Fiorenzo Dioni – Opinioni differenti

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    Le dune si muovevano, lige agli ordini del vento che le ridisegnava ogni mattina, momento dopo momento: forme surreali che sembrava si rincorressero per correggersi a vicenda, mai soddisfatte del risultato, quasi consapevoli di rappresentare l’immagine di quel posto. Di quel paese. Vortici, a volte leggeri e precisi, a volte forti e confusi, coloravano l’aria in quel giorno di cielo limpido. Immagini oniriche, che apparivano sulle pubblicità di chi viveva un mondo ricco, distante da lì. Ma ricchezza lì non ce n’era, nonostante lo sforzo del vento per essere un pittore, a dipingere su tele di sabbia che apparissero intriganti ai ricchi occhi dell’altro mondo. I mulinelli si creavano e disperdevano al ritmo di raffiche leggere: nascevano e sparivano continuando a dare vita a una scenografia e bicolore. Sabbia e aria. Visioni superficiali per gente lontana e arroccata al proprio cemento, ma in quel posto quelle visioni erano un film, che non ci si stancava mai di rivedere.
    Appoggiato con i gomiti al bordo della finestra, l’uomo osservava ogni mattina quello spettacolo, come se stesse guardando un canale televisivo, che però intrattenesse con programmi mai uguali l’uno all’altro; e ogni giorno ne godeva, pensando che mai si sarebbe stancato di ammirare anche la più piccola sfumatura della sua terra. Tempo per perdersi ce n’era, quello non contava molto, non era un concetto prioritario, tenerne conto era un esercizio inutile. Tempi e modi, cause ed effetti: gli elementi meno costruttive in quell’angolo di mondo.
    Oltre le dune, il dipinto del vento scendeva dove l’uomo non poteva vedere, ma sapeva che quella nebbia polverosa sarebbe poi atterrata sulla spiaggia che tratteneva l’oceano, dove ogni tanto si andava per un’antica gioia dei bambini. E il sole sorvegliava tutto dall’alto, ancora in ascesa prima di raggiungere il suo apice.
    Sull’unica strada, che divideva in due il piccolo agglomerato di case, si muoveva poca gente che faceva tappa nelle rare botteghe del posto, ma già desiderosa di tornare a casa per ripararsi dal caldo. I pochi uomini che sfidavano la canicola erano coperti da turbanti e lunghe vesti, per proteggersi; per le donne, impegnate a fare un minimo di spesa alimentare per quel poco che offriva il posto, coperto doveva essere anche il volto. Il lavoro, per chi non aveva una bottega, era cosa rara: la realtà costante e diffusa era la povertà. Eppure, il senso di appartenenza a quel mondo dimenticato non mancava, nonostante tutto, e il perdersi a guardare distrattamente quella vita, seppur lenta e ripetitiva, era un gioco comune a tutti.
    Il sole era quasi arrivato a destinazione, perpendicolare alle teste della gente, e la strada si stava svuotando velocemente: il progressivo chiudersi di porte e finestre anticipava un silenzio irreale. Rimaneva solo la voce del vento.
    L’uomo era rimasto alla finestra. La sua attenzione ora era rivolta all’entrata del paese, dove a breve sarebbe apparsa la sua donna, dopo aver fatto i soliti venti chilometri a piedi per andare e tornare dal mercato a prendere un sacco di riso. Era partita presto. Quel giorno era toccato a lei.
    Dietro di lui un vecchio televisore, con improbabili antenne da registrare ogni poco, gracchiava gli avvenimenti che accadevano nel mondo: ormai il male diffuso e costante aveva inibito lo svago televisivo, a favore di continue informazioni di qualsiasi genere. Oppure mirate: dipendeva dal momento e da cosa dava più ritorno economico.
    “Papà, che succede in quei posti?”. La voce dal bambino superò il gracchiare del notiziario.
Il padre si voltò verso di lui sorridendo, perdendosi nei suoi occhi scuri, che in quel momento erano espressione di curiosità accesa. Aveva otto anni ed era ancora nel pieno dell’entusiasmo per ogni cosa che gli capitava d’incontrare, senza badare troppo alle convulsioni degli adulti.
    “Dove?”.
    “Nella televisione. Ci sono immagini di città tutte vuote, senza nessuno in giro, e poi gente che discute e litiga. Dove sono?”.
    “Sono in Europa. Le città sono vuote perché sono tutti chiusi in casa. Hanno un grosso problema in questo momento, che gli impedisce di uscire”. Sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto spiegargli la cosa, ma voleva farlo in modo progressivo, senza spaventarlo troppo. Anche perché le ovvie domande sarebbero arrivate con le tipiche enfasi e ansie dei bambini.
    “Cos’è l’Europa?”.
    “È un posto lontano da qua, a ovest”.
    Da lontano, una figura prendeva lentamente forma nella calura, come un effetto morgana, ma poi apparve chiaramente sua moglie. La donna avanzava ingobbita, carica del sacco che era valso la lunga strada percorsa, ma camminava velocemente per fuggire il caldo e forse qualcos’altro. Quando entrò in casa, lasciò cadere il peso con lo sguardo di chi è sfiancato dalla fatica, ma non mancò di regalare un sorriso, anche solo per essersi riunita alla sua famiglia. Il bambino le rimandò un bacio volante ma rimase a guardare la televisione, attratto da ciò che succedeva lì dentro.
    “Che problema hanno?”.
    “Un virus sta uccidendo tante persone, e non erano preparate a questa cosa”.
    “Anche noi abbiamo quel virus?”.
    Il padre chiuse le imposte, si girò e guardò il figlio con occhi tristi: “No, noi non abbiamo quel virus”.
    Pronunciò quest’ultima frase lentamente. Abbracciò il figlio e lo strinse a sé, per godersi quell’innocenza che ancora gli dava l’opportunità di credere nella speranza, l’opportunità di essere padre, di insegnare e di dimenticare la malattia che ogni giorno infettava la sua terra. Una malattia diversa da quel virus televisivo.
    Si sedette col bambino, sempre tenendolo stretto a sé, per seguire quegli accadimenti.

