gruppo ci seguiva in moto. Facevo parte di quella associazione da diversi anni ma, tra le varie attività a cui avevo partecipato, non mi era mai capitato di lavorare con i nomadi. Da un certo punto di vista la cosa mi disorientava, visto che non avevo familiarità con la loro cultura. Nonostante la mia passione per ciò che era lontano da me, provavo un leggero disagio. La strada costeggiava il vecchio borgo, lo superava e proseguiva verso le campagne. Il camper avanzava nella notte, ai lati della strada ancora qualche striscia sottile dell’ultima foschia invernale. Stavamo attraversando una dimensione sospesa tra buio, nebbia e campagne, perdendo progressivamente il senso del luogo, del tempo e della cultura.
A un tratto Mariana segnalò alla guidatrice che il campo rom si trovava sulla sinistra.
“Bisogna lasciare la strada. Entra nel campo e prosegui.”
Il mezzo fece una deviazione verso i prati, sobbalzando per l’irregolarità del terreno. Traballava ogni cosa all’interno e le antine dei mobili si aprivano e si richiudevano sbattendo, seguendo il movimento irregolare del furgone. I fari del camper illuminavano il terreno che dovevamo percorrere. La strada asfaltata era rimasta alle nostre spalle e avanzavamo sullo sterrato nel fango. Le chiazze d’erba spelacchiate venivano schiacciate dalle ruote che arrancavano. Un taglio spesso di cartone, posto sul limitare di un fosso, forse stava a segnalare un punto in cui era possibile l’attraversamento. Le luci rendevano visibili grossi ratti che fuggivano disturbati dalla nostra presenza. In quel momento, varcato il ponticello, entrammo nella terra di nessuno, la no man’s land di una guerra che non sapevo si stesse combattendo, un luogo che non aveva padroni.
Non si vedeva più niente alle nostre spalle, e purtroppo ancora niente davanti a noi. Proseguimmo nell’oscurità più totale senza riferimenti e a quel punto una parte di me si rese conto che, in fondo, eravamo quattro donne nella notte. Mi chiesi quale solitudine o desiderio di avventura mi avesse portato laggiù. Perché stavo sempre dove i confini della realtà si sfilacciano fino a perdere consistenza? Che cosa mi spingeva a cercare sempre l’estremo, a uscire dalla corte del principe come Siddharta, o a non cercare mai di entrarvi?
Capii che anche l’autista era nervosa. Forse era insicura della guida in condizioni così incerte o percepiva quel frammento di assurdità che ci aveva portato in quella situazione.
“Manca molto?” chiese la dottoressa “non si vede niente”.
“Ecco,” rispose Mariana “In fondo ci sono delle luci, deve essere il generatore dell’accampamento”.
Il camper continuò ad avanzare verso dei piccoli lumi flebili come frammenti di lucciole. Non si poteva più tornare indietro. Provavo la sensazione di varcare una soglia spazio temporale, un luogo mitico: in quel prato di periferia stavamo attraversando tutte le età che erano trascorse dalla misteriosa migrazione degli zingari, da quando avevano lasciato l’Asia, e avevano cominciato a viaggiare diventando nomadi.
All’improvviso, vomitati dalle tenebre, sbucammo sullo spiazzo antistante l’accampamento. Nel debole chiarore si vedevano malconce baracche di compensato e macchine parcheggiate. Un generatore stava rumorosamente svolgendo il proprio compito. Il camper parcheggiò con una manovra circolare e cercò di sistemarsi in modo da essere operativo.
Aprimmo la porta per scendere e subito l’umidità maleodorante e fredda della notte lombarda mi richiamò alla realtà. Il viaggio era sembrato un sogno.
Ci raggiunse Paola, l’operatrice in moto.
