David Valentini – È la legge

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Oggi sono vent’anni precisi. Me n’ero quasi dimenticato.
E forse non ci avrei più pensato se non ti fossi fatto intervistare proprio oggi. Guardati come sei tronfio, come fissi la telecamera, come ti porti con eleganza e superbia il soggolo giallo oro. Tu ci sei rimasto nella PS, non ti sei cagato sotto, non hai avuto sensi di colpa. Io invece no. Ma lavorare in macelleria non è poi così male, sai? Anche se hanno aperto quell’Ipercarni proprio dietro casa mia, e l’Auchan ha sempre quelle cavolo di bistecche a metà prezzo.
Abbiamo agito secondo la procedura, dici, riportando l’ordine nel campo rom. L’abbiamo fatto in nome della legge. È la legge, e la legge va sempre rispettata.
Il TG3 e i suoi montaggi piatti, le sirene della Peugeot 508 scorrono in sottofondo mentre parli con vanagloria di come hai organizzato i tuoi uomini, di come quei poveracci sono finiti in manette.

Perché non gli racconti di tutte le volte che sei passato col rosso con la 155? Di quando accendevi la sirena giusto per sentirti meno depresso, tu che t’eri incastrato in un matrimonio a ventiquattro anni? Di quando frenavi all’ultimo secondo davanti al bar al Pigneto e guardavi male quel poveraccio di Cavellini per farti offrire i caffè e le bombe? L’unico momento in cui ti riusciva di non fare lo stronzo era quando mi mostravi le foto di tua figlia, all’epoca due anni appena.
Te lo ricordi, oggi, quel giorno di vent’anni fa? Ci conoscevamo da quanto, due mesi? Ero finito subito su strada a fare ronde, a controllare piazze, su e giù per la Casilina. Avevo vent’anni, fresco fresco di diploma da perito edile che non c’entrava niente, fresco di addestramento che aveva smontato ogni ideale da paladino.
«Mario Angeletti, stai con Marini stasera» aveva ordinato l’ispettore Zamponi, pace all’anima sua. Un destino segnato.

Commissario Angelo Marini, titola il sottopancia. Cinquant’anni portati male, la faccia gonfia da alcolizzato, le dita gialle da fumatore. Ma tutto scompare sotto l’aquila dorata della polizia, sotto le mostrine con tre stellette. Tutto scompare sotto l’aura di autorità e le parole preparate per bene da qualche assistente che, come te ieri, vuole solo fare carriera. Sarà lui a sostituirti quando sarai troppo rincoglionito per dare ordini, magari è uno di quelli che ora ti seguono come un cane rognoso.

Anche io ti seguivo, come avevo seguito mia madre che voleva a tutti i costi farmi mettere quella divisa. Ti seguivo perché per uno uscito con quaranta non c’era molta scelta. Ti seguivo perché all’epoca se non avevi un padre che andava a pulire i cessi a casa di qualche ministro potevi pure crepare.
Come tante volte in quelle uscite notturne, anche quella sera la chiamata arrivò.
«Sei pronto Marioli’? Bisogna andare a controllare una lite domestica».
L’ennesima serata inutile si prospettava, dal finestrino guardavo annoiato le tabaccherie piene di rifiuti umani, le strade piene di mignotte ben mascherate, i ragazzini che fumavano appartati nei vicoli.

Scapparono tutti quando videro arrivare i lampeggianti blu. Te la prendesti comoda, a infilarti il berretto, a controllare la pistola, a camminare come uno sceriffo. Ti seguivo, come da procedura, guardandomi intorno, gettando occhiate nel buio del giardino, fra i cassonetti buttati all’aria, fra le cicche di sigarette smozzicate. Ti seguivo oltre il cancello condominiale, l’ascensore rotto, le cassette sfasciate. Seguivo sulle scale il tuo grosso culo imbottito di blu.
Quattro uomini prendevano a calci la porta dell’interno numero dieci, urlavano, bestemmiavano. Si rintanarono d’un tratto come cagnacci bastonati.

«Allora?».
Ti guardavano, gli occhi pieni di rabbia e paura.
«Agente, l’infame sta qua dentro».
«Che infame? Chi di voi ha chiamato per lite domestica?».
«Ma quale lite, agente, qua dentro ci abita un pezzo di merda».
«Vediamo se il signor… Perelli ci può dire qualcosa. Signor Perelli, mi sente?».
La voce era attutita e sbiascicata, arrivava appena al di là del muro scrostato.
«Signor Perelli, apra, abbiamo ricevuto una segnalazione e dobbiamo controllare».
«Chi siete? Che volete?».
Il sorriso ti s’accese in faccia. «Siamo la polizia».

