Uomini contro

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«In guerra la disciplina è un’esigenza dolorosa ma necessaria».
«Questa linea sarà la nostra tomba o il nostro onore».
Il repertorio del generale Leone è ricco di queste frasi retoriche, vuote e pompose, che costellano la trama del film come un  odioso ritornello e che suonano tristemente ridicole in mezzo al fango della trincea.
Uomini Contro racconta, attraverso le vicende di una divisione dislocata sull’Altipiano dei Sette Comuni, i meccanismi della Grande Guerra tra il 1916 e il 1917 e l’impreparazione dell’esercito italiano di fronte al conflitto. La rappresentazione della vita di trincea, dell’inadeguatezza degli armamenti e della noncuranza con cui l’Alto Comando impartisce ordini contradditori è impietosa e dettagliata, sino alla descrizione delle estreme e inevitabili conseguenze.

Lo scontento dei soldati è affidato a un’interpretazione corale, da cui emergono soltanto pochi personaggi ricorrenti, mentre le riflessioni più profonde sulla natura della guerra arrivano dalle figure di comando, ognuna portatrice di una diversa ideologia. In particolare il film si concentra sullo scambio di pensieri tra il tenente Ottolenghi, disilluso socialista, e il giovane sottotenente Sassu, interventista amante della Patria che, inevitabilmente, finirà per ricredersi.
Su tutti incombe il rappresentante del Comando, il generale Leone: ligio alla disciplina e amante della guerra sino al paradosso, del tutto incurante del fattore umano nel dare ordini, costringe i propri soldati a ripetute missioni suicide senza alcuna esitazione né scrupolo. La trama non lascia adito a dubbi su chi sia il vero nemico. Persino l’esercito austriaco, mai mostrato se non attraverso gli effetti devastanti dei colpi di mortaio, è più compassionevole: in una scena sono gli stessi cecchini ad esortare gli italiani a ritirarsi, a non farsi uccidere in modo così insensato.
Tra i pregi della pellicola occorre annoverare l’esattezza della ricostruzione storica: oltre che dalla cura dei costumi e delle ambientazioni, emerge anche dall’attenzione al linguaggio; nel corso del film è possibile riconoscere, attraverso le cadenze dialettali, giovani provenienti da tutta l’Italia, ad ulteriore testimonianza del dramma nazionale che si rivelò la Grande Guerra.
In generale tutto il sottofondo sonoro del film può vantare una vita propria e un ruolo di primo piano nel commentare, ora con scherno ora con commozione, le storie dei vari personaggi, donando maggior spessore alle vicende anche quando non sarebbe possibile approfondire ulteriormente l’intrreccio.
Dal punto di vista visivo, inoltre, Uomini Contro presenta soluzioni di grande finezza e di straorinaria efficacia nel trasmettere il proprio messaggio, soprattutto nelle scene d’azione. Basti osservare le accecanti corse dei soldati tra la polvere e la luce soffusa: il risultato è una foschia bianca, nella quale si stagliano improvvisi i profili e risaltano vivide le macchie di sangue.
Anche la fotografia (di Pasquale De Santis) contribuisce con inquadrature memorabili. Alcune sono addirittura sorprendenti, se si pensa che il film è stato girato nel 1970: in alcune prospettive dal punto di vista dei temibili cecchini austriaci, il film sembra un contemporaneo videogioco di guerra. Nelle sequenze di marcia invece gli uomini non vengono mai ripresi per intero, ma attraverso dettagli precisi: davanti alla macchina da presa sfilano solo stivali ed elmetti; i soldati ne risultano spersonalizzati sino a diventare irriconoscibili gli uni dagli altri, come nella visione distrorta di chi li considera soltanto numeri, burattini da spostare secondo i capricci del conflitto. La sensazione viene accentuata anche da una delle rare sequenze al chiuso, quando i feriti vengono soppesati dalla commissione medica con dovizia clinica e umana noncuranza, come fossero carne da macello.
Il più grande difetto del film è forse l’esasperazione del tono drammatico, che non concede tregua allo spettatore. Ci sono momenti di respiro in cui si arriva persino a sorridere, come quando il terribile generale cade da cavallo ed è costretto a ripiegare su un più modesto mulo per proseguire la marcia, ma hanno breve durata. Subito infatti i compagni malmenano il soldato che l’ha aiutato a rialzarsi. Persino Emilio Lussu, autore di Un anno sull’Altipiano, memoriale da cui Francesco Rosi trasse il film, si distanziò dal risultato finale scrivendo a Mario Rigoni Stern: «… tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato…».

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Silvia Littardi non prende mai decisioni dettate dal senso pratico. Infatti si è iscritta a Lettere Moderne. Ha conseguito una bella laurea triennale e poi una bellissima laurea specialistica in scienze della letteratura, del teatro e del cinema. In generale ha trascorso un quarto di secolo a studiare, passando il tempo libero a divorare libri e fumetti e a guardare tutti i film che poteva. Insomma, non ha ancora combinato nulla di buono, ma è contenta lo stesso, perchè ha avuto la fortuna di poter fare solo quello che le piaceva. Ora la povera ingenuotta spera di poter continuare così per tutta la vita. Forse potrebbe anche rinsavire e incominciare ad affrontare la dura realtà, ma quando si perde d'animo l'umanità la sorprende con risposte gentili e inaspettate. Allora ricomincia a scrivere.

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