Un tenente di polizia al primo incarico viene assegnato ad un distretto di polizia (il Distretto 13 del titolo) che sta traslocando, in un ghetto abbandonato di periferia. La situazione, apparentemente tranquilla, viene turbata dal sopraggiungere in rapida successione di un furgone della polizia che trasporta tre condannati a morte e di un uomo misterioso che, in stato di choc, afferma di essere inseguito. Poco dopo il distretto viene assalito da una gang di teppisti armati che intende vendicare l’uccisione di alcuni affiliati per mano della polizia. Ne segue un assedio sanguinoso.
La trama è esile, ed è solo grazie all’ottima sceneggiatura (dello stesso John Carpenter) che riesce a reggere per un’ora e mezza senza cedimenti. La struttura è quella tipica di tanti film western, unita all’atmosfera suburbana che Carpenter recupererà in uno dei suoi capolavori, Il Signore del Male. Ma qui siamo lontani del genere horror: ci troviamo in un incubo suburbano che risponde alle regole del thriller, e che sarà fonte di ispirazione per numerosi altri lungometraggi (basti pensare a Cuba Libre – La notte del giudizio di Stephen Hopkins o a I trasgressori di Walter Hill).
I nemici sono figure senza volto, ripresi sempre al buio: li scorgiamo ma non li vediamo mai chiaramente. E forte è il fascino di questo nemico nell’ombra, visibile ma indistinguibile, tipico del cinema horror e che, applicato ad un altro genere, funziona egregiamente.
Numerose sono le tematiche: da quelle mutuate, appunto, dai film western (l’onore, la lealtà e la legge del più forte) a quella del superamento delle reciproche diffidenze per la sopravvivenza personale, e a quella, infine, della ritirata di fronte al volto oscuro della società: gli emarginati, i ghettizzati, che si trasformano in folla e vogliono fare giustizia al di sopra della legge. È significativo, in questo senso, che sia proprio un galeotto a cercare di salvare la situazione (e la vita dei poliziotti).
Alcune scene sono memorabili, come le raffiche di proiettili provenienti dagli assedianti che distruggono i vetri e gli oggetti contenuti nelle stanze del distretto, creando movimento là dove gli assediati, spesso neppure inquadrati, sono staticamente sdraiati a terra in cerca di protezione.
Una pellicola che gronda violenza pur essendo molto più raffinata di quanto non sembri di primo acchito: le scenografie (di Tommy Lee Wallace), pur nella loro essenzialità, sono curatissime; le musiche (sempre di John Carpenter) sottolineano l’atmosfera con un’efficacia straordinaria; il montaggio (ancora di Carpenter) è perfettamente equilibrato; la tensione ben dosata: pur senza smorzarsi mai, è alternata a dialoghi scarni che ci dicono dei personaggi più di lunghi monologhi o presentazioni; personaggi che, pur essendo tagliati con l’accetta, mostrano tutta la loro umanità attraverso l’azione.
Claustrofobico, cupo, inesorabile, questo film del grande maestro americano è un vero cult, e una dimostrazione di come si possa fare buon cinema investendo cifre tutto sommato modeste: non servono effetti speciali quando si ha in mano una buona storia, e questa pellicola lo sta a dimostrare.
Tra i primi film di John Carpenter, questa pellicola a basso costo e priva di attori di richiamo è un piccolo gioiello che meriterebbe di essere conosciuto anche fuori del circuito di appassionati.
P.S. Assolutamente non all’altezza il remake del 2005, che pur con maggiore profusione di mezzi non riesce a raggiungere la tensione e il coinvolgimento emotivo della pellicola originale.