L’occhio allucinato di Stefano Perelli comparve, frenetico fra i battenti della porta.
«Non ho fatto niente!».
«Se niente ha fatto, niente ha da temere. È stato lei a chiamare poco fa?».
«Sono stato io».
Uno dei cani rabbiosi aveva aperto bocca.
«E perché avete chiamato?».
Si guardavano, loro quattro, indecisi su chi dovesse farsi carico del fardello. Perelli intanto aveva aperto la porta, sembrava spavaldo ora che la polizia s’era manifestata.
Il più alto dei quattro scattò verso Perelli urlandogli stronzo, pezzo di merda, dove sta Lidia?, che le hai fatto. Perelli smanacciava, urlava. Quasi t’ammirai quando spingesti via lo spilungone.

«Chi è Lidia, Perelli?».
«È mia figlia, agente».
«E dove sta?».
«In camera sua».
«Posso vederla?».
Tentennava, Perelli, non voleva farcela vedere, Lidia. Feci un passo.
«Signor Perelli, sono l’agente Angeletti, possiamo vedere Lidia?».
«No».
«Perché no?».
«Non potete entrare senza mandato».
Lo guardasti. «Queste cazzate le ha sentite in TV, Perelli?».
«Voglio un avvocato».

Cambiasti faccia, vidi il sudore scendere dalla fronte. I quattro avevano ripreso a fare casino, indecisi su chi dovesse fare la parte del leone.
Fu un istante, entrasti spingendo di lato quel drogato, me lo trascinai come un peso morto. Puzza di marcio ovunque, scatolette di tonno sgocciolavano in cucina. Vestiti a terra, il televisore acceso su un canale di televendite.
«Lidia, dove sei?».

Non lo capivo perché urlavi così, sembravi preda di un terrore nuovo.
Poi la vidi nella camera da letto. Una ragazzina terrorizzata, livida sul volto, il labbro spaccato. Rimasi paralizzato, la presa sul mostro più salda.
In silenzio, con premura, ti togliesti la giacca per coprire quel corpicino nudo e tremante. Occhi diversi sul tuo volto.
«Che le hai fatto?».
«Ho diritto a un avvocato».
«Cosa. Cazzo. Le hai. Fatto».

Perelli si voltò verso i quattro uomini, una maschera distorta di malvagità. Fu in quel momento che capì che poteva salvarsi, forse.
«Portatemi in centrale, confesso tutto, portatemi in centrale».
Me lo strattonarono via, lo presero a calci. Mi ritrovai senza berretto, urlavo, continuavo a dire non potete, siamo la polizia. Nel gran trambusto percepii a un certo punto la Beretta gelida, le zigrinature sulla guancetta, l’indice sotto l’otturatore.
«Angeletti, ma che cazzo fai? Mettila via!».
I quattro uomini tenevano le braccia alzate. La misi via, chiesi scusa, lo sguardo perso.
Perelli era andato, forse era salita qualche botta. Continuava a ripetere portatemi in centrale, confesso tutto, non potete toccarmi, è la legge.
Tirai fuori le manette. Le parole uscivano da sé, attutite, macabre. Forse avevo iniziato col Miranda warning come nei film americani.

Se le cose fossero finite lì, forse sarebbe andato tutto diversamente. Oggi porterei ancora questa divisa, invece di passare le giornate a sventrare animali morti. Invece no.
«È la legge, non potete farmi niente. Ma quando esco vi vengo a cercare, lo so dove abitate, è mia figlia e faccio quello che voglio. La legge mi protegge!».
Commissario Angelo Marini titola il sottopancia. La fede d’oro al dito sbrilluccica durante l’intervista. Ma allora la fede d’oro si schiantò con un colpo secco contro lo zigomo di quel drogato figlio di puttana, lo vidi sbarellare, sbattere contro l’armadio, accasciarsi sui vestiti luridi.

«Questo stronzo non merita di finire in carcere».
«Non possiamo lasciarlo qui!».
Ancora me lo ricordo quello che mi rispondesti.
«Quando avrai un figlio capirai che certa merda è buona solo come concime».
«Angelo, non possiamo farlo. È la legge».
Feci appena in tempo a vedere le tue nocche arrossate, sentii la tua presa sul collo.
«Lo giuro su Dio, se lo vedo uscire dal portone sparo prima a lui e poi a te».
Te ne andasti, calpestando le scale come a voler scacciare un pensiero. Lidia ti seguiva.
E lo feci anch’io, testa bassa e berretto calato sulla fronte. Sapevamo entrambi che quel Perelli sarebbe uscito dal carcere e avrebbe di nuovo violentato la figlia. E oggi, con lo sguardo che scorre fra te e la mia Anna, che coi pastelli riempie di rosa l’album di Peppa Pig, capisco perfettamente quello che mi dicesti quel giorno di vent’anni fa.
Maledetto.

FINE