Non appena la porta marcia cigolò schiudendosi di poco, un soffio di buio sembro inghiottire Francesco, che esitò sulla soglia, il fiato sospeso. Il silenzio era spesso, saturo di umidità. Fece un passo avanti. Poi un altro: saliva e girava. La pietra sotto i suoi piedi emise un gemito sordo, una sorta di lamento.
Girava e saliva. Il chiarore rarefatto, che filtrava da fessure invisibili, illuminava fugacemente tele di ragno tese come vene rinsecchite lungo le pareti. L’aria odorava di muschio fradicio e sapeva di tempo sospeso. Quando perse l’equilibrio, la sua mano scivolò contro la roccia sudata. Ritrasse le dita sussultando di scatto: il muro sembrava vivo, pulsante.
Poi, una voce. Senza origine, senza corpo. «Chi sei?».
Il gelo gli strinse la nuca, le orecchie si tapparono. Deglutì a fatica. «Io… io sono Francesco, Signore… o Signora. Mi scusi, io non vedo…».
«Chi ti ha fatto entrare?».
Il fiato gli si condensava sulle labbra rigide. «Nessuno. Ho trovato la porta aperta e…».
«E hai pensato fosse lecito entrare senza invito?».
«Io… mi scusi. Non ero mai stato qui, ho sentito delle storie e volevo vedere…».
«Ah, così volevi vedere. Ne sei certo? Puoi ancora andartene, se vuoi».
«No, io voglio vedere. Si raccontano certe storie al villaggio…!».
L’eco della voce s’insinuava tra le pietre, scivolava sotto la pelle; sembrava provenire da tutte le direzioni e da nessuna in particolare.
Un fruscio più intenso sulla parete di fronte lo fece trasalire. Fissò l’ombra indistinta: fremeva, poi si mosse. No, non si mosse: respirò. Qualcosa prendeva forma.
Lentamente, con la pazienza della ruggine, una figura emerse dalle pareti muschiose. Un corpo inglobato alla roccia, fuso con la struttura stessa.
«Non saresti dovuto entrare». La voce non aveva bocca. Era la pietra a sussurrare.
Francesco indietreggiò. Voltò le spalle e iniziò a correre. I piedi sbatterono sui gradini, le mani cercarono un appiglio, disperate.
La scala non finiva. Correva, saliva, girava in tondo. Ogni ragnatela, ogni chiazza di muschio si ripeteva incessantemente. Il respiro gli lacerava i polmoni, come schegge di vetro.
Poi sentì qualcosa serpeggiare sotto la pelle. Qualcosa che s’insinuava come veleno in ogni vena, in ogni arteria. Un fremito gli irrigidì la schiena con violenza. Le sue ossa, ad una ad una, si spezzarono. Le linee del palmo, quelle che raccontano una vita, si fecero più profonde, come crepe. Il polso si irrigidì, le giunture persero elasticità. La mano non obbediva più, ogni tentativo di chiuderla in un pugno si sgretolava in uno sforzo inutile.
Poi il colore svanì del tutto. Il rosa si fece cenere. La cenere si fece grigia. Il grigio divenne roccia.
Il respiro si spezzò. Il suo stesso corpo gli stava sfuggendo, il sangue diventava pietra, il respiro muschio, le ossa si fondevano al suolo.
Un soffio di voce gli sfiorò l’orecchio. «Sta succedendo anche a te».
Proprio quando credeva di essere ormai perduto, Francesco udì un bisbiglio diverso: «Non credere a tutto ciò che senti».
Le pareti tremarono. Francesco si svegliò nella stalla, il respiro affannoso. Sentì ancora l’odore di muschio, ma tutt’intorno c’era solo fieno. Sulla sua pelle, però sottili venature grigie si diramano come crepe e sembravano salirgli lungo il braccio.