La dottoressa prese in mano la situazione: “Scarichiamo il tavolo e le sedie e sistemiamoci qui fuori con le schede per i dati. Io preparo l’interno, così cominciamo a fare le visite”.
Gli abitanti dell’insediamento ci furono subito vicini. Una piccola avanguardia di rom venne a salutarci e ci osservò. Probabilmente erano stati informati del nostro arrivo. Un paio di ragazzotti ci sorrisero e cominciarono a parlare con disinvoltura.
“Buona sera Mariana, siete arrivati?”
“Christian, come stai? Abbiamo fatto fatica, non si vede niente dalla strada, non eravamo sicuri del punto di attraversamento.”
“Ci siamo messi all’interno per non essere visti, la polizia sa ma non è mai venuta fino a qui”.
Mi guardai attorno nel chiarore distorto: le luci fredde del generatore avevano preso il posto dei falò. A un lato dell’accampamento vi erano cumuli di immondizia e i rifiuti erano sparsi al bordo di una ristretta area calpestabile. Ai limiti del cerchio di luce si vedevano scorrazzare creature che squittivano.
L’amico di Christian si avvicinò. “Come ti chiami?” mi domandò sorridendo.
“Nadia”.
“Io sono Florian” mi disse col suo forte accento straniero. Approfittai subito per parlargli in rumeno. “Parli la nostra lingua?” mi chiese.
“Un po’. Anche tu, per favore, che devo fare pratica”.
Florian era contento “Dove l’hai imparata?”
“Ho visitato il paese. Studiavo la letteratura, ho letto anche la poesia”.
“Bello!” esclamò Florian con trasporto. Anche se non ero sicura che sapesse di cosa stavo parlando, probabilmente l’interesse per qualcosa che sentiva appartenergli lo rendeva felice.
“Se vuoi facciamo un giro del campo”. Mi fece strada sui viottoli tra le baracche. Erano quasi tutte casupole sghembe di compensato, coperte da teloni di plastica con dei pannelli di tela a coprire l’entrata. In certi casi erano così vicine tra loro che non si riusciva a distinguerle. Florian si avvicinò a una famiglia che ci stava osservando dall’ingresso del suo abitacolo.
“Buona sera. Ci sono i medici per fare delle visite. Possiamo entrare? Voglio far vedere la casa a questa ragazza”.
L’uomo, scurissimo e robusto, stava sbocconcellando una coscia di pollo in piedi, davanti a noi, con grande naturalezza. Mi guardò e poi, sempre addentando la carne, annuì col capo.
“Non c’è problema. Avanti”.
All’interno mi colpì l’odore di stantio e il livello di sporcizia, troppo elevato per il mio senso di comfort. Non mi aspettavo di vedere appoggiata a una parete una scopa che aveva tutta l’aria di essere utilizzata per fare le pulizie. La donna mi precedette e mi mostrò la casa con un gesto della mano.
“Prego. Queste sono le mie due figlie”.
Le sue bambine, con trecce scure e gonne lunghe che sfioravano il pavimento, sembravano lei in miniatura: piccole bambole zigane. Ogni dettaglio del vestito era coerente con ciò che avrei potuto immaginare.
Elevato di poco rispetto al suolo scorsi un fornello a gas su cui stava bollendo una pentola con una zuppa di verdure. Mi colpì anche vedere che i rom cucinavano come tutti noi. Il particolare mi lasciò intuire che la realtà non si limitava a ciò che vedevamo, o credevamo di vedere, ogni giorno. Un tramezzo separava una camera, con letto e coperte, del tutto simile alle nostre se non per il fatto che stava su un telo di plastica poggiato sul terreno umido.
Sorrisi alle due bambine che mi guardavano con occhi sgranati. Decisi di puntare sulla lingua e mi rivolsi a loro. “Sei rumena?” intervenne la donna appena mi sentì parlare.
“No, ho studiato la lingua… Da quanto tempo vivete qui?”