    Fuori era ormai deserto completo: tutti erano rientrati in casa. Ma ora la voce del vento non era l’unico rumore che proveniva dall’esterno: da lontano qualcosa di simile a un fischio si era unito alle sue folate, disturbandone le creazioni.
    “A me sembra che stiano litigando. Se devono risolvere il problema, perché litigano?”. La voce del bambino arrivava distorta dall’abbraccio che lo teneva stretto.
    “Non lo so. Forse stanno decidendo la cosa migliore da fare e non sono tutti d’accordo su quale sia la strada giusta. Avranno opinioni differenti”.
    “Per fortuna noi non abbiamo quel virus, così non dobbiamo neanche litigare”. Finì la frase con un sorriso.
    Gli occhi dell’uomo si abbassarono a guardare il figlio, senza dire altro.
    La voce della madre interruppe il silenzio dell’abbraccio: in mano un grosso piatto pieno di riso, con in cima un piccolo cerchio fatto di poche verdure e un sugo a condire il tutto. Il riso era tanto, il condimento misero, ma il bambino saltò dalle ginocchia del padre con l’entusiasmo di chi, affamato, vede il cibo più buono del mondo.
    Il rumore distante, che aveva fatto la sua comparsa poco prima, era ora più vicino. Anche il vento sembrava essersene andato, offrendogli totalmente il palcoscenico. Gli adulti ci fecero caso senza dare enfasi al loro comportamento. Si sedettero a tavola e cominciarono a mangiare. In silenzio. Portavano il cibo alla bocca a occhi chiusi, lasciando che solo il bambino si affrettasse a ingurgitare quello che aveva davanti.
    Il suono che arrivava da fuori era ormai ben distinto, sempre più vicino, costante nel suo crescere e veloce nella sua corsa. Il padre strinse gli occhi ancora di più. La madre li aprì di colpo, sbarrandoli. Il bambino mangiava allegramente. Il sibilo crescente era diventato un fischio insopportabile: gli aerei passarono sui tetti delle case volando radenti. Superarono il paese e il rumore si perse lontano; l’uomo rilassò le palpebre, e riapri lentamente gli occhi. Era abituato a quei momenti ma, anche se duravano pochi secondi, ogni volta era un tuffo al cuore. La guerra, in quel posto, era un virus che non aveva tempi prestabiliti, e l’unica difesa di quella gente era sperare, di volta in volta, che non toccasse a loro subirla.
    Quel giorno sembrava che gli aerei fossero passati senza fare danni, e l’uomo riprese a mangiare, senza mancare di fare una carezza a suo figlio. Ma il sibilo tornò, più veloce di prima: si fece vicino rapidamente e divenne assordante di colpo.
    Il tetto si squarciò e, per un brevissimo istante, luce e calore invasero la casa: la bomba esplose esattamente nel centro del piatto. Riso, verdure e sugo vennero polverizzati all’istante, diventando parte dell’aria malata che aveva infettato quel posto. Vita, cibo, terra, cielo, tutto era diventato vapore che, per un breve tempo, si sarebbe piegato agli ordini del vento, contento di avere nuovo materiale per i suoi giochi di pittura.
    La nuvola di polvere che si creò sembrava disegnarsi a forma di anime, che ora erano libere dal virus che ammorbava quel pezzo di terra. Un virus voluto, creato e poi dimenticato. Diventato parte integrante, quotidiana di alcune vite che per troppi non avevano alcuna importanza; anzi, in quel momento avevano ancora meno importanza del solito.
    O forse per qualcuno ne avevano ancora, ma che l’avessero o meno era una cosa da discutere. Prima o poi. Senza fretta. Ora c’era ben altro da affrontare. Sì, prima o poi, forse, avrebbero discusso di quelle vite, e magari avrebbero anche risolto.
    In fondo, era solo questione di far combaciare opinioni differenti.

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Fiorenzo Dioni nasce a Brescia nel 1963. Progettista di professione, scrittore per passione, scrive da sempre, ma ha cominciato a pubblicare solo pochi anni fa. Ama scrivere racconti ispirati a situazioni quotidiane, dandogli poi una veste surreale e di fantasia. Ha pubblicato tre libri: “Porte”, composto da tre racconti lunghi, “Riflessi”, un progetto in collaborazione con una fotografa in cui si sono incontrate e confrontate immagini e parole, “L’uomo in scatola”, pubblicato da Calibano Editore, composto da 19 racconti surreali. Da uno di questi è stato tratto il fumetto “Mio padre, il tango” (Calibano, 2023). Ha partecipato a varie antologie di racconti a tema, tra cui “Anch’io. Storie di donne al limite”, “Ci sedemmo dalla parte del torto”, “Nulla per cui uccidere” (Prospero Editore), e “I racconti della Leonessa” (Calibano Editore). Altri suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista Inkroci, con cui collabora anche per recensioni di libri e dischi nelle rubriche “Attenti al libro!” e “Formidabili, quei dischi!”. In passato ha scritto recensioni per le riviste NB e Dentro Brescia.

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