Stefano Testa – Memorie di un fiume dimenticato

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I faggi dai tronchi grigi abitati dagli argentei licheni e, più in basso, gli antichi, contorti castagni del Monte Cavallo mi tengono amabile e silenziosa compagnia mentre, placido, scendo la valle verdeggiante attraverso anse dolci e balzi scintillanti.

Il mio itinerario non cambia mai, ma questa non è per me ragione di tedio, sia quando la tempesta invernale mi intorbidisce un po’ i pensieri, sia quando il solleone, prepotente, li impoverisce.

Ho sempre tante cose segrete da raccogliere e portare con me, come infantile ricordo: una foglia tondeggiante di acero, una castagna addentata dallo scoiattolo, il ramo di frassino dalla forma curiosa che aveva impaurito lo schivo brocciolo, facendolo rinquattare sotto il sasso muschioso.

Son passatempi da fiume dimenticato questi, lo so.

Raramente incontro gli stivali del pescatore sentimentale che ancora si spinge quassù, tra le mie rocce e le mie pozze a cercare, antico guerriero, la trota nera, quella che, con i suoi guizzi improvvisi, è ancora capace di donare soddisfazioni nella atavica competizione tra forza ed astuzia.

Per il resto, scorro appartato e sereno: rifletto, fedele, l’azzurro del cielo della mia valle e il volo solitario della poiana, spumeggiante supero scalpitando vecchie cascate ormai diroccate, pigro mi sdraio per un breve momento lungo la piccola piana dei Fonti, salutato dalle fronde ombrose degli ontani e dalle pungenti robinie, prima di scendere finalmente giù, fino ai tetti di Porretta, che amano ancora specchiarsi nelle mie acque increspate.
Annuso estasiato l’odore del pane appena uscito dal forno sotto il ponte dei sospiri, spio benevolo i misteri domestici nelle finestre dietro la piazza e poi, leggero tra le papere mute e le oche curiose, mi getto ad abbracciare il mio fratello maggiore Reno, per cominciare un viaggio ancora diverso.

Non è stato sempre così, tuttavia.
Un tempo fui un fiume socievole e, a tratti, mi sia concesso, quasi mondano.
Appena l’ostinato sole di giugno cominciava a scaldare i miei sassi rotondi e levigati, nei giorni lunghissimi nei quali il muraglione curvo della quinta cascata si divertiva a scottare i pallidi piedi invernali, quando i girini avevano finalmente visto spuntare le loro zampe di rospo e orgogliosi abbandonavano le pozzanghere protette per perdersi nel vasto mondo, allora venivo visitato, con mia grande gioia, da molti di quelli che vi furono avi.
Portavano spesso, per rustico copricapo, larghe foglie di bardana e le umili mutande, tra loro, erano più frequenti dei dignitosi costumi da bagno.
In principio, lavoravano con grande fervore: schiere di ragazzini, ai sapienti ordini dei più anziani ed esperti, provvedevano a ripulire le pozze e i bonzi da rami, vetri e pietre troppo aguzze, per ottenerne maggior profondità e sicurezza.

Sorgevano passerelle e dighe, costruite con tronchi di ontani e di pioppi e, col penato affilato, si tagliavano le fronde che portavano ombre non desiderate.
Tutto era tanto in ordine, alla fine, da parere un giardino.

E dopo, quando l’estate trionfava, finalmente arrivavano tutti: le famiglie vocianti con le crescenze e il vino aspro nei panieri di castagno coperti dai tovaglioli a quadri rossi e bianchi; gli anziani scontrosi che rimanevano in disparte sulle loro seggiole di paglia scuotendo ogni tanto la testa canuta; gli innamorati che, dopo aver inciso il loro giuramento sul tronco levigato del frassino, scendevano in acqua rapiti, con la mano nella mano; i bambini, moccicosi marinai coraggiosi a cavallo dei neri copertoni di camion.
Ho visto amori di un’estate nascere tra le canzoni dei mangiadischi, i matrimoni e i tradimenti, ho visto il tronfio tuffatore livornese in cuffia bianca tentare il volo d’angelo dove non c’era acqua tra le risate di beffa dei bagnanti di montagna, ho visto la biscia d’acqua catturata e spellata viva da adolescenti crudeli…

Sopportavo di buon grado in quei giorni perfino che la mia acqua, solitamente di un trasparente verde smeraldo, divenisse bruna e fangosa per via di tutto quel turbinante, ubriaco scalpiccìo dei mille piedi sul mio fondo sabbioso.
Quella era festa, perdinci!

Ma se mi chiedessero di ricordare solo una cosa di quella ingenua età dell’oro, se dovessi portare con me un unico ricordo della mia felicità trascorsa , nel consueto viaggio fino alla Torre di Bellocchio, fino al mare, insomma, non avrei dubbi: la mia memoria andrebbe sicura su quella notte di luglio del ’63.

Era una sera trasparente, di luna nuova.

Nel buio assoluto le stelle splendevano così silenziose e prepotenti sulle mie acque argentate da incutere quasi timore.

Il barbagianni pensoso sulla passerella vegliava misurando le coordinate dell’universo, mentre il topo di campagna si era nascosto veloce sotto il tronco del vecchio pioppo caduto.
Tutto dormiva: le lasche dorate nella loro tana segreta, i piccoli merli nel nido sul biancospino, il fagiano vanitoso nel cespuglio di rovi.

Improvvisamente, sentii voci di ragazzini, eccitate e impaurite.
Salirono sull’alto muraglione della quinta cascata ed uno di loro, con una torcia elettrica illuminò lo spigolo della fine del muro.

Molto più sotto, l’acqua, profonda e buia.
Uno dopo l’atro, ridendo ed urlando per vincere la paura, corsero e saltarono giù, nelle tenebre illuminate da milioni di lucciole.

Quello fu il momento più alto di felicità delle intere loro vite, ne sono sicuro.

Come del resto lo fu anche della mia, la vita scarna del Rio Maggiore.

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Stefano Testa è nato a Roma nel 1949. Da sempre vive nei pressi di Porretta Terme. Ha fatto molti lavori: il redattore nello storico programma Rai "Gli eroi di cartone", il bibliotecario, l'addetto stampa in una stazione termale, il musicista. Un suo LP del 1977, "Una vita, una balena bianca e altre cose", concept album sulla vita di Cesare Pavese, viene considerato un piccolo gioiello del rock progressivo italiano. Nel 2012 ha inciso "Il silenzio del mondo" e, nel 2016, la suite "Andrea il Traditore". Ha pubblicato "Qui, farci quel vento" (Prospero, 2018), una vasta raccolta di racconti che si compone di due libri autonomi, "La Guardiana" e "La Grazia".