“Un anno, prima stavamo in un altro campo, ma ci hanno sgomberato. Siamo venuti qui, con le altre famiglie.” Guardai le bambine e cercai di immaginare come potessero trascorrere le notti in quelle baracche fredde e umide. Ma forse, se ci si era nati, in qualche modo, inevitabilmente, ci si abituava.
“Adesso torniamo al camper perché ci sono le visite. Se qualcuno ne ha bisogno, ditegli di venire là”.
Mentre ci incamminavamo verso il camper riflettei su quello che avevo visto, sulle case che abitavano, e mi interrogai su quale fosse l’anello mancante. Avevo bisogno di qualcosa per comprendere o giustificare quel modo di vivere. Quale cultura ti poteva spingere a vivere sempre ai margini della società, a sopportare fame, freddo e disagio senza alcuna altra prospettiva che quella di vivere il domani esattamente come oggi? Cosa ti dava la forza o ti faceva trovare un senso?
Tornai al camper dove le mie colleghe avevano già cominciato a raccogliere i nomi di chi voleva farsi visitare. Un crocchio di persone stava aspettando impaziente. Facendomi largo tra la folla mi sedetti al tavolino pieghevole e mi accinsi a compilare le schede statistiche. Una donna mi porse il suo documento di identità per aiutarmi a capire più facilmente il suo nome. Compilai con una certa concentrazione e feci anche qualche domanda sulla sua anamnesi: alcool, fumo e malattie pregresse.
“Hai avuto figli?”
“Sette”.
“Interruzioni di gravidanza?”
“Naturalmente! In quindici anni di matrimonio…”
“Quanti aborti?”
“Dieci”.
Alzai gli occhi dal foglio che stavo compilando e la guardai in faccia, lasciando trapelare il mio sbigottimento. Avrei voluto dire qualcosa ma non sapevo cosa.
Il paziente successivo aveva una gamba sola, arrivò saltellando faticosamente sulle stampelle. I suoi vestiti erano laceri e sporchi come il viso.
“Buonasera” dissi, facendolo accomodare su una sedia davanti a me “Per fare la visita mi deve dare il suo nome e cognome”.
“Stelian Radu”.
“Data di nascita?”
“1969, ma non so il giorno e il mese”. Gli avrei dato almeno sessantacinque anni al posto dei quaranta che aveva. Quasi tutti invecchiavano presto, molto prima dei trent’anni le donne cominciavano ad appassire.
Domanda di rito: “Lavora?”
“No,” mi rispose con tono di meravigliata ovvietà, “chiedo l’elemosina”.
Mentre annotavo mi cadde l’occhio sulle sue gambe. Una era recisa sopra il ginocchio e l’altra fasciata con una benda lurida. Finii le domande e lo accompagnai all’interno del camper perché la dottoressa aveva bisogno di un’interprete.
Stelian si sdraiò sul lettino e la dottoressa gli sollevò il pantalone dalla parte della benda. Quando tolse la fasciatura scoprì un’ enorme piaga purulenta. La dottoressa iniziò a medicarlo ripulendo la carne infetta.
Mi veniva la nausea e mi faceva senso la vista di quella ferita aperta. Avrei voluto andarmene subito fuori ma le sue parole mi costringevano a restare.
“Digli che la ferita che ha è molto grave. Soffre di una forma di ristagno venoso che gli provoca infezioni. E’ probabilmente per questo che ha perso l’altra gamba”.
Tradussi le sue parole sforzandomi di non guardarla mentre lavorava.
“Digli che deve andare all’ospedale, altrimenti gli taglieranno anche l’altra gamba”.
Feci del mio meglio in una situazione che mi metteva in difficoltà. Tentavo di fargli capire la drammaticità del problema perché avevo l’impressione che lui avesse un atteggiamento troppo fatalista. “Ricordati di andare all’ospedale. È importante”.
“Va bene. Ci andrò”, assicurò allontanandosi.

