Il vento fa il suo giro

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Philippe, corpulento ex professore francese riciclatosi pastore di capre per raggiungere un contatto più vero con la natura, si trasferisce con l’avvenente moglie Chris e i tre bambini dai Pirenei a uno sperduto villaggio della Val Maira, Chersogno, proprio sotto il Monviso. Il suo arrivo provoca inizialmente la naturale diffidenza dei paesani, un centinaio di persone per lo più anziane, chiuse nella loro ostinata diversità culturale (i vecchi parlano tutti l’antica lingua occitana, sorta di miscuglio fra il piemontese e il francese, e anche i pochi giovani presenti si adeguano); saranno Costanzo, sindaco del minuscolo Comune, e Fausto, un famoso clarinettista, originario del paese, che vi sta svernando a causa di un incidente al braccio, a convincere gli abitanti ad accogliere lo straniero, giocando soprattutto sulle opportunità economiche e turistiche (Philippe produce dell’ottimo formaggio di capra, che vende a compaesani e turisti) più che sull’opportunità di entrare in contatto con una cultura differente. L’accoglienza a Philippe e della sua spaesata moglie, inizialmente più che benevola, si trasforma ben presto in ostilità manifesta; e questo sia a causa della cecità di alcuni paesani (tra cui la postina e gli avventori abituali dell’unico bar), sia per l’ostinazione dello stesso Philippe, che si chiude in un orgoglioso e insensato isolamento di fronte alle malelingue del paese. L’epilogo sarà tragico, e Philippe sarà costretto ad andarsene. Ma qualcuno ha capito il messaggio di tolleranza, ed è pronto, adesso, a prendere il suo posto…

Il vento fa il suo giro è la dimostrazione di quanto sia stolta e cieca la distribuzione in Italia, che a fine giugno riempie le sale con stolidi fumettoni o blockbuster stramiliardari e si dimentica, letteralmente, di una pellicola che non solo ha vinto premi in tutto il mondo (e in Italia ha sbaragliato il Bergamo Film Meeting ed è stata segnalata al Festival di Roma), ma che ha un respiro e una solidità narrativa che la maggior parte dei film presenti nelle sale a fine stagione nemmeno si sogna lontanamente. Sarà perché il film è in lingua originale occitana sottotitolato in italiano? Sarà perché non ci sono attori di prestigio, o pseudo-star da cartolina che mostrano compiacenti il proprio corpo? O perché non è ambientato a New York o in Costa Azzurra, ma in una sperduta valle misconosciuta del Piemonte? Non importa: nessuna scusa è buona per accampare alibi sulla fantasmatica presenza di questa pellicola sugli schermi.
Giorgio Diritti, ex assistente di Pupi Avati e al suo esordio come regista, affronta temi come la tolleranza fra culture diverse, la ricerca di una vita “naturale”, il ricordo di un passato glorioso e i timori verso l’avvenire, riuscendo a produrre uno splendido equilibrio fra esigenze narrative e profondità di visione: non c’è un’inquadratura fuori posto per tutto il film, i personaggi sono delineati alla perfezione e seguiti passo passo nella loro evoluzione, uno per uno e senza cedimenti né lessicali né visivi. Il presupposto morale alla base della vicenda permea la pellicola senza pesanti dialoghi (a parte un battibecco tra Philippe e Fausto sul significato stesso del termine “tolleranza”) o immagini didascaliche, e gli attori (quasi tutti non professionisti) seguono con prodigiosa adeguatezza i dettami del proprio personaggio. Siamo dalle parti dell’Olmi più ispirato, per intenderci, quello de L’albero degli zoccoli o de Il mestiere delle armi, che sapeva raccontare una storia senza cedimenti verso il mercato ma non dimenticandosi di essere un narratore al servizio del pubblico.
Certo, non tutto è perfetto: il sottofinale stona per l’uso di una metafora che suona artificiosa rispetto al realismo del resto del film (ma la soggettiva che parte dal cimitero mentre la voce fuori campo recita una struggente poesia è da brividi!), la figura della giovane moglie di Philippe è poco convincente nella sua ostentata malinconia, e forse si poteva legare meglio al resto della vicenda il racconto del “rueido”, sorta di rito collettivo che unisce i paesani fin dai tempi della Resistenza. Ma sono piccoli nei, dinnanzi alla commovente descrizione di un mondo che sta scomparendo e all’antiretorica contrapposizione di stili di vita diferenti, non avvinghiata a una tradizionale messinscena manichea (anzi, lo stesso Philippe è spesso un personaggio negativo), ma permeata piuttosto di un lirico realismo che ha del miracoloso.
Da non perdere, per nessun motivo.

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