La notte era scesa pesante su Villa Ardesia, che si ergeva malinconica e abbandonata, nascosta tra le querce e cipressi contorti che sopravvivevano nel giardino e sembravano piegarsi verso di lei, come se volessero proteggerne i segreti. Era una casa vittoriana massiccia, di pietra scura, con le facciate sbiadite dal tempo e un tetto di ardesia rotto in più punti, da cui spuntavano ciuffi di muschio e piccole felci, come ferite curate da un medico inesperto. La villa sorgeva ai margini di Roccombrosa, un paese nel quale ormai da tempo non viveva più nessuno. Tutti se n’erano andati da anni, spinti lontano dall’alluvione che aveva diroccato metà delle case e reso inabitabili quasi tutte le altre nella notte tra la fine di ottobre e il primo novembre di tanti anni prima. La siccità che era seguita negli anni successivi aveva fatto il resto, spingendo ad andarsene anche gli ultimi, spinti dalla polvere e dal freddo di autunni che cadevano come fumo dalle colline circostanti.
Ma Teresa era rimasta. La sua casa era fra le poche che avessero resistito, non era mai stata sua intenzione abbandonarla. E ad ogni Halloween si svegliava presto e preparava i dolcetti. Aveva ormai le mani tremanti e il cuore fragile, ma andava in cucina, mischiava gli ingredienti con lentezza, ritagliava forme di fantasmi e zucche e le infornava. Poi apparecchiava la sala con candele ormai basse e consunte, che brillavano di una luce tremula e incerta.
Ogni Halloween, si sedeva nel salotto e aspettava, come quella prima notte dopo il disastro. Teresa aveva perso le sue due sorelle, Anna e Margherita, trascinate in un burrone dall’impeto del torrente Rionero, trasformatosi in fiume a causa delle incessanti e violente piogge. Da allora era rimasta sola in quella casa, sempre in attesa di un ritorno.
Le dodici che dividevano il 31 ottobre da Ognissanti rintoccarono dal vecchio orologio a pendolo, che sembrava ormai suonare per la casa vuota con la sua eco tremebonda. Teresa tirò un sospiro di rassegnazione e si alzò, trascinando i piedi verso la porta. Sarebbe stata un’altra notte inutile, persa tra il gelo e il silenzio. Ma non poteva farne a meno. Se no che senso avrebbe avuto resistere?
Proprio allora, tre colpi risuonarono alla porta.
Scalza e tremante, Teresa si trascinò sull’uscio ed aprì. Si trovò davanti due esili figure che la guardavano con occhi tristi e lontani, reggendo moccoli di candele. Una aveva il volto dipinto da scheletro, l’altra da zombie, con le cicatrici disegnate malamente.
Teresa rimase a bocca aperta, incapace di credere a ciò che vedeva.
“Dolcetto o scherzetto?” disse una delle figure, con la voce gracchiante di Anna.
Un brivido salì repentino lungo la schiena di Teresa, che per l’emozione non riuscì a rispondere. Davanti a lei c’erano Anna e Margherita, esattamente come quella sera, con gli stessi sorrisi e gli stessi costumi da cui spuntavano lembi strappati, polvere e quel grigiore che appartiene solo ai ricordi e alle cose dimenticate. I loro volti pallidi risaltavano alla luce delle candele, e gli occhi, spenti e profondi, cercavano i suoi.
“Vuoi… volete entrare?” riuscì a sussurrare Teresa, accennando alla sala.
Ma le sorelle scossero la testa, serie. “Siamo venute solo per salutarti,” disse Margherita, con quella voce da bambina che Teresa ricordava fin troppo bene. “Non ci aspettare più, Teresa. Torna alla luce, e vivi anche per noi”.
Prima che Teresa potesse ribattere, un vento improvviso soffiò dalla porta aperta e fece spegnere le candele. Le figure di Anna e Margherita si dissolsero in un sussurro, portando con sé l’ultima illusione.
Teresa rimase ferma sull’uscio, incerta se credere a un’apparizione o a un sogno ad occhi aperti, ma con la consapevolezza che quella sarebbe stata l’ultima notte in cui avrebbe aspettato.
Chiuse piano la porta e si sedette al buio, sgranocchiando i dolcetti, mentre la casa ripiombava in un cupo silenzio.