*     *     *

La serata si stava concludendo. Christian era sempre seduto accanto a noi, scherzava continuamente e giocava con la torcia che usavamo per illuminare i fogli. Stava cercando, per quanto gli era possibile, di metterci in contatto con la gente, forse per far superare agli altri rom la diffidenza nei nostri confronti.
A un tratto, da un angolo nell’oscurità, udimmo la musica accattivante di una fisarmonica. Il suono si avvicinò e il musicista uscì dall’ombra. Accanto a lui, un altro uomo attaccò a suonare un violino e cominciò a cantare. Subito i presenti iniziarono a battere le mani, le donne ridevano e qualche bambino si mise a sgambettare.
Non sembrava certo il luogo per una celebrazione, ma loro avevano cominciato a festeggiare, forse per salutarci. La musica, vivace e allegra, in un attimo ci trasportò in un luogo perfetto in cui c’era posto anche per la gioia. Immediatamente ripensai ai confini angusti della nostra esistenza quotidiana, dove ogni cosa aveva un tempo e un modo prestabiliti, quasi che il freddo e il buio fossero un limite imposto dalle convenzioni.

Guardai Christian: era un ragazzo alto, con occhi scuri e brillanti. Emanava una vivacità schietta e aperta. Indipendentemente da lui, provai sgomento. In quel momento della mia vita avevo perso ogni punto di riferimento e non vedevo più orizzonti conosciuti. La sua istintività acuì il mio senso di smarrimento. Non lo conoscevo, e lui non conosceva me. Non eravamo niente l’uno per l’altra. Immaginai i fluidi che scorrevano nel suo corpo. Avrei voluto essere come lui, avrei voluto essere lui e possedere la sua forza. Fui travolta dalla mia nuova consapevolezza: avevo trovato in lui una ricchezza, la prepotente energia di un nomade. Avrei voluto rubargli qualcosa, la sfrontata vitalità con cui affrontava il destino. Avrei voluto rubare a uno zingaro il suo corpo, il suo senso della vita. Perché avevo bisogno anch’io di sangue, di sale e di allegria, per far funzionare le vene del mio corpo stanco, dare sapore al cibo che avrei consumato su quella terra e riempirmi la pancia di nuovi inizi e continue rigenerazioni.

I volti di quella sera turbinavano nella mia mente. Capii perché ero lì, nonostante il freddo e i rifiuti, che cosa stavo cercando. Avevo bisogno di fuochi notturni e canti perché la vita è continua ricerca di armonia perduta, è un’illusione di senso smarrito che stentiamo a ritrovare. Avevo bisogno di polvere sotto le scarpe per mostrare a chiunque quanto anch’io avevo camminato e quanta fatica c’era dietro a ogni passo per chi era nato ai margini di quell’accampamento che chiamiamo amore. Avevo bisogno di quella luna stanca e vivida, che ci guardava dall’alto, di affrontare il muschio oscuro del mio ventre e la disgregazione della mente, camminando sospesa sul filo del senso. Che cosa ci ostinavamo a spazzare e pulire e ordinare? Tutto era, comunque, fuori dal nostro controllo. Come era ridicola a volte la nostra vita.

Non sapevo cosa percepisse Christian della mia cupezza, ma mi guardava spesso e mi sorrideva.  Era incuriosito dagli altri. Era come un animale sano che viveva perché l’esistenza ha già in sé il suo significato. Ma tutto questo richiedeva coraggio e accettazione. Ci voleva un insolente senso della libertà e della morte per accogliere quella vita.
“Nadia” mi chiese, “sei sposata?”
Scossi la testa.
“Fidanzata?” insisté.
“Non ne voglio parlare”, risposi con un sorriso di circostanza. Ne rimase colpito.
“Mi dispiace”. Poi riprese “Scusami ancora”. Mi confortò la sua preoccupazione, mi sembrava un segno di rispetto per ciò che in ogni momento della nostra vita tendiamo a dimenticare: che noi non siamo sempre sostituibili, e gli altri non lo sono per noi.
“So che sono fatti personali”.
“Non c’è problema, Christian. Non ti preoccupare”. Guardandolo mi resi conto che in quel momento avevamo qualche cosa in comune. In fondo eravamo tutti nomadi dei nostri sentimenti; le cose andavano e venivano, si muovevano continuamente. Bisognava solo imparare ad assecondare il movimento. Era chi non si spostava mai a vivere nell’inganno.
Quando ci congedammo mi rammentò “La prossima volta che torni ricordati di portarmi una torcia in regalo. Mi raccomando, tra un mese”.
“Volentieri”.
“Ci rivediamo” mi disse stringendomi la mano.
“Lo spero” risposi. E lo speravo veramente.
Richiudemmo il tavolino e le sedie pieghevoli. Alla fioca luce del camper sistemammo gli attrezzi e le cose che ci erano servite. Quando ci sporgemmo per richiudere la porta vidi che lo spiazzo era ormai deserto e tutti i rom sembravano essersi volatilizzati. “Hai visto” dissi a Mariana “Sono andati via in un attimo, sembrano scomparsi”.
“È così. Non te ne accorgi e spariscono tutti insieme, senza salutare”.
Mettemmo in moto il camper e ci allontanammo nella notte: questa volta gli spiriti erranti eravamo noi.

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Anna Ettore è nata e vive a Milano. Si è laureata in lingue e letterature straniere e lavora come bibliotecaria e interprete. Ha frequentato per alcuni anni la Scuola Forrester di scrittura creativa della Casa Editrice Tranchida. Crede che il suo destino sia diventare scrittrice e nel frattempo si appassiona a culture, lingue e paesi lontani.

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